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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nell'immenso panorama delle storie locali, incentrate, per lo più, sull'analisi orizzontale degli avvenimenti, occupa un posto di rilievo l'ultimo lavoro di Giorgio Mancini, Sepeithos, animato da una visione analitica trasversale e subtettonica, grazie alla quale il corso storico si vivifica nella sua sinuosità, man mano che erompe dal sottosuolo alla superficie, illuminando gli aspetti circostanti. Il tema centrale del libro è il fiume Sebeto, nei cui meandri l'autore, utilizzando un vasto repertorio attinto da fonti poliedriche, compie un'ampia e meticolosa navigazione, prendendo l'abbrivo dall'antichità greca e, attraverso una serie di tappe diacroniche, sempre puntuali e circostanziate, approda ai nostri "infausti" giorni. Ai due momenti itineranti corrisponde una diversa dimensione spirituale, sottesa alla mutata temperie: lontano dal nostro presente, l'atmosfera è improntata a solarità piena e sfavillante, in quanto lo sguardo si colma di gioia nel penetrare nelle pieghe del mito e del valore che i nostri padri hanno sempre nutrito verso il fiume; viceversa, un velo di malinconia si insinua nel cuore, allorché si constata l'insana follia contemporanea, che ha ridotto il Sebeto ad un malsano e putrido sversatoio industriale. Eppure la navigazione è contrassegnata da continui e salubri tuffi storici nell'alveo del suddetto fiume, ove è possibile ammirare il suo antico paesaggio variopinto di emissari e di immissari, nonché la sua abbondante ricchezza floreale e ittica (Estratto dell'introduzione all'opera).
Ad Ottaviano è in piena attività operativa la macchina organizzativa per allestire quanto concorre a celebrare la ricorrenza annuale del patrono San Michele.
La festività, la cui scansione si snoda nell’arco di quattro giorni, dal sette al dieci maggio, prevede una serie di manifestazioni, religiose e laiche, diurne e serali, incastonate in un cerimoniale variegato: processioni, luminarie, volo degli angeli, palio degli asini, sfilata dei carri, musica, canti e fuochi pirotecnici.
Non è fuor di luogo, nella immediata vigilia dell’avvenimento, elaborare qualche riflessione generale in merito, finalizzata a far uscire l’evento dalla vacua rigidità celebrativa ed a favorire l’avvento di qualche timido seme di consapevolezza critica su un segmento del nostro momento storico.
All’uopo non c’è bisogno di scomodare gli studiosi di antropologia culturale per affermare che la suddetta festa ottavianese rientra a pieno titolo nell’ambito dell’antica tradizione popolare grazie alla presenza di alcuni suoi segni precipui che ne saldano l’intimo legame con l’atavico ed eterno ciclo agrario.
Infatti, essa, interrompendo l’attività lavorativa quotidiana, colma la sofferta solitudine del singolo, ne sollecita la cultura dell’incontro con gli altri nella comunione amicale ed affettuosa, propedeutica all’associazione sociale. Il mese di maggio comporta, nel calendario agricolo, l’irrorazione delle viti con il verderame. L’affollata e commovente processione religiosa con la statua dell’arcangelo San Michele per le vie cittadine, testimoniando il chiaro innesto del cristianesimo su preesistenti riti pagani, ne caratterizza la finalità della propiziazione divina. Il volo degli angeli, rappresentati da due bambini, tenuti sospesi in aria grazie ad un congegno di carrucola, chiamato “carrocciolo”, fino alla supplica rivolta al santo patrono in favore di tutta la cittadinanza, denota l’aspirazione collettiva a creare il ponte ideale dal cielo alla terra. L’asino simboleggia, fin dall’epoca esopica, la pazienza esperita nel duro lavoro nei campi. La sfilata dei carri richiama il recupero memoriale delle originarie borgate ottavianesi, speculari del senso dell’appartenenza. Lo sparo dei fuochi pirotecnici, portando in superficie ancestrali paure recondite attraverso emozioni antitetiche, legate al contrasto sinestetico buio – luce, rumore – silenzio, fuoco - pioggia, adempie alla funzione catartica e votiva, in cui coesistono il fardello