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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il 22 aprile 1780, il consigliere Giuseppe Mauri compra per trentunomila ducati il feudo di Polvica dai coniugi Costanza Santomagno e Giuseppe Ferdinando Venturi, duchessa e duca di Minervino. La suddetta cifra comprende la privativa di alcuni privilegi, tra i quali la panizzazione.
Volendosi sapere il cammino antico del fiume Sarno ossia Drago, a differenza di quello che si vede oggi portarsi dalla città di Sarno sino alla Marina accanto allo scoglio seu isoletta detta di Rovigliano, oltre di altro fiumicello separato, che dicesi della foce di Sarno, il quale porta per alveo artefatto e separato sino ai terreni sopra la Torre dell'Annunziata ed ivi fa più artifizi, come odiernamente si vedono nella fabbrica di schioppi ed altro per ordine del Re Cattolico e conseguentemente le Molina del patrimonio di Sarno e più sotto cartiere e valchiere del principe di Frassia. Qual fiume Sarno, le cui acque anticamente erano composte così dalle acque che nascono nella Foce e nella Città come da quelle di Santa Maria, San Mauro di Nocera e da altre sorgenti, che sono a mano destra salendo e così unite si portavano nel mare, ove è la presente imboccatura a Rovigliano, era nei tempi antichi dipartito in due, uno alquanto piccolo il quale univa le acque di Santa Maria, di San Mauro e di altre sorgenti dette di sopra che si portavano nel mare e l'altro ben grande e navigabile, il quale si componeva delle totali acque del Sarno e Foce, le quali portandosi per un alveo verso Nola e da ivi per le campagne verso Marigliano, si univa con un altro fiumicello detto del Cranio che veniva dai monti di Avella, oggi ancora esistente, e poco appresso con altro fiumicello chiamato Veseri, che scorreva alle falde del Monte Vesuvio pel sito poco sotto Santa Maria del Pozzo, in dove anticamente vi era un ponte di fabbrica, qual luogo oggi dicesi Pontecitra, ove è una vasta masseria che si possiede dagli eredi del quondam Giuseppe Verduzio ...........: e camminando per tale direzione e passando per Acerra, si portava nel mare verso Patria, in dove vi era la foce di detto fiume. Per esso si potevano entrare imbarcazioni, le quali passando per detti paesi di Acerra, Marigliano e Nola si portavano nella città di Sarno.
Il re Carlo I d'Angiò nel 1277 regala al monastero di Real Valle il bosco di Scafati, chiamato di Frassino, ove i monaci possono raccogliere la legna, ma non cacciare gli animali selvatici, che rimangono patrimonio esclusivo reale. Nel 1283 Carlo II d'Angiò amplia siffatta donazione a favore del monastero di Real valle, aggiungendovi la terra di Scafati. Quindi nel 1464 la suddetta terra passa nelle mani di Antonio Piccolomini su disposizione dello zio, il papa Pio II. La bolla pontificia viene confermata dal re nel 1465. Trenta anni dopo, nel 1495, Scafati viene venduta dal re Ferdinando II a Maria Marzano.
Marcantonio Caracciolo, marchese di San Sebastiano, raccoglie il prezioso frutto del suo servizio nel momento in cui il re Filippo IV gli regala la terra di San Giorgio a compenso dei suoi meriti, come attesta la scrittura di Stefano del Giorno che ne conserva la traccia memoriale. Il beneficiario entra nel possesso del bene il 13 febbraio 1646, allorché firma il relativo rogito nello studio del notaio napoletano Giovanni Battista Brancale. L'opposizione decisa degli abitanti, mirata a invalidarne la donazione in tutti i modi, trova un alleato fedele nel viceré, ma ben presto è destinata a cadere di fronte alla voce autorevole del giudice del Collaterale, il cui presidente Marcuzio, richiesto del suo parere dagli omologhi della Sommaria, ritiene legittima a tutti gli effetti la suddetta concessione. Le due parti in causa, onde evitare qualsiasi litigio in materia, giungono ad una bonaria transazione in virtù della quale il marchese si mostra concorde a privarsi di alcune prerogative feudali, quali le angarie e le parangarie: le singole voci dell'accordo entrano nel nuovo rogito del 4 febbraio 1647, stilato da Giovanni Battista Brancale. Successivamente, in seguito alle benemerenze mostrate da Giovanni d'Austria verso San Giorgio, il marchese sottoscrive con la controparte un ulteriore accordo, basato sul totale riconoscimento della fine della feudalità e, quindi, l'incorpamento del territorio sangiorgese nel demanio napoletano, previo il pagamento di cinquemila ducati.
