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Di Admin (del 04/01/2009 @ 22:10:58, in articoli, linkato 1127 volte)
L'avvento francese nel regno delle due Sicilie apporta una folata ideologica antimonastica, dettata dalla programmata volontà di equilibrare con interventi mirati e graduali il disastroso disavanzo finanziario delle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche, accumulato negli anni precedenti. I suoi nugoli procellosi soffiano con veemenza ed immediatezza anche ad Ottajano, laddove centotrentotto nostri concittadini sottoscrivono la richiesta, inoltrata al re Giuseppe Buonaparte, alla fine del 1806, e proiettata a sopprimere i quattro monasteri locali, retti, rispettivamente, dai Domenicani, Serviti, Paolotti e Carmelitani. L'istanza si basa sulla presunta opportunità di riutilizzare le rendite conventuali, che si aggirano a circa millecinquecento ducati, e i loro relativi locali, che ospitano appena qualche frate, per impiantarvi, a beneficio della collettività, servizi sociali impellenti ed inderogabili, quali un ospedale per i poveri, una scuola per i fanciulli, una caserma per la guardia civica ed un alloggio per accogliere le truppe francesi di passaggio. Il Sottintendente Gaetano Vestini, prima di esprimere il suo parere in proposito, effettua una meticolosa indagine, affidandone il compito al regio governatore locale, Matteo Anzuoli, e al nostro concittadino Giuseppe Barra. Le concordi informazioni, pervenutegli, nell'ultimo scorcio di gennaio 1807, da parte dei due incaricati, parlano un linguaggio del tutto antitetico rispetto alla suddetta domanda. Innanzi tutto in ognuno dei conventi dimorano soltanto due monaci, in quello dei Domenicani, invece, ve ne sono quattro, un maestro di teologia, un predicatore, un superiore, un confessore ed un laico. Inoltre, al di là del numero, tutti i frati, secondo la testimoninanza dei quattro parroci locali e dello stesso primicerio, coadiuvano i sacerdoti nelle mansioni religiose e coordinano nei loro plessi il funzionamento di varie congregazioni laicali. A giudizio del governatore, pretestuosi ed inutili risultano, poi, anche i ventilati servizi sociali. Infatti, la cultura ospedaliera non rientra neppure nella mentalità del circondario, come dimostra il San Giovanni di Dio, istallato a Somma, continuamente privo dei degenti. Il corpo di Guardia Civica ha già la sua sede in un posto centrale della piazza ottajanese. Sarebbe un inutile spreco di preziose risorse finanziarie pubbliche l'istituendo locale per l'accoglienza delle truppe francesi, la cui presenza in loco, eccezionale ed occasionale, dato che Ottajano non è "strada di passaggio", potrebbe essere ospitata negli stessi monasteri. Infine, proprio i Domenicani hanno da tempo attivato nel convento una scuola per i fanciulli. Tutti questi rilievi, inseriti nella susseguente relazione ufficiale del 27 gennaio 1807, pervengono alla attenzione delle autorità gerarchiche superiori, per cui non desta meraviglia il diniego opposto dal Ministro dell'Interno alla richiesta della suddetta parte della base sociale ottajanese, il 14 febbraio 1807. Frattanto fa sentire i contraccolpi più lancinanti il pesante deficit finanziario del nostro bilancio comunale, che annovera un disavanzo di 9318 ducati e sessanta grana, comunicato all'Intendente, il 13 gennaio 1807. Nè appare all'orizzonte il minimo segno di inversione di tendenza a causa di ineluttabili fattori congiunturali, legati all'ultima eruzione del Vesuvio, avvenuta l'anno scorso, per le cui costanti rovine, visionate dallo stesso Sottintendente, il dispaccio reale ha esentato dal pagamento del terzo della decima i proprietari dei fondi danneggiati. Permane, poi, a carico del nostro percettore la difficile esazione di gran parte della suddetta tassa da parte dell'azienda ex gesuitica. Tralasciamo le numerose liti giudiziarie, accresciutesi in proporzione all'elevato tasso di litigiosità, lascia presagire, a sentenze passate in giudicato, un ulteriore esborso di risorse pubbliche in indennizzi, in risarcimenti ed in onerosi onorari agli avvocati. Tali difficoltà di recupero di cassa, presenti in quasi tutte le realtà comunali del regno e associate ad una gestione poco rigorosa della spesa pubblica, rafforza la tesi di quanti , al vertice, sostengono l'ineluttabilità dell'incameramento dei beni conventuali. Il successivo decreto reale del 26 novembre 1807, che sancisce la soppressione dei monasteri dei padri Paolotti di Nocera, Castellammare, Cava, sembra escludere, al momento, quello di Ottajano, immesso, per errore meccanico, nella giurisdizione di Terra di Lavoro. Nello spazio di poco tempo, però, avviene la rettifica e si mette in moto tutta la procedura burocratica per effettuare l'inventario degli arredi sacri, esistenti nel suddetto convento ottajanese di San Francesco di Paola, eseguito, il 20 dicembre successivo, da Giuseppe Barra e Vincenzo Aurigemma: la copia del relativo verbale, sottoscritta dai responsabili, nonché dai testimoni Gaetano Coppola e Gaetano Cutolo, ne affida la custodia al sindaco Giuseppe d'Ambrosio fu Felice. La partita si riapre dopo pochi giorni, allorché la popolazione dimorante in piazza San Francesco, dispiaciuta per la chiusura della chiesa conventuale, ne chiede l'immediata riapertura, impegnandosi a sostenere eventuali spese di riattazione a titolo personale. Ancora una volta è chiamato in causa il Sottintendente Gaetano Vestini il quale, dopo la solita indagine affidata al regio governatore Giuseppe Barra, ne riferisce, il 23 marzo 1808, all'Intendente Raimondo di Gennaro le risultanze favorevoli alla istanza, su cui riscontra ampia concordanza di consensi della base sociale. Su questi presupposti favorevoli si basa, il 28 maggio successivo, il relativo decreto reale, che ne autorizza la concessione, previo l'avvenuto inventario dei beni esistenti nella chiesa. Esso viene