del passato sempre presente nelle latebre dell’animo e l’agile sogno del futuro. Il canto, la preghiera e la danza denotano altrettante espressioni di una comunità viva che porta impressi sulla sua pelle i codici indelebili della esperienza esistenziale vissuta nella interezza della sua problematicità. Pertanto da siffatto quadro emerge un dato di fondo incontrovertibile: il rapporto della civiltà rurale dei nostri padri con l’ambiente naturale circostante si rivela incentrato su sentimenti di rispetto, di amore e, soprattutto, di timore. Alla luce di tale considerazione basilare scatta immediato l’interrogativo di fondo: cosa abbiamo mutuato di positivo noi figli dalla lezione del passato circa il rapporto verso l’ambiente? Nella risposta si misura il grado di elaborazione effettiva e salutare della stessa tradizione la quale, se opportunamente rinnovata e rinverdita, agevola il successivo cammino agli eredi. Nello specifico lo sguardo, pur effondendosi fugacemente in opposte direzioni territoriali, rimane inorridito e angustiato dal sistematico scempio prodotto dalle nostre mani, trasformate per l’occasione in tremendi ed acuminati artigli. Il pensiero vola dapprima in montagna la quale, pur facendo parte del sedicente parco del Vesuvio, è stata trasformata in discarica perenne, dal momento che se ne reitera la destinazione ricettizia di rifiuti con l’ultima trovata di allocare lo sversatoio proprio nella cava terzignese. In tal modo con il cuore gonfio di tristezza delibero di scendere da queste alture montane, violate nella loro essenza di riserva naturale, attraverso le piccole strade a “gira – poggi” sapientemente costruite all’indomani della eruzione vulcanica del 1906 e desisto dal cercare le tracce delle selve demaniali di un tempo, di cui si sono persi, persino, i nomi e le ubicazioni. La voluta riproposizione onomastica almeno delle principali sezioni silvane, quali Piano del Fico, Cerri, Piscinale, Schiappagrande, Campitelli, Paliata, Finelli, Muroli. Guastaferri, Borde, Cafurchio e Mauro obbedisce al mio preciso disegno di non essere affatto intenzionato a sottostare agli attacchi onnivori della dimenticanza assurda. Del resto la spessa coltre dell’oblio, dominando su una parte importante del vissuto topico, minaccia la sopravvivenza della nostra identità, protesa, nell’empito libertario, lungo i secoli scorsi, tra l’altro, a difendere i cosiddetti usi civici, la cui fruizione conferisce al demanio lo stigma indelebile del possesso collettivo. D’altro canto in questa falda i torrenti, che si snodano tra il versante di Terzigno e quello di San Giuseppe Vesuviano, sboccano in vasche di assorbimento: Camaldoli, Campitello, Pepparulo, Zabatta con gli affluenti Crispo, Palomba e Recupo, San Leonardo con gli influenti Spiriti e Vivenzio. Quelli, appartenenti al versante di Ottaviano, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia, si scaricano nei regi lagni. Alcuni vi pervengono attraverso il collettore Alberolungo: il Piazzolla con gli influenti Rosario e Carmine, ingrossati a loro volta dai colatori secondari Subisseo, Neve e Saviano; il Santa Teresa con gli influenti Zennillo, Bosco I, Bosco II, Macedonia e Costantinopoli. Tale patrimonio naturale risulta del tutto ignoto ai giovani i quali stentano a credere alla riesumazione del vissuto anche perché l’attuale spettacolo circostante si presenta completamente trasformato. Non a caso a valle non si riesce a percepire più la linea di demarcazione che segni la fine della selvaggia cementificazione; ormai diventa impossibile rintracciare un vero polmone verde, dal momento che l’intera zona, avvolta da un conurbamento strozzante, esala aria pesante e, talora, miasmi maleodoranti. Non oso nemmeno immaginare secondo quali criteri e cosa abbiamo incanalato nel sottosuolo, sacrificato al bisogno impellente della viabilità a tutti i costi. A questo punto, spinto da una inconscia attrazione, mi trovo immerso nella fiumana umana festante a Ottaviano e mi soffermo ad assaporare alcune leccornie esposte sulle bancarelle per attutire, forse, la vigente amarezza valoriale.
