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Di Admin (del 19/05/2011 @ 00:17:40, in articoli , linkato 1564 volte)
La scena iniziale rappresenta il ventitreenne Alfonso Cerullo con la divisa di soldato borbonico battersi sul campo di battaglia contro i nemici fino alla capitolazione a Cisterna, donde si rifugia a Roma. Di qui, il 18 novembre 1860, affronta i rischi impliciti nella sua condizione di ricercato e ritorna nella sua città natale di Marano. Si nasconde per un pò di tempo nella masseria del principe di Castagneto, ove il padre lavora come colono. La sua presenza, però, non passa inosservata, per cui la soffiata di circostanza porta sulle sue tracce un comandante della Guardia Nazionale che lo sorprende nella taverna delle Pennine: gli spiana il fucile in faccia e gli intima di arrendersi. Puntando sulla sua destrezza e sulla momentanea indecisione dell'avversario, Alfonso riesce a liberarsi da quel terribile imbarazzo e si dà alla macchia nella campagna circostante. Le brevi comparse in famiglia, indotte dall'esigenza primaria di sfamarsi, avvengono con molta circospezione ed attenzione, ma non tale da farlo passare inosservato. Del resto nei piccoli paesi tutti sanno e vedono tutto, anche se, il più delle volte, non parlano. Proprio in una di queste sortite egli si trova di fronte un certo Iacobo Izzi che gli presenta Giuseppe de Maria, Giovanni Solla, Domenico Catuogno e Giovanni Volla, tutti latitanti per diserzione o renitenza. A questo punto, ritenendo di esporre anche la sua famiglia ad un grave rischio, nel mese di maggio 1861, si allontana di lì e costituisce una piccola banda. Gli approvvigionamenti avvengono da parte dei proprietari dei fondi limitrofi a Marano. Nel corso del mese di giugno ingrossano le fila il falegname Ferdinando d'Ippolito ed un suo compagno, entrambi napoletani che sono evasi dal carcere dei Granili, nonché altri tre uomini. Tutti costoro eleggono all'unanimità Alfonso Cerullo capo della banda, in quanto gli riconoscono la superiorità per l'arte dello scrivere, del leggere e del ragionare. Avendo urgente bisogno di armi, egli le chiede in prestito agli amici di Marano, tra cui Domenico de Vito, Giuseppe lo Zannuto, il sergente Fronna, Giuseppe Ruggiero, Matteo Carputo e Domenico Verde i quali non deludono le sue aspettative. Il suo nome corre sulla bocca di tutti i compaesani e diventa sinonimo di terrore. In siffatta atmosfera, il 27 giugno 1861, in cui si celebra la festa di San Crescenzo, il capitano della Guardia Nazionale di Marano, Camillo Spinosa, lo invita a presentarsi a casa sua per sciogliere la banda. Attratto dalla velata impunità, implicita nel garbato invito, Alfonso esegue quanto consigliato: consegna le armi ai reali possessori e, nella stessa giornata, scioglie la banda e si ritira nella masseria a lavorare. Dopo non molto tempo egli, annoiato dall'inazione e incalzato da ogni parte, ricompone la banda con l'adesione di quaranta uomini, provenienti, nella maggior parte, dai ranghi dell'esercito e dalle realtà regionali diverse. Infatti, dando uno sguardo veloce agli appunti personali del capo, annotiamo le identità di alcuni accoliti: Luigi Petrella e Biagio Fedele da Napoli, Crescenzo di Matteo da Pianura, Francesco Carraturo e Michele Rosselli dalla Sicilia, Vincenzo e Andrea Giuliano da Marigliano, Pasquale Panella da Pozzuoli, Saverio Perotti e Saverio Iallone da Marano, Nicodemo Ferrillo da Calvizzano, Carmine Trezzella da Nola, Luigi Casignano da Lecce, Gaetano Mincione e Dionisio Capassi dalla Basilicata. Il mentore in assoluto è certamente Macedonio de Maria il quale, vantandosi di far