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La controversa chiusura dei monasteri di Ottajano
Di Admin (del 04/01/2009 @ 22:10:58, in articoli, linkato 1127 volte)
L'avvento francese nel regno delle due Sicilie apporta una folata ideologica antimonastica, dettata dalla programmata volontà di equilibrare con interventi mirati e graduali il disastroso disavanzo finanziario delle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche, accumulato negli anni precedenti. I suoi nugoli procellosi soffiano con veemenza ed immediatezza anche ad Ottajano, laddove centotrentotto nostri concittadini sottoscrivono la richiesta, inoltrata al re Giuseppe Buonaparte, alla fine del 1806, e proiettata a sopprimere i quattro monasteri locali, retti, rispettivamente, dai Domenicani, Serviti, Paolotti e Carmelitani. L'istanza si basa sulla presunta opportunità di riutilizzare le rendite conventuali, che si aggirano a circa millecinquecento ducati, e i loro relativi locali, che ospitano appena qualche frate, per impiantarvi, a beneficio della collettività, servizi sociali impellenti ed inderogabili, quali un ospedale per i poveri, una scuola per i fanciulli, una caserma per la guardia civica ed un alloggio per accogliere le truppe francesi di passaggio. Il Sottintendente Gaetano Vestini, prima di esprimere il suo parere in proposito, effettua una meticolosa indagine, affidandone il compito al regio governatore locale, Matteo Anzuoli, e al nostro concittadino Giuseppe Barra. Le concordi informazioni, pervenutegli, nell'ultimo scorcio di gennaio 1807, da parte dei due incaricati, parlano un linguaggio del tutto antitetico rispetto alla suddetta domanda. Innanzi tutto in ognuno dei conventi dimorano soltanto due monaci, in quello dei Domenicani, invece, ve ne sono quattro, un maestro di teologia, un predicatore, un superiore, un confessore ed un laico. Inoltre, al di là del numero, tutti i frati, secondo la testimoninanza dei quattro parroci locali e dello stesso primicerio, coadiuvano i sacerdoti nelle mansioni religiose e coordinano nei loro plessi il funzionamento di varie congregazioni laicali. A giudizio del governatore, pretestuosi ed inutili risultano, poi, anche i ventilati servizi sociali. Infatti, la cultura ospedaliera non rientra neppure nella mentalità del circondario, come dimostra il San Giovanni di Dio, istallato a Somma, continuamente privo dei degenti. Il corpo di Guardia Civica ha già la sua sede in un posto centrale della piazza ottajanese. Sarebbe un inutile spreco di preziose risorse finanziarie pubbliche l'istituendo locale per l'accoglienza delle truppe francesi, la cui presenza in loco, eccezionale ed occasionale, dato che Ottajano non è "strada di passaggio", potrebbe essere ospitata negli stessi monasteri. Infine, proprio i Domenicani hanno da tempo attivato nel convento una scuola per i fanciulli. Tutti questi rilievi, inseriti nella susseguente relazione ufficiale del 27 gennaio 1807, pervengono alla attenzione delle autorità gerarchiche superiori, per cui non desta meraviglia il diniego opposto dal Ministro dell'Interno alla richiesta della suddetta parte della base sociale ottajanese, il 14 febbraio 1807. Frattanto fa sentire i contraccolpi più lancinanti il pesante deficit finanziario del nostro bilancio comunale, che annovera un disavanzo di 9318 ducati e sessanta grana, comunicato all'Intendente, il 13 gennaio 1807. Nè appare all'orizzonte il minimo segno di inversione di tendenza a causa di ineluttabili fattori congiunturali, legati all'ultima eruzione del Vesuvio, avvenuta l'anno scorso, per le cui costanti rovine, visionate dallo stesso Sottintendente, il dispaccio reale ha esentato dal pagamento del terzo