Il crepitio delle armi e il fervore delle idee, che alimentano i germi della nuova coscienza in Europa e in alcune zone italiane, tra il 1830 - 1850, non scalfiscono affatto la coscienza della nomenklatura locale del tempo. I rintocchi spirituali, segnati dalla chiesa parrocchiale di San Giuseppe, sono vanificati dall'affarismo del sottobosco cittadino, preposto all'amministrazione dei beni ecclesiastici. Eppure la nomina dei due Amministratori, scelti per un mandato triennale dal Sovrintendente Presidente della Provincia di Napoli, su proposta non vincolante di una terna di nomi, avviene, in seduta collegiale, nel Consiglio Comunale (Decurionato), presieduto dall'allora sindaco di Ottaviano, Basilio di Prisco, sulla scorta della "correttezza e della diligenza" amministrative. Un controllo dello stesso Sovrintendente Presidente in loco di "carte, libri e scritture" sfocia, il 3 giugno 1833, nell'arresto di Saverio d'Ambrosio e nella rimozione di Crescenzo Boccia, accusati di aver seguito i ritmi dell'allegra finanza "senza aver mai reso alcun conto" all'organo amministrativo centrale. Al posto dei due inquisiti subentrano Luigi d'Ambrosio e Carlo Leone, coadiuvati, nelle loro mansioni, da un segretario che sostituisce, il 28 maggio 1834, la figura giuridica dell'amanuense "precedentemente autorizzata". I nuovi amministratori, che non brillano per dedizione verso la collettività, si trovano in enormi difficoltà nel sanare "l'ingente arretrato", anche perché i debitori non solo risultano morosi e renitenti, ma non esitano a ricorrere alla forza bruta per far valere il loro capriccio. Preoccupato della piega degli avvenimenti, il governo centrale invia, il 18 maggio 1835, lo stesso "razionale dell'Intendenza" provinciale Giovanni Rocco con l'incarico di riscuotere le somme debitorie, accompagnato da "due piantoni" e, eventualmente, coadiuvato dalla gendarmeria comunale, messa in stato di allerta dal Sottintendente del Distretto. Nemmeno questo intervento straordinario riesce a riempire le casse della Chiesa, dal momento che i due anni successivi vedono aggirarsi per le vie comunali quale esattore "degli arretrati dello stabilimento" Giuseppe Ranieri, che percepisce per questo mandato il compenso di ventiquattro ducati. Gli strascichi delle pendenze debitorie giungono, persino, nelle aule del tribunale, ove gli interessi legittimi della chiesa di San Giuseppe, difesi dall'avvocato del Comune, Michele Barra, trionfano contro l'ostinazione di Andrea Ammirati e gli eredi Ammendola, condannati a devolvere quanto dovuto e costretti a dare le relative garanzie con l'ipoteca dei fondi. Qualche altra lite giudiziaria, come quella contro Tommaso Tafuri di Maddaloni, conclusasi, nella prima fase processuale, con la condanna del moroso all'esproprio di beni, quale compenso di denaro non percepito, approda in appello con l'accusa di falso in bilancio contro gli amministratori della Chiesa. In altri casi entra in gioco la mediazione di "galantuomini" locali i quali, dichiarandosi pronti a rispondere di tasca propria, ottengono benefici sugli interessi arretrati. Nell'ambito di tale patteggiamento viene risolta la pendenza pecuniaria di Michele e Rachele d'Ambrosio mercé l'intervento di Carlo Leone. Certamente i registri contabili della Chiesa risultano un caleidoscopio quanto mai variegato sia nelle entrate che nelle uscite, in quanto le continue transazioni, le revisioni degli interessi, gli accordi fra le parti contribuiscono a tener desta la pazienza certosina di Luigi d'Ambrosio, cassiere per "la parte materiale" dal 1838 al 1840. Di sicuro, nelle pieghe del bilancio richiede un capitolo a parte la "compensazione" chiesta da Michele d'Ambrosio il quale, registrato, contemporaneamente, quale creditore e debitore, è autorizzato, l'8 gennaio 1840, a pagare quattordici ducati e cinquanta grana di resta; un altro capitolo viene aggiunto per la richiesta, avanzata dagli eredi di Onofrio Guadagno, i quali, il 7 ottobre 1840, ottengono di poter diluire negli anni una somma dovuta per l'accumulo di interessi: l'istanza di solvenza del debito di seicento ducati e di derubricazione, inoltrata da Carlo Leone, il 22 maggio 1849, implica un notevole dispendio di energie contabili e tecniche, dal momento che occorre sanare una anomalia procedurale: Carlo Leone e Saverio di Prisco, rubricati, rispettivamente, quali debitore e creditore, hanno agito di comune accordo nell'utilizzo della suddetta somma, come è attestato da una scrittura privata "in forza di pubbliche cautele" .......... (Pubblicato su "La Bardinella" di Luglio 1993).
