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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Admin (del 07/05/2011 @ 23:11:59, in articoli, linkato 967 volte)
Il governo militare alleato, sub regione di Resina, il 9 ottobre 1943, nomina come commissario prefettizio di San Giorgio a Cremano l’avvocato Eugenio Amendola, il quale, iscritto al partito socialista fin dal 1898, paga il suo tributo ideologico con la persecuzione e la persecuzione durante il ventennio fascismo. Egli dovrebbe sostituire gli avvocati fascisti Francesco Sparano e Giuseppe Cardini, rispettivamente, commissario e vice commissario prefettizi. A fronte dell’atteggiamento dilatorio della prefettura, l’avvocato Eugenio Amendola, il 4 novembre successivo, presenta le dimissioni al governo militare subregionale, il quale le respinge. A sorpresa la prefettura, il 22 dicembre 1943, nomina come commissario il ragioniere Salvatore Ambrosio, iscritto al partito fascista fino al suo scioglimento e impiegato al consiglio provinciale delle corporazioni alle dipendenze del gerarca Tecchio. Venuto a conoscenza di ciò, il governo militare invita l’Amendola a rimanere in carica, mentre la prefettura gli chiede, l’8 febbraio 1944, di dare attuazione all’insediamento di Ambrosio nella carica di commissario. L’interessato ottempera all’ordine prefettizio. Puntualmente giunge la netta e intransigente interdizione da parte del comitato di liberazione che, messo alle strette dall’ulteriore diniego di Amendola, nomina, il 13 aprile 1944, il dottor Salvatore La Campa sindaco di San Giorgio a Cremano. L’iter riserva ancora la sorpresa finale: nel momento in cui ulteriori indagini portano a galla di quest’ultimo l’appartenenza al partito fascista fino al suo scioglimento, il comitato ritorna sui suoi passi, fa le dovute pressioni su Amendola e lo induce ad accettare la nomina di sindaco.
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Di Admin (del 07/05/2011 @ 23:31:19, in articoli, linkato 591 volte)
Negli ultimi tempi i nobili hanno accentuato il loro potere a detrimento della cittadinanza. L’eco si legge a chiare lettere in un ampio memoriale accusatorio, composto da trentuno punti e inviato al presidente della Regia Camera, Bartolomeo de Sierra Ossorio, il quale, in seguito a dispaccio datato 26 giugno 1704, ne attiva la relativa indagine. Le accuse investono l’intera attività amministrativa, sempre più accentrata nelle mani nobiliari. Infatti, la recente apertura della taverna da parte di Luise de Palma si affianca alle due più antiche di Michele Cesarini e di Mario Mastrillo, ubicate, rispettivamente, al Carmine, alla dogana e nei pressi del mercato: tutte e tre godono del disgravio fiscale da trenta a quindici ducati per ogni botte di vino venduta nelle taverne e nei quindici fondaci locali, mentre gli ecclesiastici continuano a pagare sette carlini e mezzo per la stessa merce all’affittatore pro tempore. Dei suddetti personaggi il primo sovrasta di gran lunga sugli altri, tanto che ha avuto l’ardire di spostare la fiera di San Paolino dall’antica sede, larga e spaziosa, situata alla Porta di Gesù o Porta della Regina, alla nuova del Carmine, angusta e disagevole, ove egli ha costruito un insieme di locali, impiantandovi la “chianca”, la bottega e la taverna, appoggiandole, addirittura, alle mura della città e circondandole con una siepe. Nella elezione dei quattro Eletti i nobili mirano ad avere come colleghi o i renitenti o gli assenti o gli occupati, nominati a loro arbitrio ed in sedute insolite, per non esporre a controllo le numerose prepotenze di casta, esperite a danno della controparte. Nelle loro mani si concentrano la usurpazione di centinaia di moggia del bosco demaniale, situate nella località denominata ai Punti di Nola, i crediti fiscalari e strumentari, la esazione delle gabelle, l’esercizio monocratico delle cariche di baglivo, cancelliere e razionale del Monte di San Felice, cariche che, sulla carta, dovrebbero essere ricoperte da tre persone. Vi si avverte il segno negativo dell’avvocato Giulio di Palma, le cui sedicenti mansioni collettive, pagate dalle casse pubbliche, conoscono solo gli interessi privati
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Di Admin (del 13/05/2011 @ 06:03:03, in articoli, linkato 703 volte)