parte di un sedicente comitato borbonico, lo spinge a tenere duro, in quanto il re Francesco II, nel suo imminente ritorno al trono, lo ricompenserà adeguatamente. All'uopo gli manda qualche contributo per le spese più urgenti della banda la quale, da parte sua, concretizza la prassi del sovvenzionamento coatto. Così, scorrendo la relativa lista delle estorsioni, vi scorgiamo la somma complessiva di centrotrentaquattro ducati e quaranta grani, a cui concorrono, tra gli altri, il sacerdote don Mario de Magistris con venti ducati, il giudice Egidio Battagliese con due ducati e quaranta grani, Vincenzo de Martino con sei ducati, Arcangelo de Marino con tre ducati e sessanta grani, Giovanni de Marino con tre ducati e sessanta grani.Va da sé l'imposizione delle elargizioni in natura di vario genere, quali commestibili, abiti, armi e munizioni. Lo stesso discorso vale per quanto concerne i furti e le grassazioni, come quella perpetrata, il 24 luglio 1861, a danno della Guardia Nazionale di Chiaiano, ove, stando alla testimonianza diretta del protagonista, egli non partecipa, dal momento che febbricitante, assistito da due soli "guaglioni", giace "sopra un mucchio di frondi di castagne". Al ritorno i suoi uomini gli consegnano un pingue bottino di cinque o sei fucili, una tromba e una bandiera. Dopo pochi giorni, nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1861, matura la decisione di cambiare vita definitivamente. Forse, rimane coinvolto nella tempesta del dubbio circa il ritorno borbonico e non sopporta più la brutta piega di alcuni del suo seguito, dediti a "rubare e far denaro" per il solo gusto di delinquere. Così l'indomani si accomiata dai suoi uomini, dei quali molti, ben trentotto, continuano a percorrere la stessa strada sotto la guida di Crescenzo de Matteo, lastricandola di misfatti e crimini. Assapora i rigori del carcere un piccolo gruppo, nel quale si segnalano Giovanni e Gennaro Volla, Raffaele d'Amora, Luigi Corigliano e Luigi Pagano. Alcuni indossano la divisa militare, come Iacobo Izzo, Francesco Maria, Fedele Ippolito e Giuseppe Maria. Alfonso, rimasto da solo, vaga continuamente attraverso i campi per cinque o sei giorni, si sente braccato su ogni fronte, per cui alla fine non trova altra soluzione che rintanarsi in una cameretta al piano superiore dell'abitazione della sorella attigua e concomitante con la casa paterna, donde può osservare i movimenti esterni di quanti vanno alla ricerca delle sue tracce. Chiuso tra quelle pareti, trascorre il tempo dedicandosi a cucire e a filare, mettendo a frutto gli insegnamenti della sorella. L'unica sortita avviene il 4 ottobre 1863, allorché travestito da donna si reca ad ammirare il "basolato" nuovo e il palazzo recentemente costruiti nel suo paese. Purtroppo, nel suo rifugio arriva ad infiltrarsi la subdola voce dell'immancabile traditore di turno che, fingendo di preoccuparsi della sua incolumità, lo sollecita a rifugiarsi a Roma, seguendo le indicazioni superiori trasmesse attraverso due incaricati. Puntualmente, il 26 novembre 1864, questi ultimi sono sul luogo dell'appuntamento, ove Alfonso sopraggiunge accompagnato dai fratelli. I tre, saliti su una vettura, procedono alla volta di Napoli. Giunti alla barriera di Capodimonte, vengono sorpresi dalla forza pubblica la quale lo arresta, mentre i due compagni si qualificano come agenti della questura. Sottoposto a perquisizione, gli trovano addosso un fucile, un revolver, le munizioni, un coltello da caccia e alcuni documenti importanti, sulle cui note egli rievoca durante l'interrogatorio le tappe più significative della sua avventura esistenziale.