17 aprile 1893. E' bene riguardare la elezione politica di Torre Annunziata, anzi tutto, da un punto di vista generale. Il Catapano è nativo (San Giuseppe di Ottaiano) e risiede in Napoli - lo Zainy, invece, è nato altrove e risiede in Roma. Lo Zayny fu deputato di quel Collegio durante le legislature XVI e XVII - nel 30 e 31 1892 fa il suo giro elettorale per quel Collegio - e nel 6 novembre raccoglie voti n. 2129 sopra n. 4482. E, per converso, il Catapano, invitato dai suoi concittadini a presentarsi candidato del Collegio ai 29 ottobre 1892, nel 30 rifiuta - accetta, vivamente premurato, nella sera del 2 novembre. Fa il suo giro elettorale appena nel 4; e, nel 6 raccoglie, sui n. 4482, voti n. 2226. Questo risultato, relativamente splendido, ottenuto dal Catapano, che accettò la candidatura, vide e parlò ai suoi concittadini, due giorni appena prima della elezione, quando i più si erano già impegnati per lo Zainy, è dovuto all'immensa fiducia e simpatia, che, per le sue qualità e posizione sociale, egli gode, e più ancora al buon senso degli elettori di quel Collegio, Ed è una posizione di fatto questa, non soltanto affermata dal Catapano, ma venne ritratta al vero da tutta la stampa locale e di Napoli. Basta, all'uopo, leggere i giornali che si pubblicarono in quel tempo prima e dopo dell'elezione - come il Mattino, la Riforma, il Pungolo, il Momento attuale, la Cuccagna, il Frustino ed altri. 2. Il partito, che si trovava già impegnato per lo Zainy prima che il Catapano si fosse risoluto a scendergli competitore nella lotta ricorse a mezzi disperati e perfino illeciti e criminosi per vincere, come si raccoglie da un giornale locale, il Momento attuale. Ma a nulla valsero i suoi sforzi. Quel corpo elettorale volle prescelto al Parlamento un Deputato locale, che nel curare gli interessi della Nazione, conoscesse da vicino e ne curasse altresì gli interessi locali. E fosse un uomo che per le sue qualità, per i suoi precedenti e per la sua posizione fosse una garanzia dei nobili intenti di quel corpo elettorale. 3. E se questo fu e non altro lo stato di cose nell'elezione politica del 6 novembre 1892, chi può dire, e sul serio, che il Deputato voluto da quel corpo elettorale sia lo Zainy e non il Catapano? II. Non lo Zainy, candidato non riuscito, ma soltanto ventitré elettori, di cui quindici della frazione San Giuseppe e otto di Torre Annunziata, impugnano di nullità la elezione. Essi affermano che: I. Nelle tre sezioni elettorali di San Giuseppe di Ottaiano si sostituirono le schede a danno dello Zainy; II. Si ammisero in quelle tre sezioni a votare cittadini non elettori, mentre gli iscritti o erano preti e non votarono per l'expedit del Papa - o detenuti o assenti nelle varie Province del Regno o all'Estero, e non vi poterono votare; III. E, da ultimo, fuvvi nell'elezione ingerenza del Governo a prò del Catapano. E bene discutiamo di questi motivi di proteste di elettori - senza, però, tenere conto delle postume querimonie dello Zainy, che non ne protestò, al pari degli elettori, nelle forme e termini di legge. 5. E' un mendacio che si siano nelle tre sezioni di San Giuseppe sostituite le schede a danno dello Zainy.
E' prerogativa di Cardito, al pari di tutti i casali di Napoli, ogni anno eleggere in pubblico parlamento un cancelliere, deputato a conservare il libro delle delibere e il suggello della Uuniversità. Invece, il 1° settembre 1792, si stravolge la prassi, allorché subentra nella carica di governatore Antonio d’Isanto, foriere dei miliziotti. Quest'ultimo dà i primi segni di discontinuità con il passato, allorché, invece di recarsi dagli amministratori locali per ottenere nelle debite forme il possesso della carica, si reca nel palazzo baronale, ove, avendo mandato a chiamare gli amministratori ed il cancelliere Pasquale Perone, vuole obbligare questi a dargli subito il possesso. Al rifiuto dell'interpellato, che chiede il documento della "venia" accordatagli per l’esercizio della carica , nonché la liberatoria del precedente governo, il d'Isanto monta su tutte le furie ed essendosi appena degnato di esibire la liberatoria, strappa dalle mani del cancelliere Perone il libro delle delibere ed il suggello,. Quindi li consegna a un tale Felice di Guida, dipendente dell’erario baronale, da cui si fa distendere a suo modo l’atto del possesso con la pleggeria di due miserabili, uno dei quali non è cittadino e l’altro è sotto la patria potestà, minacciando, nel contempo, fulmini e saette contro quelli che sostengono le liti contro il possessore di quel feudo. La investitura, lasciata correre dal potere centrale, si protrae per un pò di tempo, finché non entra in ballo la magistratura, nello specifico i giudici della Gran Corte della Vicaria, con gravi accuse di varie falsità. Di qui parte l'ordine di carcerazione, a cui l'imputato si sottrae con la fuga definitiva. Solo a questo punto Cardito può sperare, nell'anno successivo, di eleggere nel modo legittimo il proprio cancelliere.
