Il brigante Alfonso Cerullo si racconta
Di Admin (del 19/05/2011 @ 00:17:40, in articoli , linkato 1564 volte)
La scena iniziale rappresenta il ventitreenne Alfonso Cerullo con la divisa di soldato borbonico battersi sul campo di battaglia contro i nemici fino alla capitolazione a Cisterna, donde si rifugia a Roma. Di qui, il 18 novembre 1860, affronta i rischi impliciti nella sua condizione di ricercato e ritorna nella sua città natale di Marano. Si nasconde per un pò di tempo nella masseria del principe di Castagneto, ove il padre lavora come colono. La sua presenza, però, non passa inosservata, per cui la soffiata di circostanza porta sulle sue tracce un comandante della Guardia Nazionale che lo sorprende nella taverna delle Pennine: gli spiana il fucile in faccia e gli intima di arrendersi. Puntando sulla sua destrezza e sulla momentanea indecisione dell'avversario, Alfonso riesce a liberarsi da quel terribile imbarazzo e si dà alla macchia nella campagna circostante. Le brevi comparse in famiglia, indotte dall'esigenza primaria di sfamarsi, avvengono con molta circospezione ed attenzione, ma non tale da farlo passare inosservato. Del resto nei piccoli paesi tutti sanno e vedono tutto, anche se, il più delle volte, non parlano. Proprio in una di queste sortite egli si trova di fronte un certo Iacobo Izzi che gli presenta Giuseppe de Maria, Giovanni Solla, Domenico Catuogno e Giovanni Volla, tutti latitanti per diserzione o renitenza. A questo punto, ritenendo di esporre anche la sua famiglia ad un grave rischio, nel mese di maggio 1861, si allontana di lì e costituisce una piccola banda. Gli approvvigionamenti avvengono da parte dei proprietari dei fondi limitrofi a Marano. Nel corso del mese di giugno ingrossano le fila il falegname Ferdinando d'Ippolito ed un suo compagno, entrambi napoletani che sono evasi dal carcere dei Granili, nonché altri tre uomini. Tutti costoro eleggono all'unanimità Alfonso Cerullo capo della banda, in quanto gli riconoscono la superiorità per l'arte dello scrivere, del leggere e del ragionare. Avendo urgente bisogno di armi, egli le chiede in prestito agli amici di Marano, tra cui Domenico de Vito, Giuseppe lo Zannuto, il sergente Fronna, Giuseppe Ruggiero, Matteo Carputo e Domenico Verde i quali non deludono le sue aspettative. Il suo nome corre sulla bocca di tutti i compaesani e diventa sinonimo di terrore. In siffatta atmosfera, il 27 giugno 1861, in cui si celebra la festa di San Crescenzo, il capitano della Guardia Nazionale di Marano, Camillo Spinosa, lo invita a presentarsi a casa sua per sciogliere la banda. Attratto dalla velata impunità, implicita nel garbato invito, Alfonso esegue quanto consigliato: consegna le armi ai reali possessori e, nella stessa giornata, scioglie la banda e si ritira nella masseria a lavorare. Dopo non molto tempo egli, annoiato dall'inazione e incalzato da ogni parte, ricompone la banda con l'adesione di quaranta uomini, provenienti, nella maggior parte, dai ranghi dell'esercito e dalle realtà regionali diverse. Infatti, dando uno sguardo veloce agli appunti personali del capo, annotiamo le identità di alcuni accoliti: Luigi Petrella e Biagio Fedele da Napoli, Crescenzo di Matteo da Pianura, Francesco Carraturo e Michele Rosselli dalla Sicilia, Vincenzo e Andrea Giuliano da Marigliano, Pasquale Panella da Pozzuoli, Saverio Perotti e Saverio Iallone da Marano, Nicodemo Ferrillo da Calvizzano, Carmine Trezzella da Nola, Luigi Casignano da Lecce, Gaetano Mincione e Dionisio Capassi dalla Basilicata. Il mentore in assoluto è certamente Macedonio de Maria il quale, vantandosi di far parte di un sedicente comitato