Il bilancio consuntivo di Pozzuoli, presentato l’8 novembre 1718, registra le entrate pari a 10.933 ducati, tre tarì e diciannove grana, cui corrispondono come uscite 10.930 ducati e quattro grana. Addentrandoci nel computo delle entrate, notiamo che svolgono un ruolo primario le varie gabelle che incidono sulla farina, sul caso, vino e olio, sulla carne, sul peso e scannaggio, sulla catapania, sulla confezione del pane, sulla neve, sulla portolania, sul “mondezzaro” e sulla zecca, i cui rispettivi gestori pro tempore sono Diego Folliero, Giovanni Battista Capomazza, Francesco Assante, Domenico Troja, Giuseppe Pettenato, Carlo Damiano, Geronimo di Nocera, Gennaro d’Ariano, Proculo Piccardo e Antonio Cauza. Seguono vari censi esatti da privati, tra i quali si distinguono Giuseppe Costantino, Salvatore di Costanzo, Filippo Compagnone, Matteo Iodice, la congregazione di San Filippo Neri dei mercanti napoletani, Paolo Sabatino, Francesco Adaldo, Vincenzo Volpe. Lo sguardo alle uscite, poi, ci permette, di verificare gli impegni nei confronti dei cosiddetti creditori strumentari, tra i quali la Casa della Santissima Annunziata rivendica un appannaggio di trecentoundici ducati e due grana. Oltre alla verifica finanziaria, l'esame in questione ci consente anche di recuperare alcuni pezzi del passato, costituenti l’essenza della società puteolana nel Settecento. Non a caso ben 250 ducati vanno a sovvenzionare, in termini di vitto e alloggio, i cittadini carcerati e poveri senza distinzione di sesso. Notevole risulta lo spazio dedicato al comparto religioso, ove eccellono le festività del Santissimo Corpo di Cristo, della Santissima Concezione, dei Santi Proculo, Gennaro e Giacomo che impegnano 350 ducati. Occupa un capitolo a se stante la Madonna: ella, nelle vesti di Regina del Parto, funge da protettrice suprema della cittadinanza la quale vi ricorre fiduciosa in ogni avversità. Per questo motivo la sua statua viene portata in processione per le strade cittadine quattro volte all’anno e la lampada nella cappella rimane sempre accesa. Le risorse riservate ai lavori pubblici contemplano gli accomodi alle infrastrutture viarie con i relativi canaloni sotterranei, le fontane, i ponti e le carceri. La manutenzione di cinque torri, utilizzate per la custodia delle marine, usufruisce di un budget annuo di novanta ducati. La procedura per l’elezione annuale della giunta, costituita dal sindaco ed Eletti, costa alla collettività centrotrenta ducati, in quanto presuppone la presenza del governatore con la cosiddetta squadra di campagna, deputata ad assicurare l’ordine pubblico.Attendono con gioia le festività pasquali le autorità centrali, in quanto destinatarie di un vistoso contributo, quantificato in centocinquanta ducati.
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Di Admin (del 19/05/2011 @ 00:17:40, in articoli , linkato 1564 volte)
La scena iniziale rappresenta il ventitreenne Alfonso Cerullo con la divisa di soldato borbonico battersi sul campo di battaglia contro i nemici fino alla capitolazione a Cisterna, donde si rifugia a Roma. Di qui, il 18 novembre 1860, affronta i rischi impliciti nella sua condizione di ricercato e ritorna nella sua città natale di Marano. Si nasconde per un pò di tempo nella masseria del principe di Castagneto, ove il padre lavora come colono. La sua presenza, però, non passa inosservata, per cui la soffiata di circostanza porta sulle sue tracce un comandante della Guardia Nazionale che lo sorprende nella taverna delle Pennine: gli spiana il fucile in faccia e gli intima di arrendersi. Puntando sulla sua destrezza e sulla momentanea indecisione dell'avversario, Alfonso riesce a liberarsi da quel terribile imbarazzo e si dà alla macchia nella campagna circostante. Le brevi comparse in famiglia, indotte dall'esigenza primaria di sfamarsi, avvengono con molta circospezione ed attenzione, ma non tale da farlo passare inosservato. Del resto nei piccoli paesi tutti sanno e vedono tutto, anche se, il più delle volte, non parlano. Proprio in una di queste sortite egli si trova di fronte un certo Iacobo Izzi che gli presenta Giuseppe de Maria, Giovanni Solla, Domenico Catuogno e Giovanni Volla, tutti latitanti per diserzione o renitenza. A questo punto, ritenendo di esporre anche la sua famiglia ad un grave rischio, nel mese di maggio 1861, si allontana di lì e costituisce una piccola banda. Gli approvvigionamenti avvengono da parte dei proprietari dei fondi limitrofi a Marano. Nel corso del mese di giugno ingrossano le fila il falegname Ferdinando d'Ippolito ed un suo compagno, entrambi napoletani che sono evasi dal carcere dei Granili, nonché altri tre uomini. Tutti costoro eleggono all'unanimità Alfonso Cerullo capo della banda, in quanto gli riconoscono la superiorità per l'arte dello scrivere, del leggere e del ragionare. Avendo urgente bisogno di armi, egli le chiede in prestito agli amici di Marano, tra cui Domenico de Vito, Giuseppe lo Zannuto, il sergente Fronna, Giuseppe Ruggiero, Matteo Carputo e Domenico Verde i quali non deludono le sue aspettative. Il suo nome corre sulla bocca di tutti i compaesani e diventa sinonimo di terrore. In siffatta atmosfera, il 27 giugno 1861, in cui si celebra la festa di San Crescenzo, il