1883..... Ormai è un assioma che la natura esteriore ha un'efficace influenza sulle condizioni fisiche, economiche e morali di un popolo. Permodoché si potrebbe a priori ritenere che le due frazioni, che domandano costituirsi a comune indipendente, stante la postura di suolo, su cui abitano, la produttività agricola dei terreni coltivati e la guardatura di cielo del tutto diverse da quelle del capoluogo, Ottaiano, aver debbano le dette due frazioni indole, costumi e bisogni diversi da quelli di Ottaiano medesimo............Da quanto abbiamo precedentemente discorso, si può derivare che fra Ottaiano e le frazioni di San Giuseppe e San Gennarello, essendovi diversità di suolo, di attività commerciale e di indole, essere vi deve, per conseguenza, diversità di bisogni e di interessi cozzanti tra loro. Di modo che la storia di questi diversi paesi è storia di lotta continua. Uno studio minuto sui documenti esistenti negli archivi metterebbe lo scrittore in grado di compilare la storia di questo Comune, la quale sarebbe quella che si può avere tra schiavi e tiranni, tra vassalli e feudatari, tra servi e padroni, cioé storia di soprusi di tirannia, di ingiustizie di spoliazioni da una parte e di servilismo, oppressione, miseria ed odii implacabili dall'altra, la storia insomma del diritto della forza, che schiaccia la forza del diritto. In queste frazioni non vi era bisogno, diritto urgente, che non veniva sconosciuto dagli Ottaianesi, in queste frazioni fino al 1860 non si era speso un centesimo per opere pubbliche, per istruzione e tutto quanto altro richiede un paese civile. In Ottaiano strade lastricate, opere di beneficenza, istituti civili; e qui, nelle frazioni, fino al 1860 non vi erano mezzi di viabilità ed i cittadini erano costretti a transitare per entro gli alvei, che qui tenevano luogo di strade! Aggiungete che questi alvei, sia perché mal tenuti, sia perché traversavano i più popolosi quartieri, erano cagione di continui allagamenti e sotterramenti e la viabilità spesso interrotta. Eppure gli Ottaianesi, che erano a capo dell'amministrazione di questo Comune, tutto vedevano ed a nulla provvedevano; i cittadini delle frazioni non avevano altri diritti, che quello di pagare, ubbidire e tacere! Inde irae, di qui l'odio implacabile di queste popolazioni, le quali, per sottrarsi ad uno stato di cose insoffribile, escogitarono come unico mezzo separarsi dal Capoluogo. Perciò questi cittadini non si lasciarono sfuggire una sola occasione propizia, senza fare istanza alle autorità competenti, onde costituirsi a comune indipendente e così di generazione in generazione si è tramandata fino a noi questa incessante aspirazione, questo continuo e vivo desiderio. Per modo che oggi il capo di famiglia racconta nel seno di questa ai propri figli e nipoti le continue istanze dalle precedenti generazioni avanzate in tal proposito e gli ostacoli che incontrarono nello stesso modo come la nonna possa raccontare ai propri nipoti, nelle lunghe notti d'inverno, il racconto delle fate o delle streghe. Dunque l'idea della divisione non è consigliata da uno o pochi interessati, non è invocata per fini secondari o per private animosità, ma finora è stata l'eterna questione di questo paese e lo sarà fino a quando non avrà la sua definitiva soluzione; questa idea è