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Considerazioni sulla festa di San Michele
Di Admin (del 30/05/2009 @ 04:13:49, in articoli, linkato 7593 volte)
Ad Ottaviano è in piena attività operativa la macchina organizzativa per allestire quanto concorre a celebrare la ricorrenza annuale del patrono San Michele. La festività, la cui scansione si snoda nell’arco di quattro giorni, dal sette al dieci maggio, prevede una serie di manifestazioni, religiose e laiche, diurne e serali, incastonate in un cerimoniale variegato: processioni, luminarie, volo degli angeli, palio degli asini, sfilata dei carri, musica, canti e fuochi pirotecnici. Non è fuor di luogo, nella immediata vigilia dell’avvenimento, elaborare qualche riflessione generale in merito, finalizzata a far uscire l’evento dalla vacua rigidità celebrativa ed a favorire l’avvento di qualche timido seme di consapevolezza critica su un segmento del nostro momento storico. All’uopo non c’è bisogno di scomodare gli studiosi di antropologia culturale per affermare che la suddetta festa ottavianese rientra a pieno titolo nell’ambito dell’antica tradizione popolare grazie alla presenza di alcuni suoi segni precipui che ne saldano l’intimo legame con l’atavico ed eterno ciclo agrario. Infatti, essa, interrompendo l’attività lavorativa quotidiana, colma la sofferta solitudine del singolo, ne sollecita la cultura dell’incontro con gli altri nella comunione amicale ed affettuosa, propedeutica all’associazione sociale. Il mese di maggio comporta, nel calendario agricolo, l’irrorazione delle viti con il verderame. L’affollata e commovente processione religiosa con la statua dell’arcangelo San Michele per le vie cittadine, testimoniando il chiaro innesto del cristianesimo su preesistenti riti pagani, ne caratterizza la finalità della propiziazione divina. Il volo degli angeli, rappresentati da due bambini, tenuti sospesi in aria grazie ad un congegno di carrucola, chiamato “carrocciolo”, fino alla supplica rivolta al santo patrono in favore di tutta la cittadinanza, denota l’aspirazione collettiva a creare il ponte ideale dal cielo alla terra. L’asino simboleggia, fin dall’epoca esopica, la pazienza esperita nel duro lavoro nei campi. La sfilata dei carri richiama il recupero memoriale delle originarie borgate ottavianesi, speculari del senso dell’appartenenza. Lo sparo dei fuochi pirotecnici, portando in superficie ancestrali paure recondite attraverso emozioni antitetiche, legate al contrasto sinestetico buio – luce, rumore – silenzio, fuoco - pioggia, adempie alla funzione catartica e votiva, in cui coesistono il fardello del passato sempre presente nelle latebre dell’animo e l’agile sogno del futuro. Il canto, la preghiera e la danza denotano altrettante espressioni di una comunità viva che porta impressi sulla sua pelle i codici indelebili della esperienza esistenziale vissuta nella interezza della sua problematicità. Pertanto da siffatto quadro emerge un dato di fondo incontrovertibile: il rapporto della civiltà rurale dei nostri padri con l’ambiente naturale circostante si rivela incentrato su sentimenti di rispetto, di amore e, soprattutto, di timore. Alla luce di tale considerazione basilare scatta immediato l’interrogativo di fondo: cosa abbiamo mutuato di positivo noi figli dalla lezione del passato circa il rapporto verso l’ambiente? Nella risposta si misura il grado di elaborazione effettiva e salutare della stessa tradizione la quale, se opportunamente rinnovata e rinverdita, agevola il successivo cammino agli eredi. Nello specifico lo sguardo, pur effondendosi fugacemente in opposte direzioni territoriali, rimane inorridito e angustiato dal sistematico scempio prodotto dalle nostre mani, trasformate per l’occasione in tremendi ed acuminati artigli. Il pensiero vola dapprima in montagna la quale, pur facendo parte del sedicente parco del Vesuvio, è stata trasformata in discarica perenne, dal momento che se ne reitera la destinazione ricettizia di rifiuti con l’ultima trovata di allocare lo sversatoio proprio nella cava terzignese. In tal modo con il cuore gonfio di tristezza delibero di scendere da queste alture montane, violate nella loro essenza di riserva naturale, attraverso le piccole strade a “gira – poggi” sapientemente costruite all’indomani della eruzione vulcanica del 1906 e desisto dal cercare le tracce delle selve demaniali di un tempo, di cui si sono persi, persino, i nomi e le ubicazioni. La voluta riproposizione onomastica almeno delle principali sezioni silvane, quali Piano del Fico, Cerri, Piscinale, Schiappagrande, Campitelli, Paliata, Finelli, Muroli. Guastaferri, Borde, Cafurchio e Mauro obbedisce al mio preciso disegno di non essere affatto intenzionato a sottostare agli attacchi onnivori della dimenticanza assurda. Del resto la spessa coltre dell’oblio, dominando su una parte importante del vissuto topico, minaccia la sopravvivenza della nostra identità, protesa, nell’empito libertario, lungo i secoli scorsi, tra l’altro, a difendere i cosiddetti usi civici, la cui fruizione conferisce al demanio lo stigma indelebile del possesso collettivo. D’altro canto in questa falda i torrenti, che si snodano tra il versante di Terzigno e quello di San Giuseppe Vesuviano, sboccano in vasche di assorbimento: Camaldoli, Campitello, Pepparulo, Zabatta con gli affluenti Crispo, Palomba e Recupo, San Leonardo con gli influenti Spiriti e Vivenzio. Quelli, appartenenti al versante di Ottaviano, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia, si scaricano nei regi lagni. Alcuni vi pervengono attraverso il collettore Alberolungo: il Piazzolla con gli influenti Rosario e Carmine, ingrossati a loro volta dai colatori secondari Subisseo, Neve e Saviano; il Santa Teresa con gli influenti Zennillo, Bosco I, Bosco II, Macedonia e Costantinopoli. Tale patrimonio naturale risulta del tutto ignoto ai giovani i quali stentano a credere alla riesumazione del vissuto anche perché l’attuale spettacolo circostante si presenta completamente trasformato. Non a caso a valle non si riesce a percepire più la linea di demarcazione che segni la fine della selvaggia cementificazione; ormai diventa impossibile rintracciare un vero polmone verde, dal momento che l’intera zona, avvolta da un conurbamento strozzante, esala aria pesante e, talora, miasmi maleodoranti. Non oso nemmeno immaginare secondo quali criteri e cosa abbiamo incanalato nel sottosuolo, sacrificato al bisogno impellente della viabilità a tutti i costi. A questo punto, spinto da una inconscia attrazione, mi trovo immerso nella fiumana umana festante a Ottaviano e mi soffermo ad assaporare alcune leccornie esposte sulle bancarelle per attutire, forse, la vigente amarezza valoriale.
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