capitano della Guardia Nazionale di Marano, Camillo Spinosa, lo invita a presentarsi a casa sua per sciogliere la banda. Attratto dalla velata impunità, implicita nel garbato invito, Alfonso esegue quanto consigliato: consegna le armi ai reali possessori e, nella stessa giornata, scioglie la banda e si ritira nella masseria a lavorare. Dopo non molto tempo egli, annoiato dall'inazione e incalzato da ogni parte, ricompone la banda con l'adesione di quaranta uomini, provenienti, nella maggior parte, dai ranghi dell'esercito e dalle realtà regionali diverse. Infatti, dando uno sguardo veloce agli appunti personali del capo, annotiamo le identità di alcuni accoliti: Luigi Petrella e Biagio Fedele da Napoli, Crescenzo di Matteo da Pianura, Francesco Carraturo e Michele Rosselli dalla Sicilia, Vincenzo e Andrea Giuliano da Marigliano, Pasquale Panella da Pozzuoli, Saverio Perotti e Saverio Iallone da Marano, Nicodemo Ferrillo da Calvizzano, Carmine Trezzella da Nola, Luigi Casignano da Lecce, Gaetano Mincione e Dionisio Capassi dalla Basilicata. Il mentore in assoluto è certamente Macedonio de Maria il quale, vantandosi di far parte di un sedicente comitato borbonico, lo spinge a tenere duro, in quanto il re Francesco II, nel suo imminente ritorno al trono, lo ricompenserà adeguatamente. All'uopo gli manda qualche contributo per le spese più urgenti della banda la quale, da parte sua, concretizza la prassi del sovvenzionamento coatto. Così, scorrendo la relativa lista delle estorsioni, vi scorgiamo la somma complessiva di centrotrentaquattro ducati e quaranta grani, a cui concorrono, tra gli altri, il sacerdote don Mario de Magistris con venti ducati, il giudice Egidio Battagliese con due ducati e quaranta grani, Vincenzo de Martino con sei ducati, Arcangelo de Marino con tre ducati e sessanta grani, Giovanni de Marino con tre ducati e sessanta grani.Va da sé l'imposizione delle elargizioni in natura di vario genere, quali commestibili, abiti, armi e munizioni. Lo stesso discorso vale per quanto concerne i furti e le grassazioni, come quella perpetrata, il 24 luglio 1861, a danno della Guardia Nazionale di Chiaiano, ove, stando alla testimonianza diretta del protagonista, egli non partecipa, dal momento che febbricitante, assistito da due soli "guaglioni", giace "sopra un mucchio di frondi di castagne". Al ritorno i suoi uomini gli consegnano un pingue bottino di cinque o sei fucili, una tromba e una bandiera. Dopo pochi giorni, nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1861, matura la decisione di cambiare vita definitivamente. Forse, rimane coinvolto nella tempesta del dubbio circa il ritorno borbonico e non sopporta più la brutta piega di alcuni del suo seguito, dediti a "rubare e far denaro" per il solo gusto di delinquere. Così l'indomani si accomiata dai suoi uomini, dei quali molti, ben trentotto, continuano a percorrere la stessa strada sotto la guida di Crescenzo de Matteo, lastricandola di misfatti e crimini. Assapora i rigori del carcere un piccolo gruppo, nel quale si segnalano Giovanni e Gennaro Volla, Raffaele d'Amora, Luigi Corigliano e Luigi Pagano. Alcuni indossano la divisa militare, come Iacobo Izzo, Francesco Maria, Fedele Ippolito e Giuseppe Maria. Alfonso, rimasto da solo, vaga continuamente attraverso i campi per cinque o sei giorni, si sente braccato su ogni fronte, per cui alla fine non trova altra soluzione che rintanarsi in una cameretta al piano superiore dell'abitazione della sorella attigua e concomitante con la casa paterna, donde può osservare i movimenti esterni di quanti vanno alla ricerca delle sue tracce. Chiuso tra quelle pareti, trascorre il tempo dedicandosi a cucire e a filare, mettendo a frutto gli insegnamenti della sorella. L'unica sortita avviene il 4 ottobre 1863, allorché travestito da donna si reca ad ammirare il "basolato" nuovo e il palazzo recentemente costruiti nel suo paese. Purtroppo, nel suo rifugio arriva ad infiltrarsi la subdola voce dell'immancabile traditore di turno che, fingendo di preoccuparsi della sua incolumità, lo sollecita a rifugiarsi a Roma, seguendo le indicazioni superiori trasmesse attraverso due incaricati. Puntualmente, il 26 novembre 1864, questi ultimi sono sul luogo dell'appuntamento, ove Alfonso sopraggiunge accompagnato dai fratelli. I tre, saliti su una vettura, procedono alla volta di Napoli. Giunti alla barriera di Capodimonte, vengono sorpresi dalla forza pubblica la quale lo arresta, mentre i due compagni si qualificano come agenti della questura. Sottoposto a perquisizione, gli trovano addosso un fucile, un revolver, le munizioni, un coltello da caccia e alcuni documenti importanti, sulle cui note egli rievoca durante l'interrogatorio le tappe più significative della sua avventura esistenziale.