tradizionale in queste frazioni ed è diventata sangue del sangue di questi cittadini e carne della propria carne. Ed a ricordare qualche epoca, in cui questi cittadini hanno fatto le pratiche per ottenere questa invocata divisione, citeremo le seguenti: 1) Al 1820 le tre frazioni San Giuseppe, Terzigno e San Gennarello rivolgevano al Parlamento Nazionale di allora un'istanza per dividersi dal Comune di Ottaiano. Questa istanza venne accompagnata da una memoria, da cui traspare l'odio delle frazioni, ispirato dalla deplorevole ed impossibile condizione loro fatta dal capoluogo. 2) Al 1832 la frazione San Giuseppe avanzava altra domanda per erigersi in Comune distinto, la quale domanda fu accompagnata da parere favorevole del Sottintendente di allora e quando il Consiglio di Intendenza stava per emettere il suo avviso definitivo, l'Intendente, in omaggio al dispostismo di quei tempi, sospese per ignote ragioni ogni ulteriore procedimento. 3) Al 1848 si rinnovò dai Sangiuseppesi la medesima istanza, chiamando in vigore le pratiche precedenti, ma il principe di Ottaiano, ex feudatario di questo Comune, tali e tante pressioni e minacce usò contro i notabili cittadini di questa frazione, che si fu costretti anche per le mutate condizioni politiche a sospendere ogni ulteriore pratica a tal uopo iniziata. 4) Al 1862 i cttadini di San Giuseppe e San Gennarello, a mezzo dei loro consiglieri, deliberarono trasferirsi la sede municipale nella frazione di San Giuseppe ed in tale circostanza la minoranza del Consiglio comunale e il Consiglio provinciale ebbero a manifestare il loro parere favorevole alla divisione di questo Comune. 5) Al 1869 le frazioni San Giuseppe e San Gennarello rinnovarono ancora una volta le istanze per erigersi a comune indipendente, alle quali aderì questo Consiglio comunale e fece pienamente diritto il Consiglio provinciale per unanime deliberazione del 1871. Ma poscia mercé le influenze dell'Ill.mo Prefetto di allora, che fece venire presso di sé la Giunta di questo Comune, si costrinsero questi cittadini a non persistere ulteriormente sulla domanda della divisione, promettendo loro il trasferimento della sede comunale e della pretura nella frazione San Giuseppe. Ma posteriormente si raffreddarono le cose e queste abbandonate, quanto infelici, frazioni nulla ottennero ed ancora una volta le promesse rimasero promesse, per cui potrebbero a ragione dire con Amleto: parole , parole, parole. 6) Ora i cittadini di San Giuseppe e San Gennarello, a mezzo dei loro elettori, in numero di 282 della prima frazione su di una lista di 326 e di 56 di San Gennarello su di una lista di 59, fanno di nuovo istanza, mercé due domande in data 1° settembre 1883 di costituirsi a comune libero ed indipendente dal capoluogo, che se n'è fatta la istanza, per quanto a noi risulta ben sei volte e seguendo la legge fisica: motus in fine velocior, si è andata la detta istanza ripetendo sempre più frequentemente giovandosi di ogni propizia occasione. E quello che è più da rimarcarsi si è che in ogni mutazione politica in senso liberale, quest frazioni hanno fatto istanza per ottenere la desiderata divisione; così è avvenuto al 1820, al 1848, al 1862. ......... (Estratto dalle "Ragioni in sostegno della divisione del Comune di Ottaiano, Fratelli Brancaccio, Napoli, 1883).