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Di Admin (del 13/05/2011 @ 06:03:03, in articoli, linkato 703 volte)
Il bilancio consuntivo di Pozzuoli, presentato l’8 novembre 1718, registra le entrate pari a 10.933 ducati, tre tarì e diciannove grana, cui corrispondono come uscite 10.930 ducati e quattro grana. Addentrandoci nel computo delle entrate, notiamo che svolgono un ruolo primario le varie gabelle che incidono sulla farina, sul caso, vino e olio, sulla carne, sul peso e scannaggio, sulla catapania, sulla confezione del pane, sulla neve, sulla portolania, sul “mondezzaro” e sulla zecca, i cui rispettivi gestori pro tempore sono Diego Folliero, Giovanni Battista Capomazza, Francesco Assante, Domenico Troja, Giuseppe Pettenato, Carlo Damiano, Geronimo di Nocera, Gennaro d’Ariano, Proculo Piccardo e Antonio Cauza. Seguono vari censi esatti da privati, tra i quali si distinguono Giuseppe Costantino, Salvatore di Costanzo, Filippo Compagnone, Matteo Iodice, la congregazione di San Filippo Neri dei mercanti napoletani, Paolo Sabatino, Francesco Adaldo, Vincenzo Volpe. Lo sguardo alle uscite, poi, ci permette, di verificare gli impegni nei confronti dei cosiddetti creditori strumentari, tra i quali la Casa della Santissima Annunziata rivendica un appannaggio di trecentoundici ducati e due grana. Oltre alla verifica finanziaria, l'esame in questione ci consente anche di recuperare alcuni pezzi del passato, costituenti l’essenza della società puteolana nel Settecento. Non a caso ben 250 ducati vanno a sovvenzionare, in termini di vitto e alloggio, i cittadini carcerati e poveri senza distinzione di sesso. Notevole risulta lo spazio dedicato al comparto religioso, ove eccellono le festività del Santissimo Corpo di Cristo, della Santissima Concezione, dei Santi Proculo, Gennaro e Giacomo che impegnano 350 ducati. Occupa un capitolo a se stante la Madonna: ella, nelle vesti di Regina del Parto, funge da protettrice suprema della cittadinanza la quale vi ricorre fiduciosa in ogni avversità. Per questo motivo la sua statua viene portata in processione per le strade cittadine quattro volte all’anno e la lampada nella cappella rimane sempre accesa. Le risorse riservate ai lavori pubblici contemplano gli accomodi alle infrastrutture viarie con i relativi canaloni sotterranei, le fontane, i ponti e le carceri. La manutenzione di cinque torri, utilizzate per la custodia delle marine, usufruisce di un budget annuo di novanta ducati. La procedura per l’elezione annuale della giunta, costituita dal sindaco ed Eletti, costa alla collettività centrotrenta ducati, in quanto presuppone la presenza del governatore con la cosiddetta squadra di campagna, deputata ad assicurare l’ordine pubblico.Attendono con gioia le festività pasquali le autorità centrali, in quanto destinatarie di un vistoso contributo, quantificato in centocinquanta ducati.
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Di Admin (del 07/05/2011 @ 23:31:19, in articoli, linkato 591 volte)
Negli ultimi tempi i nobili hanno accentuato il loro potere a detrimento della cittadinanza. L’eco si legge a chiare lettere in un ampio memoriale accusatorio, composto da trentuno punti e inviato al presidente della Regia Camera, Bartolomeo de Sierra Ossorio, il quale, in seguito a dispaccio datato 26 giugno 1704, ne attiva la relativa indagine. Le accuse investono l’intera attività amministrativa, sempre più accentrata nelle mani nobiliari. Infatti, la recente apertura della taverna da parte di Luise de Palma si affianca alle due più antiche di Michele Cesarini e di Mario Mastrillo, ubicate, rispettivamente, al Carmine, alla dogana e nei pressi del mercato: tutte e tre godono del disgravio fiscale da trenta a quindici ducati per ogni botte di vino venduta nelle taverne e nei quindici fondaci locali, mentre gli ecclesiastici continuano a pagare sette carlini e mezzo per la stessa merce all’affittatore pro tempore. Dei suddetti personaggi il primo sovrasta di gran lunga sugli altri, tanto che ha avuto l’ardire di spostare la fiera di San Paolino dall’antica sede, larga e spaziosa, situata alla Porta di Gesù o Porta della Regina, alla nuova del Carmine, angusta e disagevole, ove egli ha costruito un insieme di locali, impiantandovi la “chianca”, la bottega e la taverna, appoggiandole, addirittura, alle mura della città e circondandole con una siepe. Nella elezione dei quattro Eletti i nobili mirano ad avere come colleghi o i renitenti o gli assenti o gli occupati, nominati a loro arbitrio ed in sedute insolite, per non esporre a controllo le numerose prepotenze di casta, esperite a danno della controparte. Nelle loro mani si concentrano la usurpazione di centinaia di moggia del bosco demaniale, situate nella località denominata ai Punti di Nola, i crediti fiscalari e strumentari, la esazione delle gabelle, l’esercizio monocratico delle cariche di baglivo, cancelliere e razionale del Monte di San Felice, cariche che, sulla carta, dovrebbero essere ricoperte da tre persone. Vi si avverte il segno negativo dell’avvocato Giulio di Palma, le cui sedicenti mansioni collettive, pagate dalle casse pubbliche, conoscono solo gli interessi privati