Mentre ferve il rodaggio della macchina amministrativa sangennarese, tutta protesa a rispondere con funzionalità ed efficienza alle diverse aspettative della cittadinanza, qualche palmese continua a tramare in silenzio contro la nuova realtà civica. Ci riferiamo al consigliere distrettuale Antonio Pecoraro. Costui consegna al Sottintendente di Nola, il 2 aprile 1852, una sedicente richiesta di riunificazione di San Gennaro a Palma, sottoscritta da tre soli sangennaresi, Angelo Pesce, Giuseppe Iovino e Ferdinando Cozzolino i quali, per bassi interessi di bottega, si prestano al gioco degli avversari. Il piano della congiura antisangennarese, ordito da un altro palmese, Pietro Felice Cassese, varca le soglie del consiglio distrettuale e si traduce, nel 1854, in una delibera provinciale, trasmessa alle autorità centrali. Mai lentezza burocratica fu più accettata di quella mostrata dal Ministro dell'Interno, allorché egli, scrivendo all'Intendente, il 19 maggio 1855, frena la delibera provinciale chiedendone il corso regolare. Sul fronte opposto, non desta meraviglia se, addirittura, una intera seduta del decurionato palmese è dedicata alla discussione del suddetto argomento. Corre il 16 giugno 1855 ed il consiglio palmese, presieduto dal sindaco Giacomo de Vivis, con malcelata soddisfazione, delibera di essere disponibile ad accettare la nuova istanza di riunificazione inoltrata da San Gennaro. Si vanifica ogni sforzo sangennarese, proteso a far capire alle autorità superiori la insignificanza del documento in circolazione e la conseguente insussistenza di qualsiasi volontà di ritornare allo statu quo ante. A questo punto, rotto ogni indugio, il 9 dicembre 1856, si riunisce tutto il decurionato sangennarese, composto dal sindaco Tommaso Parisi e dai decurioni Giovanni Bosone, Antonio Nunziata, Gennaro Nunziata, Antonio Sangiovanni, Ferdinando Nunziata, Bernardo Nunziata, Michele Auricchio, Felice Ammaturo e Gennaro Parisi. La delibera, stilata alla fine dei lavori, parla un linguaggio incontrovertibile: "questa popolazione non ha mai dimandato di aggregarsi al Comune di Palma, ma volontà palmese". Quindi essa smaschera la faziosità del presunto documento, attribuito, surrettiziamente, ai sangennaresi, imprimendovi il suggello della invalidità legale. Al riguardo molto più esplicita risulta la petizione sangennarese, stilata nei primi mesi del 1857 e inviata al Sottintendente dai sacerdoti don Michele Borrelli, don Aniello Fusco, don Agostino Nunziata, don Bernardo Nunziata, e dai laici Angelo Pesce, Tommaso Nappo, Giovanni Bosone e Filippo Muscia. Essa, ribadendo la consapevolezza dell'autonomia di San Gennaro da Palma, stigmatizza come "facinorosi" quanti attentano a tale bene prezioso e inalienabile.
Antonio Sersale, all'indomani della sua nomina a sindaco della Piazza Dominovi, avvenuta, in seguito a rinuncia di Giuseppe Mastrogiudice, l'8 novembre 1786, non ha proprio intenzione di recitare un ruolo subalterno rispetto ai colleghi di Piazza di Porta e di Piazza del Popolo, Carlo Guardati e Carmine Majr, eletti nello scorso 1° settembre. Infatti, egli subito si adopera ad ordire una trama sottile per estromettere Gennaro Sarnelli dalla carica di avvocato "ordinario" dell'Università di Sorrento, allorché il titolare Nicola Boccapianola, che ha esercitato la carica fin dal 1777, ha presentato le sue dimissioni. Il piano obbedisce alla trama della vendetta, in quanto Gennaro Sarnelli, negli ultimi tempi, è anche avvocato del Monte di Fiore, contro il quale il nuovo sindaco ha un contenzioso tuttora aperto. La motivazione occulta, entrata nel corpo della denuncia, perviene nelle mani dei giudici della Sommaria Angelo Cavalcanti, Laurentino Paternò e Nicola Granato, la cui sentenza, emessa l'11 dicembre 1786, ribadisce il principio secondo il quale la nomina dell'avvocato è di di competenza esclusiva del parlamento locale. Incurante di tutto ciò, Antonio Sersale, di propria iniziativa, convoca, il 17 dicembre 1786, il Consiglio e, grazie all'appoggio di consiglieri amici e parenti, chiamati ad esprimersi su una materia non di loro competenza, porta a compimento il suo disegno, favorendo la elezione ad avvocato "ordinario" dell'Università di Tommaso Frammarino. Naturale risulta il ricorso di quanti non condividono l'avvenuta designazione di marca clientelare, anche perché il legale defenestrato ha sempre difeso gli interessi della collettività con competenza e correttezza fin dal 1778, allorché oggetto della sua denuncia è stata la Deputazione della Salute. La Regia Camera, il 31 marzo 1787, accoglie la giusta istanza sociale: ribadisce il ruolo dell'avvocato Gennaro Sarnelli, cui spetta lo stipendio annuo di quaranta ducati, e ordina al governatore sorrentino di riprendere Antonio Sersale, condannato a pagare duecento ducati di multa. Nemmeno questa decisione sembra arrestare l'ira bollente del sindaco il quale, pur insistendo lungo la strada della opposizione, deve accettare la sconfitta definitiva il 9 luglio 1787, allorché la Regia Camera della Sommaria sconfessa ancora una volta il suo operato di bassa lega.