eseguito, lunedì 20 giugno 1808, dall'incaricato distrettuale Nicola Cacace e dal regio governatore che ne affidano la consegna, dietro sottoscrizione del relativo verbale, al sindaco Michele Giordano. Non risulta ricco né efficiente il patrimonio rinvenuto nella suddetta chiesa, dotata di un altare maggiore di marzo e di sei altari laterali, sovrastati, rispettivamente, dai quadri di San Giuseppe, di San Gennaro, del Beato Gaspare, del Beato Nicola, di San Francesco di Paola, di San Michele Arcangelo, cui vanno aggiunti quelli di Sant'Antonino e di San Francesco d'Assisi, appesi al muro dell'entrata. Logora e consunta è la condizione dei paramenti sacri, conservati in uno stipite della sacrestia: in un angolo giacciono le stature di legno di Santa Lucia, di Sant'Agnello e di San Francesco di Paola, un baldacchino e due inginocchioatoi di legno; sul muro pendono i quadri della Madonna e di Santa Lucia. Analogo risulta lo stato delle altre suppellettili , tra cui due confessionili, un pulpito di legno, molti candelieri e varie "frasche indorate con pedagne". A latere della questione nodale, si avverte, in maniera palpabile, la divergenza di opinioni delle stesse autorità nostrane negli atti consequenziali alla denuncia di due frati domenicani Raimondo Zingarelli e Persiani contro il converso fra Liberato, il cui arbitrio, tollerato dalla bontà del padre "maestro" Vincenzo Iannantuono, si traduce nella fornitura di scarso vitto ai monaci. Il Sottintendente Gaetano Vestini, investito della delicata fase delle indagini, incarica, questa volta, il sindaco e il regio governatore locali di effettuare una ricognizione circostanziata suul campo. Le informarzioni, attinte dalle due fonti diverse e comunicate all'Intendente, l'11 agosto 1808, non risultano concordi. Infatti, il sindaco scardina le accuse e svilisce gli accusatori, definendo padre Zingarelli "poco esemplare", padre Persiani "di umore atrabiliare e ipocondriaco"; riconduce, inoltre, l'attuale atteggiamento polemico di fra Liberato alla recente perdita della carica di procuratore monastico, ricoperta da molto tempo. Il regio governatore, invece, avvalora quanto lamentato nell'esposto, snocciolando, persino, cifre insolite sul numero dei frati, attualmente nove, diciotto nell'immediato futuro, e delle rendite complessive annuali che, a suo giudizio, sono 923 ducati e trentuno grana. L'ufficiale comunicazione scritta di entrambe le versioni non esime l'emittente dal manifestare notevoli perplessità di giudizio, attribuite alle difficoltà ambientali, che impediscono di accertare la verità, come recita la parte conclusiva del documento: "Da ciò si capisce quanto sia difficile in Ottajano divenire all'accerto della verità". Nonostante ciò il Ministro del Culto rimette nelle mani dell'Intendente, il 27 agosto 1810, la decisione di sciogliere il nodo della questione, conferendogli la facoltà di trasferire l'indiziato, qualora risulti colpevole, in qualche altra sede monastica. Entro tale cornice ideologica non subisce alcuna caduta di tono la fede religiosa dei nostri padri, come si evince dalla loro massiccia partecipazione collettiva alle cerimonie quaresimali. Nello specifico la delibera comunale, mirata a designare la terna dei predicatori quaresimali per l'anno successivo nelle chiese di San Giovanni e di San Giuseppe, ha percorso, con tempestività encomiabile, tutto l'iter gerachico, il 19 dicembre 1808, allorché il vescovo di Nola comunica all'Intendente, il duca di Laurenzana, di aver conferito i relativi incarichi ai sacerdoti don Nicola Nappo e don Giuseppe Pappalardo, preferiti, rispettivamente, a don Giovanni Cutolo e don Francesco de Rosa, da una parte, a don Carlo Vita e a don Giovanni Ambrosio Pecorella, dall'altra. Successivamente, ad evitare qualsiasi ulteriore confusione giurisdizionale del nostro territorio, provvede il decreto reale dell'8 aprile 1809, a firma di Giacchino Murat e del Ministro Segretario di Stato Pignatelli, con cui Ottajano ritorna a far parte integrante della provincia di Napoli: "Art. 1°. Il Comune di Ottajano farà nuovamente parte di questa provincia di Napoli. Il nostro Ministro dell'Interno è incaricato della esecuzione del presente decreto". La politica centrale anticonventuale continua il suo corso regolare e ne realizza il piano anche ad Ottajano, il 7 agosto 1809, allorché il decreto reale sancisce la chiusura dei monasteri locali di Santo Spirito, di San Lorenzo e del Rosario. All'uopo la commissione, che comprende il giudice di pace, Giuseppe Barra, il consigliere distrettuale Aurelio Bifulco, il decurione Francesco Fasano e il sindaco Michele Giordano, sostituito dal decurione Gioacchino Bifulco, è incaricato di eseguire gli atti burocratici consequenziali. I lavori iniziano il 10 settembre successivo, allorché viene selezionata tutta la documentazione cartacea da esaminare e sigillata, compresi i registri contabili dei censi, dei livelli e dei canoni. L'intera giornata successiva è dedicata alla ricognizione e all'inventario dei beni immobili e mobili dei tre conventi, opportunamente annotati nei relativi verbali, redatti dal cancelliere del giudicato di pace, Vincenzo Crispo. La prima tappa è il convento di Santo Spirito, retto dai carmelitani fra Carmelo Postiglione di Napoli e fra Alberto Cerchia di Castellammare. La commissione vi entra attraverso la porta della chiesa, sul cui coretto, posteriore all'altare maggiore, domina un quadro in tela della Vergine del Carmine. Nella parte anteriore, lateralmente all'altare, giace un tavolino di legno dorato, presso il quale una nicchia di legno accoglie la statuta della Vergine del Carmine con il bambino in mano, "vestiti con abiti stellati in oro con corrispondenti corone". Lo stucco adorna l'altare maggiore e gli altri altarini laterali, facilmente individuabili per l'effigie sacra riprodotta nei rispettivi quadri appesi al muro: Sant'Anna, Santa Maria Maddalena, Sant'Elia, Sant'Alberto, San Biagio, Santa Maria del Carmine. La perlustrazione della sacrestia, collocata a sinistra e ugualmente rivestita di stucco, non richiede molto tempo, data la esiguità e la vetustà degli oggetti rinvenuti. Poco dopo i commissari, varcando la porta a destra, si immettono in un arioso cortile, la cui cisterna, posta al centro, soddisfa le esigenze idriche della cittadinanza per l'intera giornata fino alle ore ventiquattro, in piena applicazione delle voci contemplate in un antico capitolato concordato con l'ente comunale. A mezzogiorno un piccolo giardino quadrato, piantato a viti e alberi da frutta, è diviso in due porzioni: la prima misura novanta palmi di lunghezza e nove palmi di larghezza, l'altra quarantanove palmi di lunghezza e diciassette palmi di larghezza. Lungo il fianco sinistro del corridoio, che costeggia il cortile, corrono una stalla, un cellarino, una dispensa, un deposito di legna, il forno e sei "casotti". Attraverso la scala si accede al primo piano, il cui corridoio si snoda in due direzioni opposte: a destra "un luogo comune che ha la sua competente seditoria di tavola di legno", a sinistra la cucina, il refettorio e le tre camere. Occupano lo spazio maggiore del secondo piano le sei celle dei frati, delle quali due intercomunicanti, chiamate stanze priorali: le rispettive finestre si affacciano sul cortile sottostante, sulla cui parte orientale domina una loggia. Sopra il dormitorio sovrasta il coro con l'organo "posto dentro". A sinistra una piccola scala conduce al campanile, formato "a ventaglio" e dotato di due campane del peso di un cantaio e mezzo ciascuna. Il libro contabile, aggiornato accuratamente, registra molte entrate dovute a censi ed affitti di vari terreni, ubicati in località ormai scivolate, in maniera definitiva, dall'immaginario collettivo, tra le quali il Padiglione, le Anime del Purgatorio, Coscia di Torre o via di Sarno, Recupo, Pizzola, Trofa, San Cristoforo, Pintollo, Scavolella, Pietra del Galluccio, le Fontanelle, i Travi i Muscetti, Scalabrile, il Vallone del Carmine, la Cupa di Sant'Anna, Taverna Penta a Poggiomarino e Suronicola a Somma. Aniello Giamonti di Giuseppe utilizza, a nolo, due vani attigui al monastero, nonché un terzo con piccola cisterna. Quindi la commissione si sposta nel conventino di San Lorenzo, retto dai serviti fra Pasquale Palmieri di Caivano (priore), fra Stefano Fusco di Baiano, fra Bonaventura di San Pietro a Patierno. Esso si estende nel luogo denominato Santa Croce, alla fine di un ampio spiazzo, orlato da diverse piante di gelsi e da due di tiglio "servibili per frescura in tempo d'estate". La parte centrale dello stabile è occupata dalla chiesa, sulla cui entrata pende il quadro di Maria Addolorata. L'interno è ravvivato dallo splendore dello stucco dell'altare maggiore e dei due altarini laterali, su cui sovrastano i quadri di Santa Giuliana e di San Filippo Benizio. Da sinistra si accede nella sacrestia, da destra nel cortile, la cui cisterna centrale rappresenta lo spartiacque dello spazio scoperto: un muro, lungo novantuno palmi e largo quarantotto, circonda un giardinetto con diverse piante da frutta e viti, la parte restante funge da cortile. Ai lati si estendono un vano per il deposito della legna e una piccola stalla. Sul lato sinistro una scala porta al primo piano, ove troviamo sette celle dei frati, ognuna delle quali è dotata di finestre che si affacciano sulla strada regia. Una scaletta consente l'accesso al piano superiore, ove ci sono il refettorio, la cucina e il forno. Su tutto l'edificio svetta un piccolo campanile a "ventaglio", da cui promanano i rintocchi di due campanelle del peso complessivo di un cantaio. Le rendite annuali, relative al fitto degli immobili del convento, che ascendono a ventiquattro ducati e ottanta grana, provengono dai seguenti locatari: il barbiere Tommaso Annunziata paga due ducati annuali per un botteghino, il calzolaio Luigi Catapano sei ducati per due botteghe, il "cannaparo" Arcangelo Chiarolanza sette ducati per le altre due botteghe, Pasquale Ragosta cinque ducati annuali per il "cellaio", Santolo Autorino due ducati e quaranta grana per una camera, Giovanni dell'Annunziata paga la stessa cifra per l'altra camera. L'ubicazione dei possessi terrieri conventuali tocca diverse zone nostrane, quali San Cristofaro, Casa Iovino, Santa caterina, le Pescinelle, la Mauta. La giornata dei commissari si conclude nel monastero del SS. mo Rosario, sito nella piazza di Tre Case. Qui dimorano i domenicani fra Vincenzo Iannantuono di San Marco la Catola del Molise (priore), fra Vincenzo Scorza di Murano in Calabria, fra Bartolomeo Tocchi di Piccheri di Lucera, fra Raimondo Zingarelli di Ottajano, fra Aurelio Pennantuoni di San Marco la Catola, fra Liberato di Luggo di Ottajano, fra Riginaldo Rinaldo di Melito, fra Giovanni Assante di Posillipo di Napoli. Asserisce il priore che le autorità politiche centrali, dopo la soppressione del monastero domenicano di Aversa, hanno ampliato l'organico del convento da lui retto con l'aggiunta dei seguenti confratelli: fra Alberto Credi di Napoli, fra Agostino Cartolano di San Michele della provincia di Citra, fra Ferdinando Buono di Barano d'Ischia, fra Gaetano Petito di Sant'Antonio di Terra di Lavoro, fra Domenico de Celis di Napoli, fra Capuano Varrecchione di Cerchiello della provincia di Capitanata, fra Benedetto di Meglio di Barano d'Ischia, tutti attualmente assenti, in quanto impegnati altrove, su autorizzazione superiore. La struttura dell'edificio si presenta come un massiccio blocco a due braccia distinte, contrassegnate, rispettivamente, da un portone e da una porta. Quest'ultima permette l'accesso nella chiesa, ove domina il marmoreo altare maggiore, dietro il quale si trova il coro composto da sedili di noce, su cui campeggia il quadro della Vergine del Rosario. Gli