borbonico, lo spinge a tenere duro, in quanto il re Francesco II, nel suo imminente ritorno al trono, lo ricompenserà adeguatamente. All'uopo gli manda qualche contributo per le spese più urgenti della banda la quale, da parte sua, concretizza la prassi del sovvenzionamento coatto. Così, scorrendo la relativa lista delle estorsioni, vi scorgiamo la somma complessiva di centrotrentaquattro ducati e quaranta grani, a cui concorrono, tra gli altri, il sacerdote don Mario de Magistris con venti ducati, il giudice Egidio Battagliese con due ducati e quaranta grani, Vincenzo de Martino con sei ducati, Arcangelo de Marino con tre ducati e sessanta grani, Giovanni de Marino con tre ducati e sessanta grani.Va da sé l'imposizione delle elargizioni in natura di vario genere, quali commestibili, abiti, armi e munizioni. Lo stesso discorso vale per quanto concerne i furti e le grassazioni, come quella perpetrata, il 24 luglio 1861, a danno della Guardia Nazionale di Chiaiano, ove, stando alla testimonianza diretta del protagonista, egli non partecipa, dal momento che febbricitante, assistito da due soli "guaglioni", giace "sopra un mucchio di frondi di castagne". Al ritorno i suoi uomini gli consegnano un pingue bottino di cinque o sei fucili, una tromba e una bandiera. Dopo pochi giorni, nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1861, matura la decisione di cambiare vita definitivamente. Forse, rimane coinvolto nella tempesta del dubbio circa il ritorno borbonico e non sopporta più la brutta piega di alcuni del suo seguito, dediti a "rubare e far denaro" per il solo gusto di delinquere. Così l'indomani si accomiata dai suoi uomini, dei quali molti, ben trentotto, continuano a percorrere la stessa strada sotto la guida di Crescenzo de Matteo, lastricandola di misfatti e crimini. Assapora i rigori del carcere un piccolo gruppo, nel quale si segnalano Giovanni e Gennaro Volla, Raffaele d'Amora, Luigi Corigliano e Luigi Pagano. Alcuni indossano la divisa militare, come Iacobo Izzo, Francesco Maria, Fedele Ippolito e Giuseppe Maria. Alfonso, rimasto da solo, vaga continuamente attraverso i campi per cinque o sei giorni, si sente braccato su ogni fronte, per cui alla fine non trova altra soluzione che rintanarsi in una cameretta al piano superiore dell'abitazione della sorella attigua e concomitante con la casa paterna, donde può osservare i movimenti esterni di quanti vanno alla ricerca delle sue tracce. Chiuso tra quelle pareti, trascorre il tempo dedicandosi a cucire e a filare, mettendo a frutto gli insegnamenti della sorella. L'unica sortita avviene il 4 ottobre 1863, allorché travestito da donna si reca ad ammirare il "basolato" nuovo e il palazzo recentemente costruiti nel suo paese. Purtroppo, nel suo rifugio arriva ad infiltrarsi la subdola voce dell'immancabile traditore di turno che, fingendo di preoccuparsi della sua incolumità, lo sollecita a rifugiarsi a Roma, seguendo le indicazioni superiori trasmesse attraverso due incaricati. Puntualmente, il 26 novembre 1864, questi ultimi sono sul luogo dell'appuntamento, ove Alfonso sopraggiunge accompagnato dai fratelli. I tre, saliti su una vettura, procedono alla volta di Napoli. Giunti alla barriera di Capodimonte, vengono sorpresi dalla forza pubblica la quale lo arresta, mentre i due compagni si qualificano come agenti della questura. Sottoposto a perquisizione, gli trovano addosso un fucile, un revolver, le munizioni, un coltello da caccia e alcuni documenti importanti, sulle cui note egli rievoca durante l'interrogatorio le tappe più significative della sua avventura esistenziale.
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