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Di Admin (del 29/05/2011 @ 07:15:07, in articoli, linkato 779 volte)
Le difficili condizioni politiche e sociali, in cui si dibatte Lettere nell'arco di buona parte dell'Ottocento, si condensano nella vita di Andrea Ruotolo che ne rappresenta uno dei principali mestatori. Infatti, la sua intrigante presenza si avverte fin dal 1837, allorché egli, più che trentenne, prende in fitto la mensa vescovile locale, già incorporata in quella di Castellammare fin dal 1818. Ciò gli consente di entrare nelle grazie di monsignor Angelo Maria Scanzano, sotto la cui protezione egli compie ogni forma di efferatezza e di violenza, ordite nel chiuso della masseria vescovile, trasformata in triste ricettacolo di merce rubata e di delinquenti incalliti. Eletto capitano della Guardia Nazionale di Lettere, arruola i concittadini più ribaldi, nomina come ufficiali gli amici ed i loro figli. Dopo il 15 maggio 1848, sciolta la Guardia Nazionale, con spregiudicata disinvoltura diventa lo "spione" della polizia in virtù dello spazio amicale concessogli da un certo Palmieri e dal commissario Campagna, ai quali consegna denunce redatte secondo il criterio della vendetta personale ai danni degli innocenti. Dopo alcuni mesi non esita ad accogliere in casa sua il capitano D'Afflitto, deputato a disarmare la Guardia Nazionale. Nella circostanza, avvenuta il 15 novembre 1848, egli si impossessa di tutte le armi dismesse. Subito dopo fa eleggere capo urbano Michele Sabbadino sborsando di tasca propria trentasei ducati. Così il campo d'azione delle sue malefatte si allarga ulteriormente, tanto che gli onesti cittadini, non riuscendo più a sopportare questa cupa atmosfera, affidano, nel 1851, le loro doglianze al nuovo vescovo Francesco Petagna. Tali speranze liberatorie non vanno deluse, come dimostrano i due immediati provvedimenti, vertenti, rispettivamente, sulla destituzione del capo urbano Michele Palladino e sull'esilio comminato ad Andrea Ruotolo, costretto a trasferirsi ad Avellino con l'intera famiglia sotto il peso di gravissime accuse. Tutto ciò non abbatte affatto la sua indole indomita e malvagia la quale si perita a comprare a suon di denaro contante la benevolenza della "camarilla", rappresentata da Palmeri, Campagna e dal colonnello Armenio. Ed i frutti non tardano a maturare: Andrea Ruotolo, richiamato dall'esilio, viene inviato con un incarico speciale in Calabria, donde ritorna, dopo un anno, nella città natale che sprofonda nel degrado precedente. Sono pienamente consapevoli del cambio di clima moltissimi compaesani, costretti con insulti e minacce a firmare una petizione inviata al re Ferdinando II e mirata ad abolire la costituzione, dopo che è stata stilata un'apposita delibera decurionale, fatta presentare da suo cugino Onofrio Ruotolo e da un suo amico don Benedetto Cavallaro i quali vi accludono anche una nota degli "attendibili". Con indicibile facilità indossa la maschera del trasformista il 25 giugno 1860, allorché si dichiara liberale e perseguitato politico, portando a testimonianza le più recenti pagine del suo vissuto personale, esperito lontano dal suolo patrio. Così dichiara guerra aperta ai suoi nemici, compresi gli attuali decurioni i quali, memori del passato ancora bruciante sulla loro pelle, deliberano di estromettere lui e i suoi figli dall'arruolamento nella Guardia Nazionale. Gli bastano solo pochi giorni per mutare completamente lo scenario, visibile tra gli scranni dell'aula consiliare nel successivo 22 luglio, allorché il sindaco Giovanni Giordano e i decurioni, debitamente minacciati, gli consegnano le chiavi della milizia cittadina. A questo punto egli diventa il padrone assoluto di tutto.
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Di Admin (del 29/05/2011 @ 14:26:37, in articoli, linkato 700 volte)
All'indomani dell'unità d'Italia, precisamente il 5 ottobre 1861, l'agricoltura in Terra di Lavoro, sebbene utilizzi ancora tecniche e metodologie antiquate, presenta condizioni generali soddisfacenti.Infatti, la produzione di grano non solo soddisfa la domanda interna, ma si proietta anche in ambito francese. Un percorso quasi analogo vale anche per l'olio. Guarda, invece, ai mercati inglese, francese e americano la robbia in seguito all'intensificazione produttiva, succedanea alla sua diffusione dal circondario di appartenenza a quello di Castellammare, nonché alla sua diversificazione, dovuta al colore più brillante rispetto all'omologa transalpina. I risultati potrebbero essere di gran lunga superiori, se ci fosse un'adeguata rete strutturale. Essa passa dalla necessità di sviluppo della rete viaria su strada, su ferro e sul mare, ad un accrescimento dei monti frumentari, essenziali per ridare respiro al contadino, costretto ad attingere le risorse finanziarie da fonti private quanto mai esose e strozzanti. Le industrie, legate all'agricoltura, riguardano l'allevamento del baco da seta, la distillazione dei vini e l'allevamento degli animali. Il primo comparto, inzialmente fecondo, si muove in un'angolatura ristretta, data l'atrofia dell'insetto. La distillazione dei vini, effettuata precedentemente con la materia naturale, al momento con il granone, particolarmente accentuata nei circondari di Nola, Caserta ed Aversa,registra tredici stabilimenti a Cicciano, cinque a Marigliano ed altri sparsi qua e là. Le maggiori richieste affluiscono dall'Inghilterra, dalla Francia e dall'America che pagano un dazio di tre ducati, pari a dodici lire e settatantacinque centesimi, per ogni pippa o botte di dodici barili. Gli animali lanuti,oltre le carni ed i formaggi, forniscono le cosiddette