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Di Admin (del 07/05/2011 @ 23:11:59, in articoli, linkato 966 volte)
Il governo militare alleato, sub regione di Resina, il 9 ottobre 1943, nomina come commissario prefettizio di San Giorgio a Cremano l’avvocato Eugenio Amendola, il quale, iscritto al partito socialista fin dal 1898, paga il suo tributo ideologico con la persecuzione e la persecuzione durante il ventennio fascismo. Egli dovrebbe sostituire gli avvocati fascisti Francesco Sparano e Giuseppe Cardini, rispettivamente, commissario e vice commissario prefettizi. A fronte dell’atteggiamento dilatorio della prefettura, l’avvocato Eugenio Amendola, il 4 novembre successivo, presenta le dimissioni al governo militare subregionale, il quale le respinge. A sorpresa la prefettura, il 22 dicembre 1943, nomina come commissario il ragioniere Salvatore Ambrosio, iscritto al partito fascista fino al suo scioglimento e impiegato al consiglio provinciale delle corporazioni alle dipendenze del gerarca Tecchio. Venuto a conoscenza di ciò, il governo militare invita l’Amendola a rimanere in carica, mentre la prefettura gli chiede, l’8 febbraio 1944, di dare attuazione all’insediamento di Ambrosio nella carica di commissario. L’interessato ottempera all’ordine prefettizio. Puntualmente giunge la netta e intransigente interdizione da parte del comitato di liberazione che, messo alle strette dall’ulteriore diniego di Amendola, nomina, il 13 aprile 1944, il dottor Salvatore La Campa sindaco di San Giorgio a Cremano. L’iter riserva ancora la sorpresa finale: nel momento in cui ulteriori indagini portano a galla di quest’ultimo l’appartenenza al partito fascista fino al suo scioglimento, il comitato ritorna sui suoi passi, fa le dovute pressioni su Amendola e lo induce ad accettare la nomina di sindaco.
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Di Admin (del 04/04/2011 @ 09:24:37, in articoli, linkato 657 volte)
La città di Sorrento vanta un'antica tradizione di acquedotti risalente ai Romani i quali ne appresero la tecnica dai Greci. Entro questo programma va inserita la costruzione di alcuni acquedotti sorrentini, denominati Formiello, San Massimo, Majano e Casa d'Ardja. Il primo ha origine nel territorio di Piano nella contrada chiamata Patrulo alle falde settentrionali del monte Vico Albano, alla profondità di sessanta palmi sotto la superficie della casa appartenente allora a Francesco Attanasio e Giacomo Califano.
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Di Admin (del 17/03/2011 @ 18:34:03, in articoli, linkato 5456 volte)
Domenica, 13 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi è accolto entusiasticamente a Salemi, ove alla popolazione locale si associano altri gruppi di insorti e varie squadre di picciotti, di cui una è capitanata da un monaco francescano, fra Giovanni Pantaleo. Proprio la vista di quest'ultimo lo spinge ad inviare ai "preti buoni" l'invito ad unirsi al coro dei combattenti per la patria: "Comunque sia, comunque vadano le sorti dell'Italia, il clero che fa oggi causa comune coi nostri nemici, che compra soldati stranieri per combattere Italiani, sarà maledetto da tutte le generazioni. Ciò che consola però e che promette non perduta la vera religione di Cristo, si è di vedere in Sicilia i preti marciare alla testa del popolo per combattere gli oppressori. Gli Ugo Bassi, i Verità, i Guzmarolli, i Bianchi non son tutti morti; ed il di che sia seguito l'esempio di questi martiri, di questi campioni della causa nazionale, lo straniero avrà cessato di calpestare la nostra terra, avrà cessato di essere padrone dei nostri figli, delle nostre donne, del nostro patrimonio e di noi!". Il giorno dopo, 14 maggio 1860, Garibaldi parla alla folla, esortandola a combattere per l'unità d'Italia. Quindi dichiara di assumere la dittatura della Sicilia nel nome di Vittorio Emanuele II. Le copie del relativo decreto, di seguito trascritto, sono affisse lungo tutte le vie: "Siciliani, Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde. Noi siamo con voi! Non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dunque! Chi non impugna un'arma è un codardo e un traditore della Patria. Non vale il pretesto della mancanza d'armi. Noi avremo fucili; ma ora un'arma qualunque basta, impugnata dalla destra d'un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vecchi derelitti. All'armi tutti. La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà d'un popolo unito".