12 agosto 1900. Signori! Io vi vedo qui raccolti, intenti ed ansiosi, nel cuore certamente commossi, voi rappresentanti diretti di quel popolo buono e sagace ch'Egli amava, ad onorare la memoria di Colui che è sempre presente nelle menti vostre, del nostro Re, di Umberto I di Savoia! E lasciate che io vi creda qui convenuti non per vacue e stolide ed anfibie formalità burocratiche, non perché la consuetudine ed il decoro d'ogni comune d'Italia vuole così, ma per uno slancio veemente e subitaneo, immenso e generale che è degno dei vostri cuori; per il desiderio di onorare solennemente colui che moriva martire del suo dovere, colpevole solamente di troppa clemenza e gentilezza ..... Ed egli fu il re de' nuovi tempi, colui che poneva le basi del suo regno non nella forza e nella repressione, ma nella volontà dei suoi sudditi e nella loro devozione. Nepote di principi fieri e belligeri, Egli ammorbidì la sua indole guerriera col gesto paterno di uomo mite e sapiente, e la mano coraggiosa che levò alta nel turbine della guerra la spada degli avi, la mano che ferma a Villafranca mostrò ai suoi soldati la falange nemica da sbaragliare, quella mano egli stese ad ogni infelice, come ad un fratello, non con gli occhi fissi nei suoi occhi, assistendo ai suoi tormenti....... O signori, Egli, dopo tanti secoli, faceva rivivere il condottiero di popoli omerico, l'eroe del mito, che, in diretta comunicazione coi suoi sudditi, ne risente tutte le gioie e tutti i dolori .... E quest'infame, quest'infame che squarciò col piombo crudele il petto di Umberto di Savoia, è di quello stesso generoso popolo di Toscana che mandò la sua più arridente giovinezza, quale sublime olocausto per la salute dell'Italia, nei ripari di Curtatone e di Montanara? No, o Signori, perché il delitto commesso per sola bramosia di sangue, per solo impeto selvaggio, non ha patria ..... O Signori l'infamia del regicida non può cadere sul capo del popolo Italiano; Umberto I di Savoia fu ucciso da un forsennato senza patria e senza Dio! Ma a che indugiare sulle gesta dell'assassino? Che il suo nome non sia né pure pronunciato per non profanare quest'aula. L'oblio cada su lui; e rimanga nel nostro cuore il solo ricordo del buon re e delle sue azioni ... Signori, Il figlio di Umberto I sarà degno del padre, come dell'avo, ed ieri l'ha giurato, seguirà queste orme incancellabili che resero felici il regno di Umberto; Egli è giovine e forte, ascende il trono impavido e sicuro, riponiamo in Lui la nostra fede come Egli l'ha riposta grandissima nel suo popolo. Iddio vorrà proteggerlo per lunghi anni. A Lui oggi il nostro saluto, a Lui l'attestato della nostra devozione e della nostra speranza! Viva il RE!
8 ottobre 1887. A S. E. il Ministro degli Interni. Poiché all'Autorità superiore è debito di lealtà e di reverenza dir tutto e nulla pretermettere, bisogna scovrire gli altarini e porre un pochetto in mostra il dietroscena. Sindaco di Ottaiano è un prete di cognome Bifulco (Giuseppe n. d. r). Membro della Deputazione provinciale di Napoli é l'ingegnere Ernesto Bifulco, fratello di quel Sindaco. Da un po' di tempo a questa parte ferve aspra lotta fra il Capoluogo del Comune e la cosiddetta Frazione San Giuseppe; la quale, popolosissima com'é, con propria Stazione ferroviaria, con proprio Ufficio postale, con proprio Ufficio telegrafico, con una propria Caserma dei reali Carabinieri, con una Banca si agita giustamente per essere eretta in Comune separato a norma dell'art. 15 della legge provinciale e comunale. Ciò dispiace ai sopracciò del Municipio. Cesserebbe la loro importanza; la pasta da manipolare resterebbe di molto assottigliata; il Comune ragguardevole di Ottaiano sarebbe stremato alle proporzioni di un Comunello qualsiasi. Ma, poiché a raggiungere un siffatto scopo occorrerebbe l'adesione del Consiglio provinciale ed in questo siede un Bifulco, così l'onesto intento finora non ha potuto essere conseguito. Ed ecco un lievito grave di malumori fra gli Amministratori comunali, che sono del Capoluogo, ed i cittadini influenti della Frazione di San Giuseppe nel cui novero appunto trovasi l'Ammirati. Costoro combattono le candidature di Ottaiano e lavorano quanto meglio sappiano e possano perché il potere esca una buona volta dalle mani di una certa cricca; la quale, come se fosse un'ostrica, non si lascia sradicare e si è stretta profondamente alla greppia. Inde irae. Ed appunto dall'acutizzarsi delle ire partegiane nacque la persecuzione all'Ammirati, si guardino le date, e si vedrà che procedono con sincrono parallelismo. Si era in pace; ed i sopracciò del Municipio (altro che ostacolare!) si prestarono anzi volenterosi perché l'impianto del mulino avvenisse. Nell'anno decorso si acutizzò lo stato bellicoso; ed ecco sorgere le persecuzioni a danno dell'Ammirati ........ Stavano dunque maturando qualche altro disegno allorché in sul cadere di luglio ultimo ebbero luogo le elezioni amministrative. La battaglia fu aspra davvero. La famiglia Bifulco combatteva pro ara et focis. Per compiuto quinquennio scadevano in una volta il Sindaco sacerdote Bifulco ed il Consigliere ingegnere Bifulco. Giocando di sopraffazioni e di violenze, fecero passare anco una volta la così detta volontà del paese; ed i loro nomi, per quanto tirati proprio col forcipe, uscirono novellamente gloriosi e trionfanti dall'urna fatale. E, poiché dopo la proclamazione delle risultanze elettorali si cominciò a pensare a trar vendetta degli avversari, certo tra costoro non poteva essere dimenticato l'Ammirati; che, persona influente, aveva speso tutta quanta la sua opera onde, pel meglio delle Aziende pubbliche, i signori Bifulco non avessero avuto la vittoria nella lotta che con tanto livore combattevasi. ....... Ci sarebbe da ridere a crepapelle, se non ci fosse da piangere per lo strazio che certi tirannelli in miliardesimo fanno di quelle libere istituzioni, che tanto abbiamo anelato e le quali frattanto sono state create per la tutela e per la salvaguardia, non già per la negazione dei diritti più rispettabili dei cittadini!