otto altari laterali sono così distribuiti: sul lato destro quelli di San Domenico, di San Vincenzo, di San Lodovico Beltrando, della Maddalena del Carmine; sul lato sinistro quelli della circoncisione, della Vergine del Rosario, di Sant'Antonio e di San Pio. Completano le suppellettili ecclesiastiche i quattro confessionili di legno. Sul campanile rintoccano due piccole campane del peso di circa due cantaie e mezzo ognuna. Chi entra attraverso la portineria si trova di fronte un piccolo corridoio, sulla cui sinistra c'è il locale della Confraternita del Rosario dei Fratelli Secolari. Sulla destra "un'antiporta" di legno apre su un chiostro, formato da quattro corridoi, ugualmente distinti dalla cisterna centrale a "più bocche", donde si attinge acqua per innaffiare il giardino. Questo, di figura quadrata e murato su tre lati, piantato con diverse piante di frutta e viti, si estende in lunghezza ottantasette palmi e in larghezza settantacinque palmi, un'altra porzione, posta a mezzogiorno, è larga centoquattordici palmi e lunga quarantaquattro palmi e mezzo. Alla destra del corridoio terraneo quattro vani fungono da forno, stufa, deposito per la legna e dispensa. Lungo il corridoio del primo piano si succedono, su entrambi i lati, le cinque celle dei frati, il refettorio, la cucina, la "dispensuola", ove si respira un'aria di austerità visibile, del resto, nella essenzialità della cella del priore: "Un lettino con due materazzi, scanni di ferro, quattro tavole, una manta di lana bianca, due coscine, dodici sedie di paglia pitturate, due tavolini di legno, un burongino con una scansia sopra con pochi libri ..., un bauletto con biancheria ..., cinque quadretti senza cornici rappresentanti vari santi". Al secondo piano il noviziato, composto da altre quattro celle e da un "camerone", si slarga, a vista d'occhio, su di una loggia maestosa. Allo stato attuale risulta del tutto inservibile a causa dei detriti riversati dalle alluvioni la parte sotterranea alla chiesa, prima usata come "terrasanta"; conserva, invece, una certa efficienza il vano sotterraneo alla Congrega e al posto di Guardia, adibito a cantina. Lo speciale Nicola Annunziata, il "canaparo" Raffaele di Luggo, il bottegaio Luigi Annunziata hanno preso in fitto i "bassi" del convento, ad esso contigui e sporgenti nella piazza di Tre Case, per esercitarsi la loro attività lavorativa, mentre Gaetano Ranieri alias Mascella, Francesca Menechino, Nicola Annunziata e Francesco d'Avino li adoperano come "cellai", Isabella Chiarolanza come lavanderia. Su tutte si segnalano le due botteghe locate dal sarto Carmine Annunziata: una è "coverta con astrico a cielo", nell'altra, "sottoposta a una camera e egualmente coverta con astrico a cielo, ci si ascende per mezzo di uno scalantrone di legno". Gli arredi sacri inutili sono depositati in una masseria, a due piani, denominata il Falangone, di proprietà del convento, fittata a Tommaso Cola. Qui in una camera del piano superiore uno "stipone" accoglie quattro candelieri, un crocefisso, un quadro lacero con l'effigie di San Domenico; invece, nei locali inferiori giacciono "una quercia ossia un torchio per uso di premere uve all'ordine, uno scanno di legno a gradini per empire le botti". Non palesano inferiorità di estensione gli altri fondi rurali, ubicati al Campitello, alla Cupa di San Giuseppe, a Terragrande, al Lavinaio: quest'ultimo, ad esempio, include un "cellaio per premere uva, un tinaccio di legno vecchio, un cellaio da riporvi il vino, due camere, forno, cisterna, lavatoio ed aia da scognar vettovaglie". Ben presto si spengono i riflettori ufficiali della cronaca alta sui suddetti conventi: le loro rendite incamerate contribuiscono a dare un pò di sollievo alle esangui casse statali, le porte delle loro chiese si spalancano alla devozione religiosa della nostra popolazione, le loro strutture entrano nella lunga girandola dei progetti di riconversione in uffici pubblici, cominciata dalla giunta del sindaco Agostino Scudieri, il 25 giugno 1810: "Il locale del soppresso monastero dei Minimi .... potrà servire ... alla casa decurionale, alla casa municipale, alla giustizia, a Cancelleria di pace. Per l'alloggio dei gendarmi e delle truppe, che trasnsitano o permangono, potrebbe servire il locale del soppresso monastero dei Domenicani ... potrà servire l'altro monastero dei Serviti e finalmente il monastero dei carmelitani cadente e mal sano potrebbe servire a ospedale (8).
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Di Admin (del 07/01/2009 @ 19:49:27, in articoli, linkato 751 volte)
1° maggio 1577. I, In primis è stato convenuto per patto espresso che in la defesa et Montagna, quale comincia da la via de la Torre del Greco in su e per quanto s'estende lo demanio de la Corte se debbia conservar ita che in quella non se possa tagliare cerque, cerri, esche, lecine, né castagni nè del piede né dai rami, verde, nè secco bruggiato o inutile tanto a la lerta, quanto buttato in terra, ma debbiano restare intacte et intese sotto la infrascritta declaratione. II. Item è stato convenuto et declarato espressamente che tanto lo detto Signore Don Alessandro Medici et soi figli et successori universali et particulari in la detta terra di Ottajano, quanto ancora la detta Università, homini, citatini, particolari et habitanti in essa non possano né debbiano in modo alcuno et per qualsivoglia urgente necessità, che occorresse alcuno et all'altro tagliar né fare tagliare da persona alcuna in detta difesa et Montagna, arbori de cerque, cerri, esche, lecine et castagni verdi e secchi, vivi, né morti, bruggiati o inutili né dal pede né dai rami nè alla lerta né buttati in terra in modo alcuno, ma quelli debbiano sempre restare intatti e inlesi e senza damno né mancamento alcuno per levare ogni fronda che potesse commettere et a fine che possino sempre crescere et augmentare per lo effecto ut infra.