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Di Admin (del 17/03/2011 @ 17:36:05, in Articoli, linkato 712 volte)
Il 17 marzo 1861 avviene la promulgazione della legge che proclama il regno d'Italia. Il relativo testo legislativo, elaborato da una commissione parlamentare ad hoc, riceve la prima approvazione dal senato il 26 febbraio 1861 a maggioranza con centoventinove voti favorevoli e due contrari. Questo dissenso viene manifestato dal senatore "democratico" Lorenzo Pareto il quale intenderebbe mutare la dizione "re d'Italia" in "re degli Italiani", ritenuta più attinente e più rispondente all'unanime acclamazione voluta da "tutti i popoli dalle Alpi al Lilibeo". Inoltre, a giudizio del dissidente, l'acclamazione del re avrebbe dovuto avere come base l'iniziativa parlamentare e non quella reale. L'eco di siffatte note vibra nella seconda parte della successiva seduta della camera dei deputati, tenutasi il 14 marzo 1861. Infatti, a mezzogiorno in punto il presidente della Camera Urbani Rattazzi apre i lavori con la lettura e l'approvazione del verbale della seduta precedente. Quindi vengono lette tre petizioni: la prima è avanzata da centoventotto cittadini di Monteleone di Calabria i quali chiedono di riavere il diritto della pesca nella tonnara di Bivona, già concessa dall'ex re di Napoli alla famiglia dei duchi Pignatelli; la seconda, proposta da Giovanni Battista Campana Nobile di Genova, mira ad introdurre alcune "modificazioni" nell'alfabeto e nella pronuncia della lingua italiana; la terza, a nome di Pasquale Pagani di Ferago (Milano), punta sulla richiesta della reintegrazione della pensione, già assegnatagli dal governo austriaco per il riconoscimento di servizi militari prestati. Segue la comunicazione da parte del presidente circa i risultati della votazione dei tre commissari addetti alla biblioteca. Nessuno dei candidati ha raggiunto la maggioranza richiesta di novantaquattro voti su centottantasette votanti, come recita il quadro sinottico dell'urna: infatti, Gustavo Cavour riporta novanta voti, Giovenale Vegezzi Ruscalla settatanquattro, Giovanni Battista Giorgini quarantaquattro, Antonio Ranieri quarantadue, Giuseppe Ferrari trentatré, Marco Boncompagni trentatré, Guerrieri ventisei, Giuseppe Canestrini venti, Mauro Macchi diciotto, Saverio Baldacchini sedici, Ruggiero Bonghi quindici e Antonio Tari quattordici. Tali risultati rendono obbligatoria una nuova votazione che si terrà o alla fine della seduta odierna o nella prossima. Subito dopo il presidente comunica l'avvento di alcuni omaggi: una copia del Manuale pratico di chirurgia giudiziaria di Giambattista Garibaldi; una raccolta degli atti ufficiali del governo dell'Umbria di Gioacchino Pepoli; duecentocinquanta copie del volume San Bendetto al Parlamento Nazionale di Luigi Tosti. Si prosegue con la lettura di due lettere: una, a firma del senatore Ranco Luigi, chiede un congedo di quaranta o quarantacinque giorni per recarsi nelle province meridionali per incarico del governo. Nell'altra il deputato Carlo Grillenzoni di Ferrara, sebbene sia impedito dalla malattia di essere presente in parlamento, dichiara di associarsi al voto dei colleghi "i quali, nel chiamare Vittorio Emanuele Re d'Italia, sanciscono nella forma più solenne il diritto della nostra unità nazionale". Infine due deputati, eletti contemporaneamente in due collegi, sciolgono l'opzione: Giovanni Barracco opta per Cotrone e Turrisi per Palermo 2". Il giuramento dei deputati Torrearsa, Costa e Correnti conclude la prima parte della seduta. A questo punto si entra nel vivo dell'ordine del giorno, vertente sull'approvazione definitiva del disegno di legge sulla proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia. Giovanni Battista Giorgini, invitato dalla presidenza, relaziona nel merito a nome della seguente commissione di cui ha fatto parte come segretario: Bettino Ricasoli, Emilio