lane mosce, utilizzate per la confezione dei materassi e dei guanciali. Gli animali bovini, adoperati per i lavori dei campi e per il tiro dei carri in occasione dei trasporti pesanti e voluminosi, offrono la carne da macello, il cuoio e il latte, sostanza fondamentale dei formaggi chiamati Caciocavalli. Gli animali bufalini, cresciuti nei Mazzoni di Capua,offrono carne, ricercata, soprattutto, dalla povera gente in due mesi dell'anno, settembre ed ottobre,nonché ottimo e copioso latte, la cui trasformazione contribuisce alla confezione delle mozzarelle e provole, secche ed affumicate. Gli animali porcini ad ingrasso sono alimentati parte nei boschi con ghiande e parte con fave cucurbitacee e con granone: la loro carne è distribuita, fondamentalmente, nel circondario; sola una piccola parte viene destinata a quello di Napoli. L'industria manifatturiera, nella quale lavorano moltissimi operai, registra un settore dedicato alla lavorazione della seta organzina, attualmente in decremento per la malattia dei filugelli. L'attività di ben trentacinque stabilimenti procede con sei caldaie, quella di dieci con trenta; uno è dotato di una macchina a vapore. Presso Caserta spicca la real fabbrica di tessuti di seta di San Leucio, laddove i quattrocento lavoratori, di entrambi i sessi, sono specializzati a produrre stoffe, rasi, velluti, damaschi broccati, broccatelli ed altri articoli. Nel villaggio di Casolla si trovano sette colliere con sedici caldaie. Aversa si segnala per la produzione di tele, di vetri e di critalli, mentre a Piedimonte d'Alife, in virtù delle acque del fiume Torano, svetta maestoso lo stabilimento di Giovanni Giacomo Egg, addetto alla filatura dei tessuti di cotone e lino da parte dei novecento operai. Nello stesso circondario si trovano molti e rinomati lanifici per la consistenza e varietà cromatica dei prodotti: tra questi vanno annoverati quello di Polsinelli in Isola, quello di Ciccodicola e Sangermano in Arpino, quello di Zino in Carnello, quello di Picani, Lanni e Cocchione in Sant'Elia, quello di Manna e Simoncelli in Isola. A fronte di siffatta produzione non mancano le lamentele. Esse riguardano, soprattutto, l'imposta fondiaria che, raggiundendo il 5% della rendita, ne assottiglia l'introito. Alla luce di tale spaccato il coro degli operatori economici si effonde in una petizione concreta, veicolata a creare casse del credito fondiario, destinate a venire incontro alle "prestanze" agrarie, industriali e manifatturiere. Ai suddetti problemi, che costituiscono un pezzo della questione meridionale, deve rispondere la nuova classe politica con indicibile impegno, se davvero vuole cancellare definitivamente dall'immaginario collettivo il regime borbonico e contribuire a dare voce a chi è stato tartassato nel corso dei secoli.
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Di Admin (del 02/06/2011 @ 20:26:44, in articoli, linkato 732 volte)
Il passaggio di Agerola dal vecchio al nuovo regime si svolge sulla pelle di Angelo Fusco, nominato sindaco il 6 agosto 1860 e riconfermato nella carica successivamente dal luogotenente generale del re nelle province Meridionali. Questa elezione suscita una fiera avversione da parte di Filippo Brancati e della famiglia Acampora nelle persone del sacerdote don Luca e dei notai Luigi e Michele. La prima manifestazione pubblica, intrisa di colori reazionari, avviene nel villaggio di San Lazzaro il 25 dicembre 1860, allorché Gennaro Lauritano, Luigi, Vincenzo e Ferdinando Coccia con altri compagni lacerano un “fazzoletto tricolore”, portato in trionfo sull’estremità della baionetta da un soldato. I tentativi sindacali di arrestare i colpevoli cadono nel vuoto, in quanto i fratelli Caccia sono nipoti di Filippo Brancati, comandante della Guardia Nazionale locale. Uguale sorte tocca ad una analoga richiesta di istallare in loco una stazione di carabinieri, in quanto il Sottoprefetto di Castellammare, de Pascale, è imparentato con i Coccia. A questo punto gli avvenimenti, lasciati a se stessi, degenerano. Infatti, il 19 maggio 1861, un’altra manifestazione, organizzata dai soliti mestatori, presenta una maggiore consistenza di partecipanti ascesi a cento uomini che, per giunta, armati di tutto punto, al suono della banda musicale, sfilano per le vie di San Lazzaro inneggiando al re borbonico Francesco Secondo.La sosta minacciosa davanti alla casa comunale, ove è in corso di svolgimento il consiglio per la nomina dei consiglieri, produce la brusca interruzione dei lavori e la corsa sfrenata di tutti, compresi la Guardia Nazionale, il sindaco e il segretario, mentre l’orda scalmanata sghignazza di fronte alla lacerazione dello stemma di Vittorio Emanuele Secondo, attuata da Antonio Brancaccio, nipote di Filippo Brancati. Una forza militare, sopraggiunta nella notte, per ordine del Sottoprefetto, informato dei fatti incresciosi, esegue molti arresti dei rivoltosi, mentre altri si sono dileguati sulla montagna. A questo punto il sindaco, non potendo contare sulla Guardia nazionale, ne istalla un’altra sotto la guida del figlio Giuseppe il quale ne assume il comando il 4 giugno 1861, in seguito alla sospensione del capitano Filippo Brancati.L'azione concentrica di padre e figlio si traduce nell'arresto di altri reazionari e di alcuni che danno copertura agli sbandati, come Filippo Avitabile, Andrea Imperato, Gennaro Cretella alias Diavolillo. La vendetta, organizzata dai soliti Acampora e Brancati, si verifica il 7 agosto 1861: la banda di briganti, scesa dai monti, mette a ferro e fuoco Agerola, lasciata incustodita dopo la fuga degli appartenenti alla Guardia nazionale. Il sindaco è momentaneamente