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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L'acqua affluisce a Napoli attraverso due canali, uno più antico chiamato Olla, Volla o Bolla e il secondo, finito di costruire nel 1634 circa, denominato Carmignano. Le sorgenti pubbliche, invece, sono cinque: Santa Maria la Nuova o Acquaquilia, San Pietro Martire, Leone, Marinella e Santa Barbara. Nello spazio compreso tra Pomigliano d'Arco e Somma le acque zampillano in alcune grotte che danno origine a quattro condotti o bracci: Preziosa, Tavernanova, Benincasa e Calzettaio che portano l'acqua nella casa costruita poco distante dal Salice. A questo punto una parte minima si riversa nell'alveo Criminale, anima vari mulini privati e forma l'attuale Sebeto. La maggior parte, invece, accresciuta dall'afflusso idrico del quarto braccio, detto Nuovo o Sottocorrente e sito a venti passi dalla suddetta Casa, scorre nelle cavità sotterranee in maniera quasi parallela alla strada di Puglia. Il distacco avviene poco dopo, allorché, seguendo un proprio tragitto indipendente, raggiunge il luogo chiamato Pepe, ove raccoglie le acque defluenti lungo il canale. Quindi, va ad alimentare nel palazzo della Regina Giovanna una ferriera, i mulini di Apicella e di San Teodoro, e due fontane di Poggioreale. Prima di Porta Capuana perde un ramo idrico detto San Giovanni a Carbonara che prosegue la sua corsa attraverso l'Orticello in direzione della Porta di San Gennaro. In itinere altre diramazioni se ne distaccano per tracciare un loro tratto autonomo su entrambi i lati. Poco prima di toccare la meta finale, un altro ramo idrico accompagna il solco della strada Maddalena fino all'angolo dell'Annunziata. Alla fine, la corsa confluisce in città, precisamente, nella località denominata la Formella prima di Castel Capuano .......
L'incontro tra gli Intendenti delle province del regno, tenutosi a Napoli nel mese di maggio del 1846, rappresenta una vera e propria analisi programmatica, nel cui ambito rientrano le opere già eseguite e quelle in cantiere. Apre i lavori l'Intendente di Napoli, Spinelli, con una radiografia circostanziata sulla città di Napoli. L'abbrivo dialogico è quanto mai felice con l'annuncio della conclusione quasi definitiva della ricostruzione e dell'ampliamento della strada di Santa Lucia, il cui maggior dispendio di risorse economiche rispetto a quelle preventivate trova la sua ragion d'essere nell'attuale piacevolezza dell'asse viario. Trovandosi in una condizione carente, dovuta, soprattutto, alle violente bordate delle onde prospicienti, Mergellina reclama un analogo trattamento di messa in sicurezza e di abbellimento. Il tratto che si estende dalla Torretta fino alle rampe di Sant'Antonio si avvia alla felice conclusione. Godono i benefici della ricostruzione le vie Sant'Anna dei Lombardi, Trinità Maggiore e Salita di Montoliveto. Lascia a desiderare la costruzione del mercato di Tarsia, tanto da deludere le attese della vigilia anche in termini di massiccio investimento di denaro. Pur essendo stato eretto in un luogo non paludoso, non lontanto da quello di Montoliveto, viene occupato solo in parte. Non si discutono la bellezza e l'utilità dell'edificio che potrà essere adibito in seguito anche per altri usi. Del resto il mercato di Forcella, gli altri due, rispettivamente, ubicati al vicolo Beifiori e nei pressi dell'ospedale del Sacramento, rispondono in pieno alle loro funzioni mercantili. Si spera che possa seguirne la scia quello che dovrà sorgere, secondo il progetto, nel largo Duchesca a Porta Capuana. Via Foria, che si distingue per la sua ampiezza e per la densità della popolazione, costituisce lo snodo entro cui confluiscono le altre arterie circonvicine. Colà si ammira la chiesa di San Carlo all'Arena, finalmente ricondotta all'antico splendore e devozione, destinati a crescere di molto, non appena sarà aperto il tratto viario di collegamento con San Giovanni a Carbonara. La città riceve ulteriore bellezza dalle numerose strade campestri dell'Arenaccia e dei Fossi, che fanno capo a vari quartieri. Va ascritto nel novero dei monumenti il cimitero, la cui grande chiesa, l'ampio parallelogramma destinato a centodue congregazioni, il pio convento, le decorose sepolture, le policromatiche aiuole e le incantevoli vedute concorrono a rinsaldare in concreto il vincolo inestricabile tra i vivi e i morti. Nel merito la provincia napoletana sta compiendo notevoli passi: sono già stati benedetti i cimiteri di Forio d'Ischia, Massa, Trocchia, Pollena e San Sebastiano; sono sulla dirittura di arrivo quelli di Gragnano, Boscotrecase, Pianura, Sant'Antimo e San Giovanni a Teduccio.