Cipriani, Paolo Paternostro, Gioacchino Pepoli, Didaco Macciò, Pietro Audinot, Giuseppe Natoli e Giovanni Baracco. A conclusione egli ne legge il testo: "Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia". Aperta la discussione, prende la parola Angelo Brofferio il quale, essendo portavoce del partito "democratico", si effonde in una lunga dissertazione per dimostrare la nuova proposta, di maggiore sapore popolare, da sottoporre ad approvazione: "Vittorio Emanuele II è proclamato dal popolo italiano, per sé e suoi successori, re d'Italia". Quindi interviene Pepoli "per insistere vivamente in nome della Commissione sull'opportunità di votare questa legge quasi dire per acclamazione"...... Viene letto il dispaccio telegrafico con cui il generale Cialdini annuncia la resa di Messina e la cattura di cinque generali, centocinquanta ufficiali, quattromila a cinquemila uomini, trecento cannoni. La notizia suscita un coro fragoroso di applausi e di evviva. Segue l'appello nominale dei presenti i quali procedono alla votazione. L'urna dà i seguenti responsi: duecentonovantadue voti favorevoli e due contrari. Questi ultimi vengono subito rettificati in seguito a dichiarazione degli interessati: essi, infatti, pur volendo manifestare la loro volontà favorevole, hanno commesso un errore materiale, ponendo il primo la palla nera nell'urna bianca e la palla bianca nell'urna nera, mentre l'altro ha deposto la palla nera nell'urna bianca, dimenticando di deporre la palla nera nell'altra urna. Pertanto, il presidente può tranquillamente dichiarare che la camera approva all'unanimità. La proclamazione avviene nello scroscio di applausi e di grida "Viva il re d'Italia". Le emozioni della giornata sono state intense durante le tre ore e un quarto di lavori, per cui non c'è tempo per ascoltare le risposte del ministro della guerra Manfredo Fanti alle interpellanze del deputato Alessandro Lamarmora, audizione rimandata alla prossima seduta di giovedì prossimo.
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Di Admin (del 21/02/2011 @ 11:07:09, in articoli, linkato 1369 volte)
Corre il 21 settembre 1851, Nicola Palermo, condannato per motivi politici alla pena capitale, commutata in trenta anni di detenzione, viene trasferito da Reggio Calabria a Napoli, percorrendo a piedi e in manette trecento miglia in ventidue giorni. Gli fanno compagnia altri tre condannati politici, tra cui il fratello Nicodemo, e diciotto delinquenti comuni. Le soste intermedie avvengono tra le pareti di diversi carceri, ove il protagonista prova le mortificazioni più abiette. Tra l'altro subisce nel penitenziario di Cosenza il tributo amaro di pagare la cosiddetta "camorra". A Napoli viene rinchiuso nel carcere del Carmine e, dopo pochi giorni, in quello di Procida, ricolmo di 1500 detenuti, con i quali assapora i sorsi tremendi delle vessazioni: indossa vesti tessute con peli di asini; malnutrito, incatenato, prova i capricci sadici degli aguzzini e del comandante de Falco. L'odissea carceraria continua in seguito all'ennesimo trasferimento nel carcere di Montesarchio, ove permane dal 28 maggio 1855 al 7 gennaio 1859. Anche questo periodo fu contrassegnato da inaudite sofferenze, sopportate con spirito stoico e inesorabile fede nella sua missione politica. Il suddetto arco temporale non coincide con la conclusione della via crucis, in quanto egli si trova annoverato tra i detenuti, destinatari di indulto in cambio dell'esilio in America. L'imbarco sulla corvetta a vapore Stromboli e la successiva navigazione si protrae fino al 26 gennaio con l'approdo a Cadice. Fortunatamente l'ulteriore imbarco sul veliero David Stewart non arriva a destinazione, in quanto nei pressi delle Canarie il figlio di Luigi Settembrini, Raffaele, spinto da amor filiale, riesce a dirottare l'imbarcazione alla volta dell'Irlanda, permettendo a tutti di godere del dono della libertà.