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Di Admin (del 07/01/2009 @ 20:11:09, in articoli, linkato 642 volte)
Il 6 febbraio 1672 ad Ottajano nella piazza pubblica di detta terra e davanti al magnifico Didaco Mastico Spinelli governatore di detta terra, uniti e radunati nel luogo detto e davanti allo stesso magnifico Tarquinio Bifulco, notaio Carlo de Annuntiata, Francesco Duraccio, Vito Antonio de Ammirese odierni Eletti per il corrente anno ......Magnifici deputati e cittadini avendo già per lo Dio Grazia questa nostra Università ridotto in luogo destinato del monastero de monache a termine che può facilmente ridursi a clausura, si deve ora procurare determinare un'opera tanto pia mediante la quale si può sperare dalla divina Clemenza l'abolizione di quella calamità, che questa Terra prova presentemente per le continue ceneri del Vesuvio e per la moltitudine dei muroli, che infettano questa campagna, si potrebbero dunque deliberare lo stabilimento di detto Monastero, determinando che tutte quelle summe che perveniranno da tempo in tempo per l'avvenire dal prezzo delle legna della Montagna, come di quella del Mauro all'Università spettante, s'abbiano da mettere in pubblico Banco per doversi dall'Eletti, che pro tempore saranno con il consenso della maggior parte dei Deputati impiegati da mano in mano secondo li sarà l'occasione in compra o ricompra a beneficio del detto Monastero sintanto che arrivi a terminarsi un conto di ducati seimila, che frutti almeno ducati trecento, affinché possano mantenersi perpetuamente in esso dodici figliole cittadine povere, che si abbiano da monacarsi senza pagamento di dote la nominazione delle quali spetta ad essa Università così nella formazione di detto Monastero, come quante volte le sarà un loco vacante per la morte di alcuna o perché alcuna di esse non vorrà fare professione e perché non solo abbia dilatare la clausura di detto Monastero fintanto che arrivi ad avere la sopraddetta rendita, si potrebbe fra questo mentre soccorrere con ducati trecento da pigliarsi dall'altre entrate dell'Università pagabili dal giorno che detto Monastero sarà dichiarato clausura, dei quali ducati trecento si debbia andare manualmente scemando quelle quantità, che renderanno fruttando le compere, che faranno a beneficio del detto Monastero di maniera arrivate saranno le sue rendite alla summa di ducati trecento debba in tutto e per tutto cessare questo annuale soccorso.........
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Di Admin (del 08/01/2009 @ 18:28:22, in articoli, linkato 685 volte)
Montecorvino, posto nella provincia di Salerno, confina ad oriente con il territorio di Eboli, ad occidente con quello di Salerno, a mezzogiorno con la spiaggia del golfo di Salerno. Rientra nella giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Acerno. Ha sempre fatto parte del regio demanio, godendo di una speciale protezione del re. Siccome alcuni cittadini si distinsero per servigi prestati al proprio principe, Alfonso II con suo privilegio del 1494 decora di nobiltà generosa molte famiglie che tra l’altro erano impiegate nel Reale servizio. Ferdinando il Cattolico rinnova il suddetto privilegio, confermato a sua volta da Carlo V. Nonostante tali premesse, Filippo II vende, nel 1572, lo Stato di Montecorvino, la città di Salerno e la Terra di Olevano al principe Nicola Grimaldi per il prezzo complessivo di 106.000 ducati, così ripartiti: cioè 18.000 ducati per Montecorvino, 76.000 ducati per Salerno, 12.000 ducati per la terra di Olevano. Montecorvino lanciò le sue grida fino al cielo. Alla fine, di fronte alla decisione regale, si impegna a pagare i 18.000 ducati. Il re Filippo II accetta l’offerta. Così il 22 maggio 1591 viene stipulato lo strumento della vendita con cui sono pagati non solo i 18.000 pattuiti, ma anche 5.000 ducati a titolo di spese. Nel 1620 la corona di Spagna decide di vendere le città e le terre demaniali. Pienamente d'accordo si mostra l’avvocato fiscale Fabio Capace Galeota. La regia Camera della Sommaria con il Collaterale la pensano diversamente. Quest'ultima opposizione ben presto cede le armi di fronte alla decisione del re. Anzi proprio il Collaterale emana, il 25 febbraio 1638, un decreto di vendita per Montecorvino. Il decreto prima fu eseguito, poi se ne seppe il tenore. In effetti nei giorni 13 - 19 marzo 1638 Bartolomeo d’Aquino presenta la sua offerta per la compera di Minuri e di Montecorvino per carlini 45 a fuoco. Nonostante le opposizioni, Montecorvino è pronto a pagare la suddetta somma, da cui avrebbe dovuto trattenere i 18.000 ducati, pagati precedentemente........ Siccome d’Aquino ha nominato nella compera Giulio Pignatelli principe di Noja .......
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Di Admin (del 15/01/2009 @ 16:37:19, in articoli, linkato 688 volte)
Il re Carlo I d'Angiò, dopo aver sconfitto l'esercito di Corradino a Tagliacozzo in Abruzzo, adempiendo al voto fatto in battaglia, eresse, nel 1268, nello stesso luogo nei pressi di Scultoli, un ampio monastero per i cistercensi della sua nazione francese. Lo dotò di moltissimi beni e volle che fosse chiamato Santa Maria della Vittoria in memoria della felice conclusione dello scontro armato. Lo stesso re, nell'anno 1274, fondò un altro monastero vicino Scafati con l'espresso ordine che fosse abitato e governato da monaci cistercensi francesi, come se volesse che ci fosse colà uno spostamento da quello denominato Monte di Santa Maria di Real Monte in Francia, fondato da suo padre. Per questo motivo lo subordinò al primo e lo chiamò Santa Maria di Real Valle.