La risistemazione dei demani, avvenuta durante il dominio francese nel mezzogiorno, con la legge del 3 dicembre 1808, coinvolge anche Vico Equense. All'uopo l'Intendente della provincia di Napoli incarica l'agente forestale del distretto di Castellammare, Pasquale Garella. Costui si porta in Vico Equense il 6 maggio 1809 e chiede al sindaco Saverio Palescandolo quali siano le terre demaniali. L'interpellato risponde che esse sono il monte delle Camarelle, l'Estaurita di San Nicola di Arola e il Monte Comune. Fin da queste prime battute sorge il dubbio se la Montagna di Iovagna appartenga al demanio comunale oppure dell'estaurita di San Nicola di Arola. Per fugare ogni perplessità in materia l'esperto forestale decide di fare un sopralluogo diretto con esperti locali. Quindi stila la pianta, donde risulta che la Montagna di Iovagna appartiene all'Estaurita di Arola non solo per la divisione, formata dal rivolo denominato di Fiore, che attraversa entrambi i demani, ma per il possesso, come si evince dalla cautela esibita dall'amministratore Antonio Trombetta. Infatti, la documentazione porta alla luce che l'ultimo affitto è avvenuto lo scorso 12 giugno 1808, allorché la gara d'appalto per l'affitto della suddetta Montagna di Iovagna rimane aggiudicata a Gregorio di Ruggiero fu Domenico, Nicola Celentano fu Giuseppe e Carlo Parlato fu Saverio, i quali si impegnano a versare, a titolo di canone annuale, diciannove ducati e trenta grana nelle mani del suddetto amministratore in questo modo: nove ducati e trenta grana entro il prossimo primo settembre, i restanti dieci ducati entro la fine di marzo dell'anno successivo. Tale documento cancella in maniera definitiva ogni perplessità, per cui Pasquale Garella può rivolgere i suoi sforzi a disegnare le piante delle terre demaniali, operazione propedeutica per la la loro divisione. Tuttavia occorre dapprima l'assenso del decurionato locale il quale viene prontamente riunito dal sindaco Saverio Palescandolo il 9 maggio 1809, allorché sono presenti i decurioni Tommaso Sorrentino, Gesué Parascandolo, Michele Savarese, Ciro Starace, Andrea Palascandolo, Saverio di Martino, Saverio Attanasio, Giuseppe Gargiulo, Carmine Storace, Felice Buonocore, Ciro Cacciappoli, Gaspare Parascandolo, Pasquale Russo, Gioacchino Buonocore, Ciro Cosenza, Gaetano Cosenza, Andrea Cosentino e Anastasio Cocurullo. Il consesso delibera, alla presenza dello stesso Pasquale Garella, che le terre demaniali sono quelle comunicate dal sindaco. Su tali note procede il lavoro di computo e di disegno da parte dell'incaricato il quale vi allega anche una relazione, datata 27 luglio 1809, il cui contenuto rappresenta una foto viva della realtà montana vicana.