Nella seconda parte dell'Ottocento la pesca del corallo, eseguita lungo le coste dell'Algeria, in cui gli abitanti di Torre del Greco recitano il ruolo di protagonisti, attraversa un periodo di profonda crisi la quale, per la verità, viene da lontano. Non a caso, sfogliando i registri, relativi alla quantificazione delle imbarcazioni torresi impegnate in siffatta attività dal 1837, notiamo come il loro numero iniziale di 230 si è abbassato nel corso del tempo con una leggera ripresa nel 1852, allorché si attesta sulle 221 unità. Nel 1853, addirittura, il trend negativo procede rovinosamente a picco verso le 116 imbarcazioni su un totale di 125, di cui due appartengono a Livorno, due a Trapani e una a Portici. L'occasione è utile per dare uno sguardo d'insieme al fenomeno, al fine di comprenderne le motivazioni profonde dell'attuale stallo. A prima vista colpisce la varietà dei nomi dati alle paranzelle, attinti quasi sempre dal calendario religioso, nelle cui pieghe si intuisce facilmente la ricerca della protezione celeste. Reputiamo di fare cosa gradita riproponendo, a mero titolo esemplificativo, la denominazione di alcune con la specifica dei proprietari: Santa Maria di Portosalvo di Gennaro Magliulo, Santa Maria Maddalena di Angelo Antonio Magliulo, Santa Vittoria di Michele Serpe, San Leonardo di Gennaro Palomba, San Benedetto di Mattia Mattera, Madonna del Carmine di Giovanni Battista Sasso, Sant'Anna di Francesco Ruggiero, Maria dell’Arco di Santo della Monica, San Luigi di Nunzio Sportiello, Santo Spirito di Gennaro Iuliano, Maria di Montevergine di Gennaro Borriello e San Francesco di Paola di Sebastiano d’Urso. Spezza l'uniformità "La Bionda" di Francesco Accardo. Rientra, invece, nel contesto generale quella del porticese Raffaele di Donna, denominata Madonna del Principio. Addirittura tra quelle trapanesi troviamo due con lo stesso nome di Gesù Maria Giuseppe: la prima appartiene a Giuseppe Portuese, la seconda a Giuseppe di Cocco. Utilizzando il criterio del maggiore equipaggio, occupa il primo posto San Giuseppe di Pietro Sogliuzzo con diciannove marinai,seguita da Maria di Montevergine di Gennaro Borriello e Immacolata di Raffaele Aurilio, entrambe con quindici. Seriamente preoccupato della situazione critica del settore, le cui conseguenze negative si ripercuotono sull'intera economia torrese, il sindaco pro tempore rispolvera un antico antidoto, mirato a coinvolgere negli utili societari i marinai, come avviene tuttora nella marina mercantile. La proposta, sottoposta alla Camera Consultiva del Commercio il 19 febbraio 1853, viene bocciata, in quanto foriera di danni maggiori. La risoluzione si gioca su una duplice alternativa operativa: la prima mira ad elaborare un regolamento che costringa i marinai disertori a prestare sevizio sulle navi da guerra, finché non ripaghino di tasca propria le eventuali perdite economiche prodotte agli armatori; la seconda contempla la istituzione a Torre del Greco di un monte di categoria, sollecito a venire incontro a tutte le esigenze degli associati, compresa la pensione a favore degli anziani e degli invalidi. Nemmeno queste agevolazioni riescono a ridare vitalità al settore che fa naufragare anche l'offerta di un coevo piano algerino di rilancio generale.