della decima i proprietari dei fondi danneggiati. Permane, poi, a carico del nostro percettore la difficile esazione di gran parte della suddetta tassa da parte dell'azienda ex gesuitica. Tralasciamo le numerose liti giudiziarie, accresciutesi in proporzione all'elevato tasso di litigiosità, lascia presagire, a sentenze passate in giudicato, un ulteriore esborso di risorse pubbliche in indennizzi, in risarcimenti ed in onerosi onorari agli avvocati. Tali difficoltà di recupero di cassa, presenti in quasi tutte le realtà comunali del regno e associate ad una gestione poco rigorosa della spesa pubblica, rafforza la tesi di quanti , al vertice, sostengono l'ineluttabilità dell'incameramento dei beni conventuali. Il successivo decreto reale del 26 novembre 1807, che sancisce la soppressione dei monasteri dei padri Paolotti di Nocera, Castellammare, Cava, sembra escludere, al momento, quello di Ottajano, immesso, per errore meccanico, nella giurisdizione di Terra di Lavoro. Nello spazio di poco tempo, però, avviene la rettifica e si mette in moto tutta la procedura burocratica per effettuare l'inventario degli arredi sacri, esistenti nel suddetto convento ottajanese di San Francesco di Paola, eseguito, il 20 dicembre successivo, da Giuseppe Barra e Vincenzo Aurigemma: la copia del relativo verbale, sottoscritta dai responsabili, nonché dai testimoni Gaetano Coppola e Gaetano Cutolo, ne affida la custodia al sindaco Giuseppe d'Ambrosio fu Felice. La partita si riapre dopo pochi giorni, allorché la popolazione dimorante in piazza San Francesco, dispiaciuta per la chiusura della chiesa conventuale, ne chiede l'immediata riapertura, impegnandosi a sostenere eventuali spese di riattazione a titolo personale. Ancora una volta è chiamato in causa il Sottintendente Gaetano Vestini il quale, dopo la solita indagine affidata al regio governatore Giuseppe Barra, ne riferisce, il 23 marzo 1808, all'Intendente Raimondo di Gennaro le risultanze favorevoli alla istanza, su cui riscontra ampia concordanza di consensi della base sociale. Su questi presupposti favorevoli si basa, il 28 maggio successivo, il relativo decreto reale, che ne autorizza la concessione, previo l'avvenuto inventario dei beni esistenti nella chiesa. Esso viene eseguito, lunedì 20 giugno 1808, dall'incaricato distrettuale Nicola Cacace e dal regio governatore che ne affidano la consegna, dietro sottoscrizione del relativo verbale, al sindaco Michele Giordano. Non risulta ricco né efficiente il patrimonio rinvenuto nella suddetta chiesa, dotata di un altare maggiore di marzo e di sei altari laterali, sovrastati, rispettivamente, dai quadri di San Giuseppe, di San Gennaro, del Beato Gaspare, del Beato Nicola, di San Francesco di Paola, di San Michele Arcangelo, cui vanno aggiunti quelli di Sant'Antonino e di San Francesco d'Assisi, appesi al muro dell'entrata. Logora e consunta è la condizione dei paramenti sacri, conservati in uno stipite della sacrestia: in un angolo giacciono le stature di legno di Santa Lucia, di Sant'Agnello e di San Francesco di Paola, un baldacchino e due inginocchioatoi di legno; sul muro pendono i quadri della Madonna e di Santa Lucia. Analogo risulta lo stato delle altre suppellettili , tra cui due confessionili, un pulpito di legno, molti candelieri e varie "frasche indorate con pedagne". A latere della questione nodale, si avverte, in maniera palpabile, la divergenza di opinioni delle stesse autorità nostrane negli atti consequenziali alla denuncia di due frati domenicani Raimondo Zingarelli e Persiani contro il converso fra Liberato, il cui arbitrio, tollerato dalla bontà del padre "maestro" Vincenzo Iannantuono, si traduce nella fornitura di scarso vitto