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Di Admin (del 19/01/2009 @ 18:05:43, in articoli, linkato 624 volte)
Un vasto terreno di dubbiosa natura, sito nel tenimento di Ottajano, denominato ora il Mauro e nei passati tempi il Mauro, Bosco e Masche, preteso per parte dell'Università di essere demaniale del Comune e per parte dell'Illustre Possessore di detta terra demaniale del Feudo, è stato l'oggetto di un'aspra e dispendiosa lite, la di cui epoca è molto remota, e che nel 1621 fu prodottiva di quella celebre decisione rapportata dal Reggente Sanfelice e preferita dall'intera Ruota del S. C. in tempo che sulla faccia del luogo si condusse. Nell'anno 28 di questo secolo, per alcune novità insorte nel denominato terreno, si ripigliò il cammino dell'invecchiata lite e questa si fé più pertinace nel 1770 e negli anni appresso, e trovandosi in simile quistione un altro vasto territorio denominato Muscettoli per la sua qualità più specioso del primo nel 1783 le Parti collitiganti, riflettendo all'oscurità delle cose, al dubbioso evento della lite, al gravissiomo danno per tanti anni sofferto, si per motivo dell'ingente dispendio, che per essere stati inerti ed inoperosi i nominati due terreni, facendo eco a quella cennata decisione del 1621, determinarono di venire ad un'amichevole composizione e transazione, per mezzo della quale si fosse posto termine all'annoso litigio e nel tempo stesso con sommo profitto di esse Parti e della popolazione si fossero resi coltivabili quei felicissimi e beatissimi terreni. Ed infatti a 17 luglio di detto anno 1783 l'odierno Illustre Principe di Ottajano D. Giuseppe de' Medici di Toscana, col permesso del defunto D. Nicola Maria Vespoli, avvocato allora del Re al Patrimonio e Soprintendente della di lui Illustre Casa, e gli eletti così attuali in quel tempo che quei designati per l'anno appresso sottoscrissero un albarano, in cui avendo per primo a lungo divisati i motivi, onde plausibile riusciva il terminare per mezzo di un'amichevole convenzione la pendente lite, vennero finalmente a stabilire che la tenuta del Mauro avesse a dividersi in due eguali porzioni, la prima delle quali, cioé la settentrionale, di cui si descrissero i confini, rimaner dovesse in pieno ed assoluto dominio dell'Università, e l'altra, cioé la meridionale, e dalla terra più lontana, di cui parimenti si notarono i confini, dovesse cadere nella stessa guisa a pro dell'Illustre Principe. E per mandare ad effetto siffatta determinazione fu eletto di comune consenso l'ingegnere D. Domenico di Franco, a cui fu dato l'incarico di eseguire la cennata divisione, così in riguardo del terreno denominato il Mauro, che di quello denominato Muscettoli ...........
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8 ottobre 1887. A S. E. il Ministro degli Interni. Poiché all'Autorità superiore è debito di lealtà e di reverenza dir tutto e nulla pretermettere, bisogna scovrire gli altarini e porre un pochetto in mostra il dietroscena. Sindaco di Ottaiano è un prete di cognome Bifulco (Giuseppe n. d. r). Membro della Deputazione provinciale di Napoli é l'ingegnere Ernesto Bifulco, fratello di quel Sindaco. Da un po' di tempo a questa parte ferve aspra lotta fra il Capoluogo del Comune e la cosiddetta Frazione San Giuseppe; la quale, popolosissima com'é, con propria Stazione ferroviaria, con proprio Ufficio postale, con proprio Ufficio telegrafico, con una propria Caserma dei reali Carabinieri, con una Banca si agita giustamente per essere eretta in Comune separato a norma dell'art. 15 della legge provinciale e comunale. Ciò dispiace ai sopracciò del Municipio. Cesserebbe la loro importanza; la pasta da manipolare resterebbe di molto assottigliata; il Comune ragguardevole di Ottaiano sarebbe stremato alle proporzioni di un Comunello qualsiasi. Ma, poiché a raggiungere un siffatto scopo occorrerebbe l'adesione del Consiglio provinciale ed in questo siede un Bifulco, così l'onesto intento finora non ha potuto essere conseguito. Ed ecco un lievito grave di malumori fra gli Amministratori comunali, che sono del Capoluogo, ed i cittadini influenti della Frazione di San Giuseppe nel cui novero appunto trovasi l'Ammirati. Costoro combattono le candidature di Ottaiano e lavorano quanto meglio sappiano e possano perché il potere esca una buona volta dalle mani di una certa cricca; la quale, come se fosse un'ostrica, non si lascia sradicare e si è stretta profondamente alla greppia. Inde irae. Ed appunto dall'acutizzarsi delle ire partegiane nacque la persecuzione all'Ammirati, si guardino le date, e si vedrà che procedono con sincrono parallelismo. Si era in pace; ed i sopracciò del Municipio (altro che ostacolare!) si prestarono anzi volenterosi perché l'impianto del mulino avvenisse. Nell'anno decorso si acutizzò lo stato bellicoso; ed ecco sorgere le persecuzioni a danno dell'Ammirati ........ Stavano dunque maturando qualche altro disegno allorché in sul cadere di luglio ultimo ebbero luogo le elezioni amministrative. La battaglia fu aspra davvero. La famiglia Bifulco combatteva pro ara et focis. Per compiuto quinquennio scadevano in una volta il Sindaco sacerdote Bifulco ed il Consigliere ingegnere Bifulco. Giocando di sopraffazioni e di violenze, fecero passare anco una volta la così detta volontà del paese; ed i loro nomi, per quanto tirati proprio col forcipe, uscirono novellamente gloriosi e trionfanti dall'urna fatale. E, poiché dopo la proclamazione delle risultanze elettorali si cominciò a pensare a trar vendetta degli avversari, certo tra costoro non poteva essere dimenticato l'Ammirati; che, persona influente, aveva speso tutta quanta la sua opera onde, pel meglio delle Aziende pubbliche, i signori Bifulco non avessero avuto la vittoria nella lotta che con tanto livore combattevasi. ....... Ci sarebbe da ridere a crepapelle, se non ci fosse da piangere per lo strazio che certi tirannelli in miliardesimo fanno di quelle libere istituzioni, che tanto abbiamo anelato e le quali frattanto sono state create per la tutela e per la salvaguardia, non già per la negazione dei diritti più rispettabili dei cittadini!