La pesca del corallo, esperita dagli abitanti di Torre del Greco in terre lontane, affonda le sue radici nella notte dei tempi. Una significativa traccia documentale di tale attività risale alla metà del 1400, allorché i torresi la spuntano favorevolmente in tribunale, in seguito a sentenza del Reggente della Real Cancelleria, contro il loro feudatario Antonio Carafa il quale ha imposto de imperio una tassa arbitraria, la cosiddetta gabella sul pescato, a tutti i proprietari delle imbarcazioni da pesca. Sulle ali della vittoria si rinvigorisce sempre più il campo di azione dei pescatori, circoscritto, al momento, al mare della Corsica e della Sardegna. L'orizzonte si amplia nel 1780, allorché il desiderio di accrescere il guadagno, sorretto da una tempra insolita nell'affrontare la durezza delle fatiche, invera l'obiettivo di effondersi nelle acque del Mediterraneo al largo delle coste africane, in barba ai numerosi pericoli, non escluso quello del'assalto predatorio da parte dei corsari barbareschi. La marcia espansiva, per quanto audace e rischiosa, risulta graduale e ponderata: dall'approdo iniziale a Galita, isola disabitata e deserta, avente un perimetro di nove miglia e distante quaranta miglia da Tunisi, lo sconfinamento aumenta sempre più fino a quarantatré miglia da Algeri. Nei due anni successivi avviene il superamento di Capo Negro, Capo Rosa e Capo di Bona. Ben presto la base di Galita viene dotata dell'assistenza religiosa e fisica grazie alla presenza di un prete e di un medico. Sovrintendono a tutelare la incolumità di tutti gli operatori la vigilanza di Gennaro Avardo e di suo figlio Giuseppe, corsari di professione con truppe armate, il tutto a completo carico dei numerosi "corallari" che arrivano a portare in loco ben quattrocento imbarcazioni. Le mutate condizioni richiedono una organizzazione più puntuale. La prammatica del 14 aprile 1790 istituisce un consolato con propria giurisdizione, un nuovo ordinamento degli armatori, capisquadra e marinai, nonché un nuovo monte. Con la successiva prammatica dell'8 ottobre vede la luce una compagnia di settore,deputata ad espletare una serie di compiti: fornire ai padroni e caposquadre delle feluche coralline una serie il denaro occorrente per armarle ed equipaggiarle con un interesse determinato secondo i diversi luoghi di destinazione per la pesca e le stagioni dell’anno; dare loro spago, funi, pane o biscotti al prezzo di costo; pagare tutte le spese occorse durante il viaggio e la pesca; aprire una fabbrica a Torre del Greco per lavorare spago e funi per l’attrezzatura delle feluche; impiantare a Napoli e a Torre la fabbrica del corallo. In compenso la Compagnia ha il diritto privilegiato di comprare e vendere il corallo al prezzo fissato da dieci esperti, cinque nominati dalla Compagnia e altrettanti dai capisquadra. Ma tutto questo impianto va ben presto in crisi e gli ultimi barlumi della sua pessima amministrazione si avvertono nelle fiamme prodotte dai relativi registri, andati in fumo durante la terribile eruzione del Vesuvio del 1794.