ai monaci. Il Sottintendente Gaetano Vestini, investito della delicata fase delle indagini, incarica, questa volta, il sindaco e il regio governatore locali di effettuare una ricognizione circostanziata suul campo. Le informarzioni, attinte dalle due fonti diverse e comunicate all'Intendente, l'11 agosto 1808, non risultano concordi. Infatti, il sindaco scardina le accuse e svilisce gli accusatori, definendo padre Zingarelli "poco esemplare", padre Persiani "di umore atrabiliare e ipocondriaco"; riconduce, inoltre, l'attuale atteggiamento polemico di fra Liberato alla recente perdita della carica di procuratore monastico, ricoperta da molto tempo. Il regio governatore, invece, avvalora quanto lamentato nell'esposto, snocciolando, persino, cifre insolite sul numero dei frati, attualmente nove, diciotto nell'immediato futuro, e delle rendite complessive annuali che, a suo giudizio, sono 923 ducati e trentuno grana. L'ufficiale comunicazione scritta di entrambe le versioni non esime l'emittente dal manifestare notevoli perplessità di giudizio, attribuite alle difficoltà ambientali, che impediscono di accertare la verità, come recita la parte conclusiva del documento: "Da ciò si capisce quanto sia difficile in Ottajano divenire all'accerto della verità". Nonostante ciò il Ministro del Culto rimette nelle mani dell'Intendente, il 27 agosto 1810, la decisione di sciogliere il nodo della questione, conferendogli la facoltà di trasferire l'indiziato, qualora risulti colpevole, in qualche altra sede monastica. Entro tale cornice ideologica non subisce alcuna caduta di tono la fede religiosa dei nostri padri, come si evince dalla loro massiccia partecipazione collettiva alle cerimonie quaresimali. Nello specifico la delibera comunale, mirata a designare la terna dei predicatori quaresimali per l'anno successivo nelle chiese di San Giovanni e di San Giuseppe, ha percorso, con tempestività encomiabile, tutto l'iter gerachico, il 19 dicembre 1808, allorché il vescovo di Nola comunica all'Intendente, il duca di Laurenzana, di aver conferito i relativi incarichi ai sacerdoti don Nicola Nappo e don Giuseppe Pappalardo, preferiti, rispettivamente, a don Giovanni Cutolo e don Francesco de Rosa, da una parte, a don Carlo Vita e a don Giovanni Ambrosio Pecorella, dall'altra. Successivamente, ad evitare qualsiasi ulteriore confusione giurisdizionale del nostro territorio, provvede il decreto reale dell'8 aprile 1809, a firma di Giacchino Murat e del Ministro Segretario di Stato Pignatelli, con cui Ottajano ritorna a far parte integrante della provincia di Napoli: "Art. 1°. Il Comune di Ottajano farà nuovamente parte di questa provincia di Napoli. Il nostro Ministro dell'Interno è incaricato della esecuzione del presente decreto". La politica centrale anticonventuale continua il suo corso regolare e ne realizza il piano anche ad Ottajano, il 7 agosto 1809, allorché il decreto reale sancisce la chiusura dei monasteri locali di Santo Spirito, di San Lorenzo e del Rosario. All'uopo la commissione, che comprende il giudice di pace, Giuseppe Barra, il consigliere distrettuale Aurelio Bifulco, il decurione Francesco Fasano e il sindaco Michele Giordano, sostituito dal decurione Gioacchino Bifulco, è incaricato di eseguire gli atti burocratici consequenziali. I lavori iniziano il 10 settembre successivo, allorché viene selezionata tutta la documentazione cartacea da esaminare e sigillata, compresi i registri contabili dei censi, dei livelli e dei canoni. L'intera giornata successiva è dedicata alla ricognizione e all'inventario dei beni immobili e mobili dei tre conventi, opportunamente annotati nei relativi verbali, redatti dal cancelliere del giudicato di