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Di Admin (del 15/02/2011 @ 21:02:37, in articoli, linkato 668 volte)
Casoria concorre a scrivere la storia del 1799 fin dal mese di gennaio: infatti, nei giorni diciassette e venti, Sabato Javarone, Carmine Grazioso, Antonio de Luca tentano di sollevare il popolo casoriano contro il regime repubblicano testé insediato. Il 28 febbraio lo scenario amplia la presenza umana con l’aggiunta di Giovanni Esposito e Mauro Grazioso i quali, sotto il pretesto del prossimo avvento del cardinale Ruffo, incitano, con spari e minacce, la popolazione casoriana a strapparsi di dosso la coccarda tricolore e a passare alla controrivoluzione. Tutti i sobillatori, arrestati, subiscono il processo per direttissima con la arringhe del commissario di governo e del difensore, l’8 aprile 1799, allorché sono condannati alla seguenti pene: Sabato Javarone a cinque anni di carcere, Carmine Grazioso alla pena di morte, Antonio de Luca all’ergastolo, Giovanni Esposito all’ergastolo, Mauro Grazioso a venticinque anni di carcere. Il testo di questa sentenza, letto ai condannati, viene affisso negli spazi consentiti di Casoria a cura di Gregorio Ferrara, prosegretario dell’alta commissione militare, composta dalle seguenti persone: Giorgio Pagliacelli (presidente), Onofrio Decolaci, Giovanni Battista Manthoné, Raffaele Manzi, Gaetano Teroni, Filippo Wirtz e Giuseppe Celentano (segretario). In tale lista compare anche il casoriano Sabato Silvestro, condannato a dieci anni di carcere per l’accusa di detenzione di baionetta, con cui ha ferito alla testa il compaesano Mauro Tuccillo. Analoga pena viene irrogata ad un altro casoriano Nicola Soviero, accusato di detenzione di varie armi. Dopo pochi mesi, il 4 giugno 1799, avviene lo scontro frontale tra repubblicani e realisti: muoiono Giuseppe Marino, Carmine Mastronzo, Sabato Pagano, Antonio Russo, Domenico Russo, Silvestro Russo, Giovanni Palmentiero, viene bruciato in un pagliaio Luigi di Caro. Di costoro due sono insorgenti, cioè Antonio Cortese e Luigi di Caro, i restanti con gli insorgenti di Afragola, e tutti gli altri predetti, uccisi innocentemente per le strade e per le campagne, sono stati sepolti nella chiesa di San Mauro. In tutt'altro contesto il casoriano Simone di Simone, laico professo carmelitano, vive sulla propria pelle, in maniera drammatica, le terribili vicende della repubblica napoletana nei suoi risvolti più acuti e delicati. Tutto comincia nel monastero carmelitano di Rocca d’Aspide, ove affluiscono seicento uomini armati locali, decisi a fronteggiare, sotto l’assistenza del frate, l’eventuale assalto dei francesi. L’avvento degli assalitori, divenuto dirompente e fragoroso anche in virtù dello sparo dei cannoni, semina il panico nei cuori della parte avversa, la quale scappa a gambe levate. Il frate, rimasto da solo nel convento, diventa il bersaglio centrale dell’ira francese: è spogliato di tutto, lasciato con una vecchia tonaca addosso, legato con altri quaranta prigionieri, quindi condotto per vari paesi limitrofi, tra cui Nocera di Pagani. Qui avviene l’incontro con il generale Pignatelli Serragli il quale, dopo un processo sommario e sbrigativo, decreta la fucilazione per tutti gli arrestati. L’infelice padre Simone, sfuggito alla sentenza di morte per miracolo della Vergine, viene trascinato a Napoli, ove prova i rigori carcerari della Gran Corte della Vicaria, di Santa Maria a Parete e di Castello dell’Ovo, ove il vitto si limita al pane e all’acqua. La liberazione avviene undici giorni dopo che le truppe del cardinale Ruffo entrano in Napoli e determinano la fine dell'esperienza repubblicana. A fronte di queste peripezie, che lo hanno segnato, in profondità, nel fisico e nell’animo, il frate, costretto dai suoi superiori a peregrinare da un convento montano ad un altro, vede sempre più naufragare la immediata speranza di una dimora definitiva più vicina alla sua terra d’origine, come il Monastero del Carmelo Maggiore di Napoli o quello di Caserta. A questo punto, a distanza di un anno e mezzo dell’ultima tappa della sua via crucis, il 20 dicembre 1800, dalle pareti del monastero di Santa Maria del Carmine di Buccino, egli, avvertendo ancora i brividi in tutta la loro immediatezza, affida le sue ultime speranze al Delegato della Real Giurisdizione attraverso la penna del notaio Giuseppe Maria Merlini.