Un vasto terreno di dubbiosa natura, sito nel tenimento di Ottajano, denominato ora il Mauro e nei passati tempi il Mauro, Bosco e Masche, preteso per parte dell'Università di essere demaniale del Comune e per parte dell'Illustre Possessore di detta terra demaniale del Feudo, è stato l'oggetto di un'aspra e dispendiosa lite, la di cui epoca è molto remota, e che nel 1621 fu prodottiva di quella celebre decisione rapportata dal Reggente Sanfelice e preferita dall'intera Ruota del S. C. in tempo che sulla faccia del luogo si condusse. Nell'anno 28 di questo secolo, per alcune novità insorte nel denominato terreno, si ripigliò il cammino dell'invecchiata lite e questa si fé più pertinace nel 1770 e negli anni appresso, e trovandosi in simile quistione un altro vasto territorio denominato Muscettoli per la sua qualità più specioso del primo nel 1783 le Parti collitiganti, riflettendo all'oscurità delle cose, al dubbioso evento della lite, al gravissiomo danno per tanti anni sofferto, si per motivo dell'ingente dispendio, che per essere stati inerti ed inoperosi i nominati due terreni, facendo eco a quella cennata decisione del 1621, determinarono di venire ad un'amichevole composizione e transazione, per mezzo della quale si fosse posto termine all'annoso litigio e nel tempo stesso con sommo profitto di esse Parti e della popolazione si fossero resi coltivabili quei felicissimi e beatissimi terreni. Ed infatti a 17 luglio di detto anno 1783 l'odierno Illustre Principe di Ottajano D. Giuseppe de' Medici di Toscana, col permesso del defunto D. Nicola Maria Vespoli, avvocato allora del Re al Patrimonio e Soprintendente della di lui Illustre Casa, e gli eletti così attuali in quel tempo che quei designati per l'anno appresso sottoscrissero un albarano, in cui avendo per primo a lungo divisati i motivi, onde plausibile riusciva il terminare per mezzo di un'amichevole convenzione la pendente lite, vennero finalmente a stabilire che la tenuta del Mauro avesse a dividersi in due eguali porzioni, la prima delle quali, cioé la settentrionale, di cui si descrissero i confini, rimaner dovesse in pieno ed assoluto dominio dell'Università, e l'altra, cioé la meridionale, e dalla terra più lontana, di cui parimenti si notarono i confini, dovesse cadere nella stessa guisa a pro dell'Illustre Principe. E per mandare ad effetto siffatta determinazione fu eletto di comune consenso l'ingegnere D. Domenico di Franco, a cui fu dato l'incarico di eseguire la cennata divisione, così in riguardo del terreno denominato il Mauro, che di quello denominato Muscettoli ...........
Il re Carlo I d'Angiò, dopo aver sconfitto l'esercito di Corradino a Tagliacozzo in Abruzzo, adempiendo al voto fatto in battaglia, eresse, nel 1268, nello stesso luogo nei pressi di Scultoli, un ampio monastero per i cistercensi della sua nazione francese. Lo dotò di moltissimi beni e volle che fosse chiamato Santa Maria della Vittoria in memoria della felice conclusione dello scontro armato. Lo stesso re, nell'anno 1274, fondò un altro monastero vicino Scafati con l'espresso ordine che fosse abitato e governato da monaci cistercensi francesi, come se volesse che ci fosse colà uno spostamento da quello denominato Monte di Santa Maria di Real Monte in Francia, fondato da suo padre. Per questo motivo lo subordinò al primo e lo chiamò Santa Maria di Real Valle.