pace, Vincenzo Crispo. La prima tappa è il convento di Santo Spirito, retto dai carmelitani fra Carmelo Postiglione di Napoli e fra Alberto Cerchia di Castellammare. La commissione vi entra attraverso la porta della chiesa, sul cui coretto, posteriore all'altare maggiore, domina un quadro in tela della Vergine del Carmine. Nella parte anteriore, lateralmente all'altare, giace un tavolino di legno dorato, presso il quale una nicchia di legno accoglie la statuta della Vergine del Carmine con il bambino in mano, "vestiti con abiti stellati in oro con corrispondenti corone". Lo stucco adorna l'altare maggiore e gli altri altarini laterali, facilmente individuabili per l'effigie sacra riprodotta nei rispettivi quadri appesi al muro: Sant'Anna, Santa Maria Maddalena, Sant'Elia, Sant'Alberto, San Biagio, Santa Maria del Carmine. La perlustrazione della sacrestia, collocata a sinistra e ugualmente rivestita di stucco, non richiede molto tempo, data la esiguità e la vetustà degli oggetti rinvenuti. Poco dopo i commissari, varcando la porta a destra, si immettono in un arioso cortile, la cui cisterna, posta al centro, soddisfa le esigenze idriche della cittadinanza per l'intera giornata fino alle ore ventiquattro, in piena applicazione delle voci contemplate in un antico capitolato concordato con l'ente comunale. A mezzogiorno un piccolo giardino quadrato, piantato a viti e alberi da frutta, è diviso in due porzioni: la prima misura novanta palmi di lunghezza e nove palmi di larghezza, l'altra quarantanove palmi di lunghezza e diciassette palmi di larghezza. Lungo il fianco sinistro del corridoio, che costeggia il cortile, corrono una stalla, un cellarino, una dispensa, un deposito di legna, il forno e sei "casotti". Attraverso la scala si accede al primo piano, il cui corridoio si snoda in due direzioni opposte: a destra "un luogo comune che ha la sua competente seditoria di tavola di legno", a sinistra la cucina, il refettorio e le tre camere. Occupano lo spazio maggiore del secondo piano le sei celle dei frati, delle quali due intercomunicanti, chiamate stanze priorali: le rispettive finestre si affacciano sul cortile sottostante, sulla cui parte orientale domina una loggia. Sopra il dormitorio sovrasta il coro con l'organo "posto dentro". A sinistra una piccola scala conduce al campanile, formato "a ventaglio" e dotato di due campane del peso di un cantaio e mezzo ciascuna. Il libro contabile, aggiornato accuratamente, registra molte entrate dovute a censi ed affitti di vari terreni, ubicati in località ormai scivolate, in maniera definitiva, dall'immaginario collettivo, tra le quali il Padiglione, le Anime del Purgatorio, Coscia di Torre o via di Sarno, Recupo, Pizzola, Trofa, San Cristoforo, Pintollo, Scavolella, Pietra del Galluccio, le Fontanelle, i Travi i Muscetti, Scalabrile, il Vallone del Carmine, la Cupa di Sant'Anna, Taverna Penta a Poggiomarino e Suronicola a Somma. Aniello Giamonti di Giuseppe utilizza, a nolo, due vani attigui al monastero, nonché un terzo con piccola cisterna. Quindi la commissione si sposta nel conventino di San Lorenzo, retto dai serviti fra Pasquale Palmieri di Caivano (priore), fra Stefano Fusco di Baiano, fra Bonaventura di San Pietro a Patierno. Esso si estende nel luogo denominato Santa Croce, alla fine di un ampio spiazzo, orlato da diverse piante di gelsi e da due di tiglio "servibili per frescura in tempo d'estate". La parte centrale dello stabile è occupata dalla chiesa, sulla cui entrata pende il quadro di Maria Addolorata. L'interno è ravvivato dallo splendore dello stucco dell'altare maggiore e dei due altarini laterali, su cui sovrastano i quadri di Santa Giuliana e di San Filippo Benizio. Da