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Il sequestro di Nicola Martinelli ad opera della banda Pilone
Nicola Martinelli, proprietario napoletano, giunge, mercoledì 15 aprile 1863, a Castellammare dopo mezzogiorno per sbrigare alcuni affari di famiglia. Verso le quindici e trenta, pronto a ritornare nella capitale, procede lungo la strada Quartuccio, allorché viene avvicinato da un individuo ignoto e strano nell’aspetto: “mustacchi folti e allungati verso il mento a piccola mosca di color biondo, capelli biondi tirati indietro agli orecchi, voce grossolana ed accento calabrese, con passo lento che gli fa curvare la persona nel camminare, con cappello all’italiana a cupolino”. Costui, dopo aver dimostrato di essere abbastanza informato sul suo privato, gli chiede un intervento per un cambio del servizio militare a favore del figlio, sorteggiato nella leva della marina. Quindi si presenta con il nome di Alfonso Chianetti e si mostra disponibile a versare per il suo interessamento 470 ducati, prontamente consegnati “in monete d’argento Napoleoni e mezzi Napoleoni”. Poco dopo il sedicente avventore, allontanatosi per cercare, a detta sua, il figlio, ritorna più preoccupato di prima con una vettura guidata da un giovane cocchiere che, dopo aver accolto Nicola Martinelli, spinge i due cavalli a tutta velocità alla volta di Vico Equense, ove si spera di rinvenire il giovane. Non desta alcun sospetto nemmeno la salita a bordo di altri due uomini i quali danno l’impressione di essere passeggeri diretti a Sorrento. Allorché l'abitato sparisce alla vista, si disvela l’insidia in tutta la sua tragicità: uno dei due ultimi arrivati aggredisce all'insaputa Nicola Martinetti, lo immobilizza, gli stringe un fazzoletto sopra gli occhi, gli lega le mani e lo spinge a percorrere a piedi per due ore e mezzo un’erta montana, alla fine della quale la vittima, liberata solo della benda, si trova immersa in una calcara. In questo luogo desolato e solitario inizia, alla presenza di cinque persone, uno strano interrogatorio, attivato da un interlocutore, chiamato dagli astanti “ Segretario di Sua Eccellenza il Cavaliere Pilone” e distinto tra gli altri perché porta “vicino ad un berretto alla tirolese tre piccoli ritratti in fotografia, cioè di Pio Nono, Francesco Secondo e Maria Sofia”. Il tono dialogico, fin dalle prime battute, procede lungo linee minacciose, in quanto si basa su un scambio di identità: l’aguzzino, ritenendo che Nicola Martinelli sia figlio o nipote di Raffaele, cassiere del Banco, e non di Vincenzo, preme per affermare la sua presunta tesi. Sconfessato dalla pervicacia dell’interessato e in preda all’ira, lo consegna ad uno dei presenti per l’esecuzione capitale. A questo punto Nicola Martinelli, non deflettendo minimamente dalla rivendicazione dei connotati paterni e dalla sincerità delle sue affermazioni, chiede che cosa fare per avere salva la vita. La concessione si appunta sul versamento di mille ducati e ottiene il permesso di farne richiesta epistolare, attraverso la consegna a mano, sia della domanda che della risposta, allo zio, domiciliato a Napoli in via San Tommaso d’Aquino. Nel frattempo la forza a resistere ad oltranza gli perviene dalla speranza di porre termine nel più breve tempo possibile alle tristi condizioni della prigionia che lo costringe a non essere padrone nemmeno dei movimenti più naturali. Gli infonde uno strazio indicibile, venerdì sera, 17 aprile 1863, il ritorno a mani vuote dell’emissario dall’abboccamento per il riscatto, il che si traduce in ulteriori maltrattamenti ed offese.
L’estremo attaccamento alla vita porta l'infelice a tentare l’ultima carta: chiede ai suoi aguzzioni di rivolgere un’analoga petizione alla moglie con le stesse modalità. Siffatta autorizzazione viene concessa dopo un’estenuante trattativa, consumata nella eventualità di accompagnare la richiesta estorsiva con l’invio di un pezzo del corpo mutilato, cui, alla fine, subentrano, per fortuna, solo i peli della barba. In tal modo la lettera, destinata alla moglie e indirizzata al compare don Filippo Ardia, rettore della chiesa di Santa Maria a Mare, detta tutte le condizioni. A compenso di ciò i briganti gli portano via l’orologio e diversi “borderò” di circa ottanta lire di rendita al latore, conservati nelle tasche. Dopo due giorni di sosta, la banda decide di traslocare: percorre per cinque ore di viaggio luoghi scoscesi e tortuosi, trascinando anche il prigioniero nella nuova sede, circondata da fascine che, pur impedendo di effondere lo sguardo con chiarezza in lontananza, permettono attraverso le fessure di scorgere nelle immediate vicinanze, grazie al concorso rivelatore delle fiamme del fuoco, le figure di alcuni individui. Qui arrivano in serata negativi segnali libertari, dal momento che neppure la moglie ha obbedito ai suoi desiderata. Nel clima della susseguente disperazione brilla un insolito barlume di salvezza, visibile nella comunicazione della grazia accordata, a garanzia della quale Nicola Martinelli si impegna a ritornare a casa per procurarsi centottanta ducati e consegnarli personalmente entro otto giorni ad un incaricato nel Fondo di Capodimonte. La notizia fa apparire tutte le precauzioni restrittive a suo danno sotto una luce diversa, per cui non si avverte alcuna : l’apposizione della banda intorno agli occhi e i tre quarti d’ora di marcia. Finalmente con immensa gioia Nicola Martinelli gusta a pieni polmoni il sapore della libertà piena al bivio prospiciente al Largo dell’Arso e imbocca la strada della Cupa che conduce a San Giovanni a Teduccio. Si presenta alla stazione della Guardia Nazionale locale, ove racconta la sua strana avventura toccatogli e inoltra aperta denuncia contro i malfattori. Alla fine si ritira a casa, ubicata a Napoli al vico Vittoria a Buoncammino, n. 35, stanco e ammalato. In queste condizioni lo trova, nel pomeriggio di domenica, 20 aprile 1863, il vice ispettore funzionante in capo della Pubblica Sicurezza nella sezione Porto, Raffaele Manzi, recatosi a domicilio per interrogarlo.
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