I gesuiti napoletani, vedendo che molti di loro si ammalano per i continui studi e gli esercizi spirituali, esperiti con frequenza nella sede partenopea, stabiliscono, nel 1597, di erigere una succursale nella località di Piano di Sorrento, la cui aria pura e la cui poca lontananza da Napoli costituiscono il luogo ideale per evitare l'inconveniente lamentato e per curare, nel contempo, le anime dei paesani. Ne comprende subito la piena portata materiale e spirituale Giovanni Vincenzo d'Angelis il quale consegna trecento ducati con il capitale di quattromila ducati nelle mani del provinciale della suddetta compagnia, padre Ludovico Mansone. Il benefattore, aggiungendo altri duecento ducati nel momento dell'avvento in loco dei padri, esprime il desiderio che la chiesa costruenda sia intitolata a Santa Maria di Gesù, per la cui costruzione si impegna a versare ulteriori mille ducati. Infine vuole che in detto collegio vi sia un padre o un forestiero il quale svolga colà le funzioni di insegnante di grammatica. Tutte queste condizioni si trovano codificate nel relativo atto notarile, datato 4 agosto 1597.
STALLA: Diciassette cavalli, cioé quindici per carrozze e due di sella, otto di essi al servizio del signor Duca. Sei mule, anco per carrozza, quattro di esse al servizio della signora principessa. RIMESSA: Una carrozza a quattro luoghi di velluto cremisi con cannottiglie d'oro, intrecciatura con retene, false retene e freno con fiocchi alla reale, anche l'intrecciatura con cannottiglie d'oro e finimenti di alacca rossa per servizio della duchessa. Un'altra carrozza a quattro luoghi di velluto cennerino di lana, con sei intrecciature dentro e fuori, con suo finimento di ottone. Un carrozzino a tre luoghi di velluto cremisi di lana, con sua intrecciatura di lana dentro e fuori, con suo finimento di poco ottone per il duca. Una carrozza di velluto verde, con intrecciatura di seta dentro e fuori con suo tuppo, retine e false retine, freno e fiocchi alla reale e finimenti di ottone nella detta carrozza per la principessa. Un carrozzino all'inglese di velluto celeste con suo finimento all'inglese, ottonato anche all'inglese, retene e false retene e freno, intrecciatura dentro e fuori, con suo tuppo e fiocchi alla reale per il duca. Un altro carrozzino all'inglese di velluto di ferma agghiacciato con sua intrecciatura dentro e fuori e con suo tuppo e suo finimento non all'inglese. Un altro carrozzino giallo di pelle per trapazzo con finimenti lisci senza ottone. Un barroccio di velluto verde con intrecciatura dentro e fuori con retene, false retene, freno e fiocchi alla reale, con suo finimento di alacca bianca........
Uscendo nella prima tesa della grada a mano sinistra vi è un quartino, dove dimorava il fu principe Michele. Una boffetta di legname con panno verde. Due boroncini di noce. Dieci sedie di paglia verde sdragallate d'oro, una tavola ad uso di scrivania di noce. Un borò di noce con vari tiratori, Salendo s'impiana nel quarto grande. SALA: Quattro cassabanchi per servitori, tutti dipinti, e nelle spalliere l'Armi della Casa Ecc. Un tosello di tela di Portanova di color giallo, con francia simile e sottocoverta ricamata l'impresa della Casa Ecc. Sette sedie tinte verdi sdraggate d'oro. Una boffetta di pioppo. Un torciere.......
La data di nascita della identità di Poggiomarino nell'ambito della realtà strianese, territoriale ed amministrativa, di cui fa parte integrante, risale al 6 aprile 1738, sancita con l'atto notarile di Giuseppe Antonio Cantore. Nell'occasione Striano è rappresentata dal sindaco Girolamo Sparano e dall'Eletto Andrea Sparano. Ben più nutrita risulta la rappresentanza di Poggiomarino, formata dall'Eletto Simone Mottola, da Costantino Sorrentino, Domenico Antonio, Giuseppe Nappo, Giuseppe Orlando, Lorenzo Sorrentino, Francesco Cantore, Mario Pizza, Arcangelo Aliberto, Nicola Sorrentino di Gioacchino, Domenico Sorrentino fu Gaetano. Questi ultimi ribadiscono l'osservanza degli oneri daziari presi precedentemente, per cui si impegnano, a nome della nuova realtà, rappresentata dai quartieri Poggiomarino, Santi Giacomo e Filippo, a pagare trecentoventi ducati all'Università di Striano ed in compenso ricevono l'assistenza terapeutica di due medici, di cui un "fisico" e l'altro chirurgo, nonché la facoltà di aprire "botteghe di grassa, vino, pane, carne ed ogni altro".