sinistra si accede nella sacrestia, da destra nel cortile, la cui cisterna centrale rappresenta lo spartiacque dello spazio scoperto: un muro, lungo novantuno palmi e largo quarantotto, circonda un giardinetto con diverse piante da frutta e viti, la parte restante funge da cortile. Ai lati si estendono un vano per il deposito della legna e una piccola stalla. Sul lato sinistro una scala porta al primo piano, ove troviamo sette celle dei frati, ognuna delle quali è dotata di finestre che si affacciano sulla strada regia. Una scaletta consente l'accesso al piano superiore, ove ci sono il refettorio, la cucina e il forno. Su tutto l'edificio svetta un piccolo campanile a "ventaglio", da cui promanano i rintocchi di due campanelle del peso complessivo di un cantaio. Le rendite annuali, relative al fitto degli immobili del convento, che ascendono a ventiquattro ducati e ottanta grana, provengono dai seguenti locatari: il barbiere Tommaso Annunziata paga due ducati annuali per un botteghino, il calzolaio Luigi Catapano sei ducati per due botteghe, il "cannaparo" Arcangelo Chiarolanza sette ducati per le altre due botteghe, Pasquale Ragosta cinque ducati annuali per il "cellaio", Santolo Autorino due ducati e quaranta grana per una camera, Giovanni dell'Annunziata paga la stessa cifra per l'altra camera. L'ubicazione dei possessi terrieri conventuali tocca diverse zone nostrane, quali San Cristofaro, Casa Iovino, Santa caterina, le Pescinelle, la Mauta. La giornata dei commissari si conclude nel monastero del SS. mo Rosario, sito nella piazza di Tre Case. Qui dimorano i domenicani fra Vincenzo Iannantuono di San Marco la Catola del Molise (priore), fra Vincenzo Scorza di Murano in Calabria, fra Bartolomeo Tocchi di Piccheri di Lucera, fra Raimondo Zingarelli di Ottajano, fra Aurelio Pennantuoni di San Marco la Catola, fra Liberato di Luggo di Ottajano, fra Riginaldo Rinaldo di Melito, fra Giovanni Assante di Posillipo di Napoli. Asserisce il priore che le autorità politiche centrali, dopo la soppressione del monastero domenicano di Aversa, hanno ampliato l'organico del convento da lui retto con l'aggiunta dei seguenti confratelli: fra Alberto Credi di Napoli, fra Agostino Cartolano di San Michele della provincia di Citra, fra Ferdinando Buono di Barano d'Ischia, fra Gaetano Petito di Sant'Antonio di Terra di Lavoro, fra Domenico de Celis di Napoli, fra Capuano Varrecchione di Cerchiello della provincia di Capitanata, fra Benedetto di Meglio di Barano d'Ischia, tutti attualmente assenti, in quanto impegnati altrove, su autorizzazione superiore. La struttura dell'edificio si presenta come un massiccio blocco a due braccia distinte, contrassegnate, rispettivamente, da un portone e da una porta. Quest'ultima permette l'accesso nella chiesa, ove domina il marmoreo altare maggiore, dietro il quale si trova il coro composto da sedili di noce, su cui campeggia il quadro della Vergine del Rosario. Gli otto altari laterali sono così distribuiti: sul lato destro quelli di San Domenico, di San Vincenzo, di San Lodovico Beltrando, della Maddalena del Carmine; sul lato sinistro quelli della circoncisione, della Vergine del Rosario, di Sant'Antonio e di San Pio. Completano le suppellettili ecclesiastiche i quattro confessionili di legno. Sul campanile rintoccano due piccole campane del peso di circa due cantaie e mezzo ognuna. Chi entra attraverso la portineria si trova di fronte un piccolo corridoio, sulla cui sinistra c'è il locale della Confraternita del Rosario dei Fratelli Secolari. Sulla destra "un'antiporta" di legno apre su un chiostro, formato da quattro corridoi, ugualmente distinti dalla cisterna centrale a "più bocche", donde si attinge