A metà Ottocento le case circondariali a Napoli sono Castel Capuano, San Francesco, Santa Maria ad Agnone, Concordia, Santa Maria Apparente, Istituto artistico. Nel carcere di Castel Capuano vanno custoditi quanti sono in attesa di giudizio oppure di passaggio. Qui l'assegnazione alle singole sezioni avviene in base alla condizione e alla imputazione degli inquilini. Infatti, la prima sezione è riservata ai poveri, la seconda agli agiati, la terza esclusiva agli imputati di gravi pene, la quarta ai cosiddetti camorristi, la quinta ai detenuti di passaggio e l’ultima ai testimoni. In questo carcere i detenuti non sono soggetti all'occupazione lavorativa obbligatoria, giacché la permanenza è temporanea. Vi prevale, quindi la prestazione volontaria nei mestieri più conformi alle attitudini dei singoli. Lo stabilimento di San Francesco si divide in tre sezioni: la prima è destinata alla cura dei detenuti infermi di tutte le prigioni della capitale; la seconda, chiamata casa di correzione per i giovinetti; la terza rappresenta l’opificio di Napoli. Nelle sue pareti una sala è adibita ad ospedale; un'altra riservata ai morenti; un'altra a quelli afflitti da mali contagiosi. In Santa Maria ad Agnone sono rinchiuse le donne già condannate e quelle in attesa di giudizio. Provvedono all'organizzazione generale generale delle ospiti le suore della carità. Sembra un conservatorio di donne pentite piuttosto che un carcere. Le detenute sono occupate nel lavoro e seguite con molta cura dalla congregazione delle più distinte donne della capitale. La Concordia si divide in due grandi sezioni: nell’una sono ristretti i debitori, nella seconda i detenuti ecclesiastici. In Santa Maria Apparente permangono coloro che sono oggetto di osservazione da parte della polizia. Sebbene sia collocato nella parte alta di Napoli, presenta alcune disfunzioni, prontamente corrette. Non a caso, motivi igienici hanno imposto la chiusura di un pozzo o fosso, dalle cui acque stagnanti si propagavno miasmi maleodoranti. La cucina ha subito un ampliamento spaziale, quella riservata ai poveri un abbellimento di immagine.
L'Istituto artistico, fondato nel nel 1856, accoglie i giovani che hanno espiato la pena legata alla mendicità, al vagabondaggio o al furto. Il recupero verte sull'apprendimento di mestieri, di cui i più comuni sono il sarto, il calzolaio, il tipografo, il litografo, il tessitore, il falegname e il legatore di libri. A margine di ciò vengono impartiti l'insegnamento finalizzato a leggere, scrivere, far di conto e acquisire competenze elemntari nel disegno. Gli alunni ricevono nelle prime ore del mattino una colazione, al mezzogiorno una zuppa con carne il lunedì, martedì, giovedì e domenica, negli altri giorni, oltre la zuppa, una seconda vivanda. La sera ritorna la colazione. Escono nei giorni di festa vestiti con uniforme composta di giacca e pantalone di panno bleu d’inverno, mentre in estate con giacca di panno e pantalone bianco di cotone. La direzione è composta da un consiglio di amministrazione. Un corrispondente numero di prefetti scelti tra gli ufficiali di base del real corpo dei veterani vigila di giorno le sale di lavoro e, durante la notte, i dormitori.
Casoria concorre a scrivere la storia del 1799 fin dal mese di gennaio: infatti, nei giorni diciassette e venti, Sabato Javarone, Carmine Grazioso, Antonio de Luca tentano di sollevare il popolo casoriano contro il regime repubblicano testé insediato. Il 28 febbraio lo scenario amplia la presenza umana con l’aggiunta di Giovanni Esposito e Mauro Grazioso i quali, sotto il pretesto del prossimo avvento del cardinale Ruffo, incitano, con spari e minacce, la popolazione casoriana a strapparsi di dosso la coccarda tricolore e a passare alla controrivoluzione. Tutti i sobillatori, arrestati, subiscono il processo per direttissima con la arringhe del commissario di governo e del difensore, l’8 aprile 1799, allorché sono condannati alla seguenti pene: Sabato Javarone a cinque anni di carcere, Carmine Grazioso alla pena di morte, Antonio de Luca all’ergastolo, Giovanni Esposito all’ergastolo, Mauro Grazioso a venticinque anni di carcere. Il testo di questa sentenza, letto ai condannati, viene affisso negli spazi consentiti di Casoria a cura di Gregorio Ferrara, prosegretario dell’alta commissione militare, composta dalle seguenti persone: Giorgio Pagliacelli (presidente), Onofrio Decolaci, Giovanni Battista Manthoné, Raffaele Manzi, Gaetano Teroni, Filippo Wirtz e Giuseppe Celentano (segretario). In tale lista compare anche il casoriano Sabato Silvestro, condannato a dieci anni di carcere per l’accusa di detenzione di baionetta, con cui ha ferito alla testa il compaesano Mauro Tuccillo. Analoga pena viene irrogata ad un altro casoriano Nicola Soviero, accusato di detenzione di varie armi. Dopo pochi mesi, il 4 giugno 1799, avviene lo scontro frontale tra repubblicani e realisti: muoiono Giuseppe Marino, Carmine Mastronzo, Sabato Pagano, Antonio Russo, Domenico Russo, Silvestro Russo, Giovanni Palmentiero, viene bruciato in un pagliaio Luigi di Caro. Di costoro due sono insorgenti, cioè Antonio Cortese e Luigi di Caro, i restanti con gli insorgenti di Afragola, e tutti gli altri predetti, uccisi innocentemente per le strade e per le campagne, sono stati sepolti nella chiesa di San Mauro.