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Di Admin (del 22/01/2009 @ 18:25:01, in Articoli, linkato 783 volte)
12 agosto 1900. Signori! Io vi vedo qui raccolti, intenti ed ansiosi, nel cuore certamente commossi, voi rappresentanti diretti di quel popolo buono e sagace ch'Egli amava, ad onorare la memoria di Colui che è sempre presente nelle menti vostre, del nostro Re, di Umberto I di Savoia! E lasciate che io vi creda qui convenuti non per vacue e stolide ed anfibie formalità burocratiche, non perché la consuetudine ed il decoro d'ogni comune d'Italia vuole così, ma per uno slancio veemente e subitaneo, immenso e generale che è degno dei vostri cuori; per il desiderio di onorare solennemente colui che moriva martire del suo dovere, colpevole solamente di troppa clemenza e gentilezza ..... Ed egli fu il re de' nuovi tempi, colui che poneva le basi del suo regno non nella forza e nella repressione, ma nella volontà dei suoi sudditi e nella loro devozione. Nepote di principi fieri e belligeri, Egli ammorbidì la sua indole guerriera col gesto paterno di uomo mite e sapiente, e la mano coraggiosa che levò alta nel turbine della guerra la spada degli avi, la mano che ferma a Villafranca mostrò ai suoi soldati la falange nemica da sbaragliare, quella mano egli stese ad ogni infelice, come ad un fratello, non con gli occhi fissi nei suoi occhi, assistendo ai suoi tormenti....... O signori, Egli, dopo tanti secoli, faceva rivivere il condottiero di popoli omerico, l'eroe del mito, che, in diretta comunicazione coi suoi sudditi, ne risente tutte le gioie e tutti i dolori .... E quest'infame, quest'infame che squarciò col piombo crudele il petto di Umberto di Savoia, è di quello stesso generoso popolo di Toscana che mandò la sua più arridente giovinezza, quale sublime olocausto per la salute dell'Italia, nei ripari di Curtatone e di Montanara? No, o Signori, perché il delitto commesso per sola bramosia di sangue, per solo impeto selvaggio, non ha patria ..... O Signori l'infamia del regicida non può cadere sul capo del popolo Italiano; Umberto I di Savoia fu ucciso da un forsennato senza patria e senza Dio! Ma a che indugiare sulle gesta dell'assassino? Che il suo nome non sia né pure pronunciato per non profanare quest'aula. L'oblio cada su lui; e rimanga nel nostro cuore il solo ricordo del buon re e delle sue azioni ... Signori, Il figlio di Umberto I sarà degno del padre, come dell'avo, ed ieri l'ha giurato, seguirà queste orme incancellabili che resero felici il regno di Umberto; Egli è giovine e forte, ascende il trono impavido e sicuro, riponiamo in Lui la nostra fede come Egli l'ha riposta grandissima nel suo popolo. Iddio vorrà proteggerlo per lunghi anni. A Lui oggi il nostro saluto, a Lui l'attestato della nostra devozione e della nostra speranza! Viva il RE!
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Di Admin (del 26/01/2009 @ 20:00:50, in articoli, linkato 11371 volte)
1883..... Ormai è un assioma che la natura esteriore ha un'efficace influenza sulle condizioni fisiche, economiche e morali di un popolo. Permodoché si potrebbe a priori ritenere che le due frazioni, che domandano costituirsi a comune indipendente, stante la postura di suolo, su cui abitano, la produttività agricola dei terreni coltivati e la guardatura di cielo del tutto diverse da quelle del capoluogo, Ottaiano, aver debbano le dette due frazioni indole, costumi e bisogni diversi da quelli di Ottaiano medesimo............Da quanto abbiamo precedentemente discorso, si può derivare che fra Ottaiano e le frazioni di San Giuseppe e San Gennarello, essendovi diversità di suolo, di attività commerciale e di indole, essere vi deve, per conseguenza, diversità di bisogni e di interessi cozzanti tra loro. Di modo che la storia di questi diversi paesi è storia di lotta continua. Uno studio minuto sui documenti esistenti negli archivi metterebbe lo scrittore in grado di compilare la storia di questo Comune, la quale sarebbe quella che si può avere tra schiavi e tiranni, tra vassalli e feudatari, tra servi e padroni, cioé storia di soprusi di tirannia, di ingiustizie di spoliazioni da una parte e di servilismo, oppressione, miseria ed odii implacabili dall'altra, la storia insomma del diritto della forza, che schiaccia la forza del diritto. In queste frazioni non vi era bisogno, diritto urgente, che non veniva sconosciuto dagli Ottaianesi, in queste frazioni fino al 1860 non si era speso un centesimo per opere pubbliche, per istruzione e tutto quanto altro richiede un paese civile. In Ottaiano strade lastricate, opere di beneficenza, istituti civili; e qui, nelle frazioni, fino al 1860 non vi erano mezzi di viabilità ed i cittadini erano costretti a transitare per entro gli alvei, che qui tenevano luogo di strade! Aggiungete che questi alvei, sia perché mal tenuti, sia perché traversavano i più popolosi quartieri, erano cagione di continui allagamenti e sotterramenti e la viabilità spesso interrotta. Eppure gli Ottaianesi, che erano a capo dell'amministrazione di questo Comune, tutto vedevano ed a nulla provvedevano; i cittadini delle frazioni non avevano altri diritti, che quello di pagare, ubbidire e tacere! Inde irae, di qui l'odio implacabile di queste popolazioni, le quali, per sottrarsi ad uno stato di cose insoffribile, escogitarono come unico mezzo separarsi dal Capoluogo. Perciò questi cittadini non si lasciarono sfuggire una sola occasione propizia, senza fare istanza alle autorità competenti, onde costituirsi a comune indipendente e così di generazione in generazione si è tramandata fino a noi questa incessante aspirazione, questo continuo e vivo desiderio. Per modo che oggi il capo di famiglia racconta nel seno di questa ai propri figli e nipoti le continue istanze dalle