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Di Admin (del 15/02/2011 @ 20:54:49, in articoli , linkato 658 volte)
A metà Ottocento le case circondariali a Napoli sono Castel Capuano, San Francesco, Santa Maria ad Agnone, Concordia, Santa Maria Apparente, Istituto artistico. Nel carcere di Castel Capuano vanno custoditi quanti sono in attesa di giudizio oppure di passaggio. Qui l'assegnazione alle singole sezioni avviene in base alla condizione e alla imputazione degli inquilini. Infatti, la prima sezione è riservata ai poveri, la seconda agli agiati, la terza esclusiva agli imputati di gravi pene, la quarta ai cosiddetti camorristi, la quinta ai detenuti di passaggio e l’ultima ai testimoni. In questo carcere i detenuti non sono soggetti all'occupazione lavorativa obbligatoria, giacché la permanenza è temporanea. Vi prevale, quindi la prestazione volontaria nei mestieri più conformi alle attitudini dei singoli. Lo stabilimento di San Francesco si divide in tre sezioni: la prima è destinata alla cura dei detenuti infermi di tutte le prigioni della capitale; la seconda, chiamata casa di correzione per i giovinetti; la terza rappresenta l’opificio di Napoli. Nelle sue pareti una sala è adibita ad ospedale; un'altra riservata ai morenti; un'altra a quelli afflitti da mali contagiosi. In Santa Maria ad Agnone sono rinchiuse le donne già condannate e quelle in attesa di giudizio. Provvedono all'organizzazione generale generale delle ospiti le suore della carità. Sembra un conservatorio di donne pentite piuttosto che un carcere. Le detenute sono occupate nel lavoro e seguite con molta cura dalla congregazione delle più distinte donne della capitale. La Concordia si divide in due grandi sezioni: nell’una sono ristretti i debitori, nella seconda i detenuti ecclesiastici. In Santa Maria Apparente permangono coloro che sono oggetto di osservazione da parte della polizia. Sebbene sia collocato nella parte alta di Napoli, presenta alcune disfunzioni, prontamente corrette. Non a caso, motivi igienici hanno imposto la chiusura di un pozzo o fosso, dalle cui acque stagnanti si propagavno miasmi maleodoranti. La cucina ha subito un ampliamento spaziale, quella riservata ai poveri un abbellimento di immagine. L'Istituto artistico, fondato nel nel 1856, accoglie i giovani che hanno espiato la pena legata alla mendicità, al vagabondaggio o al furto. Il recupero verte sull'apprendimento di mestieri, di cui i più comuni sono il sarto, il calzolaio, il tipografo, il litografo, il tessitore, il falegname e il legatore di libri. A margine di ciò vengono impartiti l'insegnamento finalizzato a leggere, scrivere, far di conto e acquisire competenze elemntari nel disegno. Gli alunni ricevono nelle prime ore del mattino una colazione, al mezzogiorno una zuppa con carne il lunedì, martedì, giovedì e domenica, negli altri giorni, oltre la zuppa, una seconda vivanda. La sera ritorna la colazione. Escono nei giorni di festa vestiti con uniforme composta di giacca e pantalone di panno bleu d’inverno, mentre in estate con giacca di panno e pantalone bianco di cotone. La direzione è composta da un consiglio di amministrazione. Un corrispondente numero di prefetti scelti tra gli ufficiali di base del real corpo dei veterani vigila di giorno le sale di lavoro e, durante la notte, i dormitori.
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