lontano da casa, mentre il figlio trova la salvezza rifugiandosi in un giardino vicino, mentre la loro casa viene spogliata di tutto, biancheria, oggetti e denaro. Il tutto si svolge tra le grida di gioia effuse da alcune donne delle famiglie Acampora e Brancati. Particolarmente attiva risulta Teresa Gentile, moglie di Pietro Campanile, la quale dona denaro e fazzoletti per asciugarsi il sudore al capo Antonio Cavallaro, cugino della moglie del notaio Michele Acampora. Le due vittime si trattengono per diversi giorni a Castellammare, ove presentano rapporto al Sottoprefetto e al comando generale di Salerno. L'avvento di un distaccamento dei bersaglieri, comandato dal capitano Romagnano, consegue l'arresto di molti esponenti della Guardia nazionali. Il capitano di stato maggiore di Salerno, Filippone,venuto subito dopo, non avendo trovato il sindaco, raduna il consiglio comunale e nomina nella carica sindacale Pietro Brancati, fratello di Filippo e padre di Antonio, uno dei partecipanti alla suddetta prima manifestazione reazionaria. Inoltre scioglie la Guardia nazionale e ne forma un'altra con a capo un nipote del sindaco, al cui fianco agiscono come aiutanti i notai Acampora. In barba a tutto ciò i briganti aumentano di numero e uccidono quanti manifestano attaccamento al nuovo sistema politico, come il sacerdote don Carlo Lauritano, Gregorio Coccia, Antonio Russo, Matteo Gentile e Pasquale Naclerio. Questo grave documento di accusa, le cui pagine trasudano profonda amarezza, viene stilato da Angelo e Giuseppe Fusco, costretti a vivere lontano dal paese natale.
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Di Admin (del 04/06/2011 @ 23:31:18, in articoli, linkato 1337 volte)
Nicola Martinelli, proprietario napoletano, giunge, mercoledì 15 aprile 1863, a Castellammare dopo mezzogiorno per sbrigare alcuni affari di famiglia. Verso le quindici e trenta, pronto a ritornare nella capitale, procede lungo la strada Quartuccio, allorché viene avvicinato da un individuo ignoto e strano nell’aspetto: “mustacchi folti e allungati verso il mento a piccola mosca di color biondo, capelli biondi tirati indietro agli orecchi, voce grossolana ed accento calabrese, con passo lento che gli fa curvare la persona nel camminare, con cappello all’italiana a cupolino”. Costui, dopo aver dimostrato di essere abbastanza informato sul suo privato, gli chiede un intervento per un cambio del servizio militare a favore del figlio, sorteggiato nella leva della marina. Quindi si presenta con il nome di Alfonso Chianetti e si mostra disponibile a versare per il suo interessamento 470 ducati, prontamente consegnati “in monete d’argento Napoleoni e mezzi Napoleoni”. Poco dopo il sedicente avventore, allontanatosi per cercare, a detta sua, il figlio, ritorna più preoccupato di prima con una vettura guidata da un giovane cocchiere che, dopo aver accolto Nicola Martinelli, spinge i due cavalli a tutta velocità alla volta di Vico Equense, ove si spera di rinvenire il giovane. Non desta alcun sospetto nemmeno la salita a bordo di altri due uomini i quali danno l’impressione di essere passeggeri diretti a Sorrento. Allorché l'abitato sparisce alla vista, si disvela l’insidia in tutta la sua tragicità: uno dei due ultimi arrivati aggredisce all'insaputa Nicola Martinetti, lo immobilizza, gli stringe un fazzoletto sopra gli occhi, gli lega le mani e lo spinge a percorrere a piedi per due ore e mezzo un’erta montana, alla fine della quale la vittima, liberata solo della benda, si trova immersa in una calcara. In questo luogo desolato e solitario inizia, alla presenza di cinque persone, uno strano interrogatorio, attivato da un interlocutore, chiamato dagli astanti “ Segretario di Sua Eccellenza il Cavaliere Pilone” e distinto tra gli altri perché porta “vicino ad un berretto alla tirolese tre piccoli ritratti in fotografia, cioè di Pio Nono, Francesco Secondo e Maria Sofia”. Il tono dialogico, fin dalle prime battute, procede lungo linee minacciose, in quanto si basa su un scambio di identità: l’aguzzino, ritenendo che Nicola Martinelli sia figlio o nipote di Raffaele, cassiere del Banco, e non di Vincenzo, preme per affermare la sua presunta tesi. Sconfessato dalla pervicacia dell’interessato e in preda all’ira, lo consegna ad uno dei presenti per l’esecuzione capitale. A questo punto Nicola Martinelli, non deflettendo minimamente dalla rivendicazione dei connotati paterni e dalla sincerità delle sue affermazioni, chiede che cosa fare per avere salva la vita. La concessione si appunta sul versamento di mille ducati e ottiene il permesso di farne richiesta epistolare, attraverso la consegna a mano, sia della domanda che della risposta, allo zio, domiciliato a Napoli in via San Tommaso d’Aquino. Nel frattempo la forza a resistere ad oltranza gli perviene dalla speranza di porre termine nel più breve tempo possibile alle tristi condizioni della prigionia che lo costringe a non essere padrone nemmeno dei movimenti più naturali. Gli infonde uno strazio indicibile, venerdì sera, 17 aprile 1863, il ritorno a mani vuote dell’emissario dall’abboccamento per il riscatto, il che si traduce in ulteriori maltrattamenti ed offese. L’estremo attaccamento alla vita porta l'infelice a tentare l’ultima carta: chiede ai suoi aguzzioni di rivolgere un’analoga petizione alla moglie con le stesse modalità. Siffatta autorizzazione viene concessa dopo un’estenuante trattativa, consumata nella eventualità di accompagnare la richiesta estorsiva con l’invio di un pezzo del corpo mutilato, cui, alla fine, subentrano, per fortuna, solo i peli della barba. In tal modo la lettera, destinata alla moglie e indirizzata al