In tutt'altro contesto il casoriano Simone di Simone, laico professo carmelitano, vive sulla propria pelle, in maniera drammatica, le terribili vicende della repubblica napoletana nei suoi risvolti più acuti e delicati. Tutto comincia nel monastero carmelitano di Rocca d’Aspide, ove affluiscono seicento uomini armati locali, decisi a fronteggiare, sotto l’assistenza del frate, l’eventuale assalto dei francesi. L’avvento degli assalitori, divenuto dirompente e fragoroso anche in virtù dello sparo dei cannoni, semina il panico nei cuori della parte avversa, la quale scappa a gambe levate. Il frate, rimasto da solo nel convento, diventa il bersaglio centrale dell’ira francese: è spogliato di tutto, lasciato con una vecchia tonaca addosso, legato con altri quaranta prigionieri, quindi condotto per vari paesi limitrofi, tra cui Nocera di Pagani. Qui avviene l’incontro con il generale Pignatelli Serragli il quale, dopo un processo sommario e sbrigativo, decreta la fucilazione per tutti gli arrestati. L’infelice padre Simone, sfuggito alla sentenza di morte per miracolo della Vergine, viene trascinato a Napoli, ove prova i rigori carcerari della Gran Corte della Vicaria, di Santa Maria a Parete e di Castello dell’Ovo, ove il vitto si limita al pane e all’acqua. La liberazione avviene undici giorni dopo che le truppe del cardinale Ruffo entrano in Napoli e determinano la fine dell'esperienza repubblicana. A fronte di queste peripezie, che lo hanno segnato, in profondità, nel fisico e nell’animo, il frate, costretto dai suoi superiori a peregrinare da un convento montano ad un altro, vede sempre più naufragare la immediata speranza di una dimora definitiva più vicina alla sua terra d’origine, come il Monastero del Carmelo Maggiore di Napoli o quello di Caserta. A questo punto, a distanza di un anno e mezzo dell’ultima tappa della sua via crucis, il 20 dicembre 1800, dalle pareti del monastero di Santa Maria del Carmine di Buccino, egli, avvertendo ancora i brividi in tutta la loro immediatezza, affida le sue ultime speranze al Delegato della Real Giurisdizione attraverso la penna del notaio Giuseppe Maria Merlini.