acqua per innaffiare il giardino. Questo, di figura quadrata e murato su tre lati, piantato con diverse piante di frutta e viti, si estende in lunghezza ottantasette palmi e in larghezza settantacinque palmi, un'altra porzione, posta a mezzogiorno, è larga centoquattordici palmi e lunga quarantaquattro palmi e mezzo. Alla destra del corridoio terraneo quattro vani fungono da forno, stufa, deposito per la legna e dispensa. Lungo il corridoio del primo piano si succedono, su entrambi i lati, le cinque celle dei frati, il refettorio, la cucina, la "dispensuola", ove si respira un'aria di austerità visibile, del resto, nella essenzialità della cella del priore: "Un lettino con due materazzi, scanni di ferro, quattro tavole, una manta di lana bianca, due coscine, dodici sedie di paglia pitturate, due tavolini di legno, un burongino con una scansia sopra con pochi libri ..., un bauletto con biancheria ..., cinque quadretti senza cornici rappresentanti vari santi". Al secondo piano il noviziato, composto da altre quattro celle e da un "camerone", si slarga, a vista d'occhio, su di una loggia maestosa. Allo stato attuale risulta del tutto inservibile a causa dei detriti riversati dalle alluvioni la parte sotterranea alla chiesa, prima usata come "terrasanta"; conserva, invece, una certa efficienza il vano sotterraneo alla Congrega e al posto di Guardia, adibito a cantina. Lo speciale Nicola Annunziata, il "canaparo" Raffaele di Luggo, il bottegaio Luigi Annunziata hanno preso in fitto i "bassi" del convento, ad esso contigui e sporgenti nella piazza di Tre Case, per esercitarsi la loro attività lavorativa, mentre Gaetano Ranieri alias Mascella, Francesca Menechino, Nicola Annunziata e Francesco d'Avino li adoperano come "cellai", Isabella Chiarolanza come lavanderia. Su tutte si segnalano le due botteghe locate dal sarto Carmine Annunziata: una è "coverta con astrico a cielo", nell'altra, "sottoposta a una camera e egualmente coverta con astrico a cielo, ci si ascende per mezzo di uno scalantrone di legno". Gli arredi sacri inutili sono depositati in una masseria, a due piani, denominata il Falangone, di proprietà del convento, fittata a Tommaso Cola. Qui in una camera del piano superiore uno "stipone" accoglie quattro candelieri, un crocefisso, un quadro lacero con l'effigie di San Domenico; invece, nei locali inferiori giacciono "una quercia ossia un torchio per uso di premere uve all'ordine, uno scanno di legno a gradini per empire le botti". Non palesano inferiorità di estensione gli altri fondi rurali, ubicati al Campitello, alla Cupa di San Giuseppe, a Terragrande, al Lavinaio: quest'ultimo, ad esempio, include un "cellaio per premere uva, un tinaccio di legno vecchio, un cellaio da riporvi il vino, due camere, forno, cisterna, lavatoio ed aia da scognar vettovaglie". Ben presto si spengono i riflettori ufficiali della cronaca alta sui suddetti conventi: le loro rendite incamerate contribuiscono a dare un pò di sollievo alle esangui casse statali, le porte delle loro chiese si spalancano alla devozione religiosa della nostra popolazione, le loro strutture entrano nella lunga girandola dei progetti di riconversione in uffici pubblici, cominciata dalla giunta del sindaco Agostino Scudieri, il 25 giugno 1810: "Il locale del soppresso monastero dei Minimi .... potrà servire ... alla casa decurionale, alla casa municipale, alla giustizia, a Cancelleria di pace. Per l'alloggio dei gendarmi e delle truppe, che trasnsitano o permangono, potrebbe servire il locale del soppresso monastero dei Domenicani ... potrà servire l'altro monastero dei Serviti e finalmente il monastero dei carmelitani cadente e mal sano potrebbe servire a ospedale (8).