compare don Filippo Ardia, rettore della chiesa di Santa Maria a Mare, detta tutte le condizioni. A compenso di ciò i briganti gli portano via l’orologio e diversi “borderò” di circa ottanta lire di rendita al latore, conservati nelle tasche. Dopo due giorni di sosta, la banda decide di traslocare: percorre per cinque ore di viaggio luoghi scoscesi e tortuosi, trascinando anche il prigioniero nella nuova sede, circondata da fascine che, pur impedendo di effondere lo sguardo con chiarezza in lontananza, permettono attraverso le fessure di scorgere nelle immediate vicinanze, grazie al concorso rivelatore delle fiamme del fuoco, le figure di alcuni individui. Qui arrivano in serata negativi segnali libertari, dal momento che neppure la moglie ha obbedito ai suoi desiderata. Nel clima della susseguente disperazione brilla un insolito barlume di salvezza, visibile nella comunicazione della grazia accordata, a garanzia della quale Nicola Martinelli si impegna a ritornare a casa per procurarsi centottanta ducati e consegnarli personalmente entro otto giorni ad un incaricato nel Fondo di Capodimonte. La notizia fa apparire tutte le precauzioni restrittive a suo danno sotto una luce diversa, per cui non si avverte alcuna : l’apposizione della banda intorno agli occhi e i tre quarti d’ora di marcia. Finalmente con immensa gioia Nicola Martinelli gusta a pieni polmoni il sapore della libertà piena al bivio prospiciente al Largo dell’Arso e imbocca la strada della Cupa che conduce a San Giovanni a Teduccio. Si presenta alla stazione della Guardia Nazionale locale, ove racconta la sua strana avventura toccatogli e inoltra aperta denuncia contro i malfattori. Alla fine si ritira a casa, ubicata a Napoli al vico Vittoria a Buoncammino, n. 35, stanco e ammalato. In queste condizioni lo trova, nel pomeriggio di domenica, 20 aprile 1863, il vice ispettore funzionante in capo della Pubblica Sicurezza nella sezione Porto, Raffaele Manzi, recatosi a domicilio per interrogarlo.
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Di Admin (del 10/06/2011 @ 19:12:13, in articoli, linkato 868 volte)
Da un po’ di tempo Agerola versa in un degrado amministrativo assoluto, la cui eco perviene alle orecchie del Sottoprefetto di Castellammare il quale invia in loco un proprio emissario, Antonio Milone, per avere un quadro circostanziato dell’intera problematica. Costui ne fotografa lo spessore e ne addita le cause senza alcuna reticenza, lanciando strali accusatori a vasto raggio in una apposita relazione, datata 17 gennaio 1864. Innanzi tutto egli punta il dito inquisitore contro il sindaco Gennaro Avitabile, uomo dotato di spiccata bontà, ma di scarsa autorità e di inconsistenti conoscenze specifiche. Con lo stesso carico di responsabilità occupano un posto di rilievo anche i consiglieri comunali, il cui numero, non raggiungendo mai la presenza canonica delle venti unità prescritte, ne lamenta l’assenza sistematica di quattro elementi. I rimanenti sedici, poi, in perenne dissidio tra loro e privi, per la maggior parte, dei minimi rudimenti di fondo circa il loro ruolo istituzionale, soggiacciono proni alla volontà prevaricatrice e vessatoria del segretario comunale Coppola il quale “fa e disfa a suo talento”, arrogandosi, in pari tempo, i poteri del sindaco, della giunta e del consiglio comunale. Contro siffatto arbitrio sfacciato, speculare di estrema incuria e di accentuata disonestà, alzano invano la voce gli unici oppositori effettivi, Michele Acampora e Giovanni Villani, mentre Salvatore Amatruda e Pietro Brancati, che pure palesano con i precedenti due colleghi un’analoga formazione culturale di adeguato livello, procedono a passi felpati, dati i condizionamenti ambientali: Salvatore Amatruda espleta, tra l'altro la carica di segretario della Congrega di Carità. Non c'è bisogno di portare il segretario Coppola sul banco degli imputati in tribunale, dal momento che costituiscono gravi prove a suo carico tutti gli atti comunali: la nomina di Michele Acampora e Giovanni Villani a revisori dei conti della passata amministrazione, avvenuta all'indomani dell'avvento del suddetto incaricato prefettizio, esce dalla sua mente de imperio con il vizio della piena illegittimità, dal momento che Giovanni Villani è stato assessore supplente ; i consigli comunali si riuniscono senza obbedire ai criteri legali nemmeno nell'atto della convocazione; i registri dello stato civile del corrente anno sono in bianco, mentre carte volanti annotano le diverse notizie dei nati; quelli delle delibere portano solo la firma del sindaco; la lista elettorale giace in un cassetto senza il parere obbligatorio del Consiglio; il ministero delle finanze non conosce la contabilità militare, in quanto non è stata inviata a tempo debito, per cui il Comune corre il rischio di perdere gli anticipi già distribuiti circa due anni or sono. A fronte di una situazione così devastante e desolante il prefetto ordina l’allontanamento immediato del segretario disonesto ed indice la seduta pubblica per la surroga. Essa cade il 22 febbraio 1864, allorché i quattordici consiglieri nelle persone di Michele Avitabile, Nicola Avitabile, Giuseppe Avitabile, Luca Acampora, Silvestro Acampora, Pietro Brancati, Melchiorre Coccia, Filippo De Martino, Costantino Fusco, Nicola Imperato, Bonaventura Naclerio, Carlo Naclerio, Giuseppe Saturno e Giovanni Villani eleggono segretario Alfonso Frau di Praiano e vice segretario Davide Avitabile. Tra le righe della delibera si avverte l'auspicio generale di cambiare definitivamente marcia, onde gli interessi della collettività possano campeggiare in cima alle preoccupazioni degli amministratori.