Corre il 21 settembre 1851, Nicola Palermo, condannato per motivi politici alla pena capitale, commutata in trenta anni di detenzione, viene trasferito da Reggio Calabria a Napoli, percorrendo a piedi e in manette trecento miglia in ventidue giorni. Gli fanno compagnia altri tre condannati politici, tra cui il fratello Nicodemo, e diciotto delinquenti comuni. Le soste intermedie avvengono tra le pareti di diversi carceri, ove il protagonista prova le mortificazioni più abiette. Tra l'altro subisce nel penitenziario di Cosenza il tributo amaro di pagare la cosiddetta "camorra". A Napoli viene rinchiuso nel carcere del Carmine e, dopo pochi giorni, in quello di Procida, ricolmo di 1500 detenuti, con i quali assapora i sorsi tremendi delle vessazioni: indossa vesti tessute con peli di asini; malnutrito, incatenato, prova i capricci sadici degli aguzzini e del comandante de Falco. L'odissea carceraria continua in seguito all'ennesimo trasferimento nel carcere di Montesarchio, ove permane dal 28 maggio 1855 al 7 gennaio 1859. Anche questo periodo fu contrassegnato da inaudite sofferenze, sopportate con spirito stoico e inesorabile fede nella sua missione politica. Il suddetto arco temporale non coincide con la conclusione della via crucis, in quanto egli si trova annoverato tra i detenuti, destinatari di indulto in cambio dell'esilio in America. L'imbarco sulla corvetta a vapore Stromboli e la successiva navigazione si protrae fino al 26 gennaio con l'approdo a Cadice. Fortunatamente l'ulteriore imbarco sul veliero David Stewart non arriva a destinazione, in quanto nei pressi delle Canarie il figlio di Luigi Settembrini, Raffaele, spinto da amor filiale, riesce a dirottare l'imbarcazione alla volta dell'Irlanda, permettendo a tutti di godere del dono della libertà.
Il 17 marzo 1861 avviene la promulgazione della legge che proclama il regno d'Italia. Il relativo testo legislativo, elaborato da una commissione parlamentare ad hoc, riceve la prima approvazione dal senato il 26 febbraio 1861 a maggioranza con centoventinove voti favorevoli e due contrari. Questo dissenso viene manifestato dal senatore "democratico" Lorenzo Pareto il quale intenderebbe mutare la dizione "re d'Italia" in "re degli Italiani", ritenuta più attinente e più rispondente all'unanime acclamazione voluta da "tutti i popoli dalle Alpi al Lilibeo". Inoltre, a giudizio del dissidente, l'acclamazione del re avrebbe dovuto avere come base l'iniziativa parlamentare e non quella reale. L'eco di siffatte note vibra nella seconda parte della successiva seduta della camera dei deputati, tenutasi il 14 marzo 1861. Infatti, a mezzogiorno in punto il presidente della Camera Urbani Rattazzi apre i lavori con la lettura e l'approvazione del verbale della seduta precedente. Quindi vengono lette tre petizioni: la prima è avanzata da centoventotto cittadini di Monteleone di Calabria i quali chiedono di riavere il diritto della pesca nella tonnara di Bivona, già concessa dall'ex re di Napoli alla famiglia dei duchi Pignatelli; la seconda, proposta da Giovanni Battista Campana Nobile di Genova, mira ad introdurre alcune "modificazioni" nell'alfabeto e nella pronuncia della lingua italiana; la terza, a nome di Pasquale Pagani di Ferago (Milano), punta sulla richiesta della reintegrazione della pensione, già assegnatagli dal governo austriaco per il riconoscimento di servizi militari prestati. Segue la comunicazione da parte del presidente circa i risultati della votazione dei tre commissari addetti alla biblioteca. Nessuno dei candidati ha raggiunto la maggioranza richiesta di novantaquattro voti su centottantasette votanti, come recita il quadro sinottico dell'urna: infatti, Gustavo Cavour riporta novanta voti, Giovenale Vegezzi Ruscalla settatanquattro, Giovanni Battista Giorgini quarantaquattro, Antonio Ranieri quarantadue, Giuseppe Ferrari trentatré, Marco Boncompagni trentatré, Guerrieri ventisei, Giuseppe Canestrini venti, Mauro Macchi diciotto, Saverio Baldacchini sedici, Ruggiero Bonghi quindici e Antonio Tari quattordici. Tali risultati rendono obbligatoria una nuova votazione che si terrà o alla fine della seduta odierna o nella prossima. Subito dopo il presidente comunica l'avvento di alcuni omaggi: una copia del Manuale pratico di chirurgia giudiziaria di Giambattista Garibaldi; una raccolta degli atti ufficiali del