precedenti generazioni avanzate in tal proposito e gli ostacoli che incontrarono nello stesso modo come la nonna possa raccontare ai propri nipoti, nelle lunghe notti d'inverno, il racconto delle fate o delle streghe. Dunque l'idea della divisione non è consigliata da uno o pochi interessati, non è invocata per fini secondari o per private animosità, ma finora è stata l'eterna questione di questo paese e lo sarà fino a quando non avrà la sua definitiva soluzione; questa idea è tradizionale in queste frazioni ed è diventata sangue del sangue di questi cittadini e carne della propria carne. Ed a ricordare qualche epoca, in cui questi cittadini hanno fatto le pratiche per ottenere questa invocata divisione, citeremo le seguenti: 1) Al 1820 le tre frazioni San Giuseppe, Terzigno e San Gennarello rivolgevano al Parlamento Nazionale di allora un'istanza per dividersi dal Comune di Ottaiano. Questa istanza venne accompagnata da una memoria, da cui traspare l'odio delle frazioni, ispirato dalla deplorevole ed impossibile condizione loro fatta dal capoluogo. 2) Al 1832 la frazione San Giuseppe avanzava altra domanda per erigersi in Comune distinto, la quale domanda fu accompagnata da parere favorevole del Sottintendente di allora e quando il Consiglio di Intendenza stava per emettere il suo avviso definitivo, l'Intendente, in omaggio al dispostismo di quei tempi, sospese per ignote ragioni ogni ulteriore procedimento. 3) Al 1848 si rinnovò dai Sangiuseppesi la medesima istanza, chiamando in vigore le pratiche precedenti, ma il principe di Ottaiano, ex feudatario di questo Comune, tali e tante pressioni e minacce usò contro i notabili cittadini di questa frazione, che si fu costretti anche per le mutate condizioni politiche a sospendere ogni ulteriore pratica a tal uopo iniziata. 4) Al 1862 i cttadini di San Giuseppe e San Gennarello, a mezzo dei loro consiglieri, deliberarono trasferirsi la sede municipale nella frazione di San Giuseppe ed in tale circostanza la minoranza del Consiglio comunale e il Consiglio provinciale ebbero a manifestare il loro parere favorevole alla divisione di questo Comune. 5) Al 1869 le frazioni San Giuseppe e San Gennarello rinnovarono ancora una volta le istanze per erigersi a comune indipendente, alle quali aderì questo Consiglio comunale e fece pienamente diritto il Consiglio provinciale per unanime deliberazione del 1871. Ma poscia mercé le influenze dell'Ill.mo Prefetto di allora, che fece venire presso di sé la Giunta di questo Comune, si costrinsero questi cittadini a non persistere ulteriormente sulla domanda della divisione, promettendo loro il trasferimento della sede comunale e della pretura nella frazione San Giuseppe. Ma posteriormente si raffreddarono le cose e queste abbandonate, quanto infelici, frazioni nulla ottennero ed ancora una volta le promesse rimasero promesse, per cui potrebbero a ragione dire con Amleto: parole , parole, parole. 6) Ora i cittadini di San Giuseppe e San Gennarello, a mezzo dei loro elettori, in numero di 282 della prima frazione su di una lista di 326 e di 56 di San Gennarello su di una lista di 59, fanno di nuovo istanza, mercé due domande in data 1° settembre 1883 di costituirsi a comune libero ed indipendente dal capoluogo, che se n'è fatta la istanza, per quanto a noi risulta ben sei volte e seguendo la legge fisica: motus in fine velocior, si è andata la detta istanza ripetendo sempre più frequentemente giovandosi di ogni propizia occasione. E quello che è più da rimarcarsi si è che in ogni mutazione politica in senso liberale, quest frazioni hanno fatto istanza per ottenere la desiderata divisione; così è avvenuto al 1820, al 1848, al 1862. ......... (Estratto dalle "Ragioni in sostegno della divisione del Comune di Ottaiano, Fratelli Brancaccio, Napoli, 1883).
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Di Admin (del 12/02/2009 @ 20:26:37, in articoli, linkato 2465 volte)
E' prerogativa di Cardito, al pari di tutti i casali di Napoli, ogni anno eleggere in pubblico parlamento un cancelliere, deputato a conservare il libro delle delibere e il suggello della Uuniversità. Invece, il 1° settembre 1792, si stravolge la prassi, allorché subentra nella carica di governatore Antonio d’Isanto, foriere dei miliziotti. Quest'ultimo dà i primi segni di discontinuità con il passato, allorché, invece di recarsi dagli amministratori locali per ottenere nelle debite forme il possesso della carica, si reca nel palazzo baronale, ove, avendo mandato a chiamare gli amministratori ed il cancelliere Pasquale Perone, vuole obbligare questi a dargli subito il possesso. Al rifiuto dell'interpellato, che chiede il documento della "venia" accordatagli per l’esercizio della carica , nonché la liberatoria del precedente governo, il d'Isanto monta su tutte le furie ed essendosi appena degnato di esibire la liberatoria, strappa dalle mani del cancelliere Perone il libro delle delibere ed il suggello,. Quindi li consegna a un tale Felice di Guida, dipendente dell’erario baronale, da cui si fa distendere a suo modo l’atto del possesso con la pleggeria di due miserabili, uno dei quali non è cittadino e l’altro è sotto la patria potestà, minacciando, nel contempo, fulmini e saette contro quelli che sostengono le liti contro il possessore di quel feudo. La investitura, lasciata correre dal potere centrale, si protrae per un pò di tempo, finché non entra in ballo la magistratura, nello specifico i giudici della Gran Corte della Vicaria, con gravi accuse di varie falsità. Di qui parte l'ordine di carcerazione, a cui l'imputato si sottrae con la fuga definitiva. Solo a questo punto Cardito può sperare, nell'anno successivo, di eleggere nel modo legittimo il proprio cancelliere.
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