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Di Admin (del 12/06/2011 @ 22:55:03, in articoli, linkato 1652 volte)
Nell’immediata vigilia dell’unità d’Italia in quasi tutto il distretto di Castellammare continuano le difficoltà nella riscossione dell’imposta sui beni immobili costituiti da proprietà agricole, meglio conosciuta con il nome di fondiaria. Nello specifico non costituisce affatto una eccezione Ottajano, ove molti contribuenti, appartenenti alla clase sociale dei galantuomini, edotti da un loro comportamento ormai inveterato con pendenze debitorie tuttora insolute, si apprestano a produrre un altro vistoso arretrato nell’esercizio finanziario in corso. Si legge nel comportamento degli interessati un alto tasso di estrema infingardaggine, le cui radici allignano tra gli stessi componenti dell’amministrazione comunale, come lamenta il ricevitore del distretto nel chiamare in suo aiuto il Sottintendente, il 3 marzo 1860. L’appello, reiterato dopo quattro giorni, si tinge di tinte allarmanti di fronte ad un atteggiamento ben più grave rivelato dai morosi i quali, a detta del contabile locale, addirittura osano nascondere qualche prodotto agricolo che potrebbe essere sequestrato. A questo punto non rimane altra strada che la coazione del pagamento con l’invio del piantone “con pernotto”. A margine viene riportato l’elenco di quanti presentano morosità per l’anno passato e il primo bimestre dell’anno in corso. In esso occupano i posti apicali Antonio Daniele con trentasei ducati e ventisei grana di addebito, Michele Ranieri con ventisette ducati, Gabriele Boccia, residente nella località Scocozza, con ventidue ducati e nove grana, Antonio Crispo con quattordici ducati e venti grana. L’ampiezza del problema si espande ulteriormente nella sua preoccupante gravità, allorché notiamo nel registro dei renitenti il pieno coinvolgimento anche di alcuni enti religiosi i quali manifestano un enorme ritardo nella stessa compilazione e presentazione dei bilanci annuali. Nella contestazione degli addebiti il conservatorio Ave Gratia Plena registra una sola annualità, la congrega di Santa Maria Visitapoveri sei annualità, quella dell’Assunta sei annualità, quella del Rosario tre annualità, quella della Santissima Concezione tre annualità, la chiesa di San Giuseppe una annualità. Questi, messi alle strette delle loro responsabilità, non si perdono d’animo e trovano un alleato di turno nel principe di Ottajano il quale, nella sua veste di sovrintendente del consiglio generale degli Ospizi, non esita a concedere ai richiedenti la salvifica proroga, il che comporta la rimozione immediata dei piantoni. Nei mesi successivi l’elusione daziaria non accenna ad invertire la rotta abituale, anzi alza il tiro e la voce, favoriti dal momento delicato del trapasso dal vecchio al nuovo regime. Non a caso gli elusori partecipano con intensa gioia ai tre giorni di festa, organizzata con analoga pompa nei tre punti della nostra realtà territoriale, nel centro di Ottajano, a San Giuseppe e a Terzigno, per celebrare il trionfale ingresso di Garibaldi a Napoli, avvenuto il 7 settembre 1860, in quanto hanno modo di toccare con mano che le forze dell’ordine sono impegnate in compiti più importanti, imposti da sfide di ben altra natura. Così, puntando su tale “distrazione” generale, essi procedono con aperte minacce nei confronti del personale percettorio e nella sistematica violazione dei sigilli imposti sulla merce sequestrata. In controtendenza le solitarie note di prostrazione intima del percettore distrettuale confluiscono nella chiusa della missiva del 15 ottobre 1860, in cui il mittente chiede al suo superiore almeno l’autorizzazione a poter contare sull’appoggio dei tre guardiani rurali comunali per effettuare il suo importante servizio nel vasto e difficile territorio di Ottajano. Si deduce il negativo segno della risposta dalla susseguente richiesta, datata 30 novembre 1860, in cui si richiede l’intervento dei carabinieri e dei bersaglieri per la riscossione daziaria non solo a Ottajano, ma anche a Torre Annunziata, Boscotrecase, Gragnano, Vico Equense, Massa Lubrense e Capri. Vi si avvertono segnali preoccupanti per l’immediato futuro, laddove sembra farsi strada l’idea che il rispetto della legge debba viaggiare sulla punta delle armi sguainate.
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