governo dell'Umbria di Gioacchino Pepoli; duecentocinquanta copie del volume San Bendetto al Parlamento Nazionale di Luigi Tosti. Si prosegue con la lettura di due lettere: una, a firma del senatore Ranco Luigi, chiede un congedo di quaranta o quarantacinque giorni per recarsi nelle province meridionali per incarico del governo. Nell'altra il deputato Carlo Grillenzoni di Ferrara, sebbene sia impedito dalla malattia di essere presente in parlamento, dichiara di associarsi al voto dei colleghi "i quali, nel chiamare Vittorio Emanuele Re d'Italia, sanciscono nella forma più solenne il diritto della nostra unità nazionale". Infine due deputati, eletti contemporaneamente in due collegi, sciolgono l'opzione: Giovanni Barracco opta per Cotrone e Turrisi per Palermo 2". Il giuramento dei deputati Torrearsa, Costa e Correnti conclude la prima parte della seduta. A questo punto si entra nel vivo dell'ordine del giorno, vertente sull'approvazione definitiva del disegno di legge sulla proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia. Giovanni Battista Giorgini, invitato dalla presidenza, relaziona nel merito a nome della seguente commissione di cui ha fatto parte come segretario: Bettino Ricasoli, Emilio Cipriani, Paolo Paternostro, Gioacchino Pepoli, Didaco Macciò, Pietro Audinot, Giuseppe Natoli e Giovanni Baracco. A conclusione egli ne legge il testo: "Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia". Aperta la discussione, prende la parola Angelo Brofferio il quale, essendo portavoce del partito "democratico", si effonde in una lunga dissertazione per dimostrare la nuova proposta, di maggiore sapore popolare, da sottoporre ad approvazione: "Vittorio Emanuele II è proclamato dal popolo italiano, per sé e suoi successori, re d'Italia". Quindi interviene Pepoli "per insistere vivamente in nome della Commissione sull'opportunità di votare questa legge quasi dire per acclamazione"...... Viene letto il dispaccio telegrafico con cui il generale Cialdini annuncia la resa di Messina e la cattura di cinque generali, centocinquanta ufficiali, quattromila a cinquemila uomini, trecento cannoni. La notizia suscita un coro fragoroso di applausi e di evviva. Segue l'appello nominale dei presenti i quali procedono alla votazione. L'urna dà i seguenti responsi: duecentonovantadue voti favorevoli e due contrari. Questi ultimi vengono subito rettificati in seguito a dichiarazione degli interessati: essi, infatti, pur volendo manifestare la loro volontà favorevole, hanno commesso un errore materiale, ponendo il primo la palla nera nell'urna bianca e la palla bianca nell'urna nera, mentre l'altro ha deposto la palla nera nell'urna bianca, dimenticando di deporre la palla nera nell'altra urna. Pertanto, il presidente può tranquillamente dichiarare che la camera approva all'unanimità. La proclamazione avviene nello scroscio di applausi e di grida "Viva il re d'Italia". Le emozioni della giornata sono state intense durante le tre ore e un quarto di lavori, per cui non c'è tempo per ascoltare le risposte del ministro della guerra Manfredo Fanti alle interpellanze del deputato Alessandro Lamarmora, audizione rimandata alla prossima seduta di giovedì prossimo.
Domenica, 13 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi è accolto entusiasticamente a Salemi, ove alla popolazione locale si associano altri gruppi di insorti e varie squadre di picciotti, di cui una è capitanata da un monaco francescano, fra Giovanni Pantaleo. Proprio la vista di quest'ultimo lo spinge ad inviare ai "preti buoni" l'invito ad unirsi al coro dei combattenti per la patria: "Comunque sia, comunque vadano le sorti dell'Italia, il clero che fa oggi causa comune coi nostri nemici, che compra soldati stranieri per combattere Italiani, sarà maledetto da tutte le generazioni.
Ciò che consola però e che promette non perduta la vera religione di Cristo, si è di vedere in Sicilia i preti marciare alla testa del popolo per combattere gli oppressori.
Gli Ugo Bassi, i Verità, i Guzmarolli, i Bianchi non son tutti morti; ed il di che sia seguito l'esempio di questi martiri, di questi campioni della causa nazionale, lo straniero avrà cessato di calpestare la nostra terra, avrà cessato di essere padrone dei nostri figli, delle nostre donne, del nostro patrimonio e
di noi!". Il giorno dopo, 14 maggio 1860, Garibaldi parla alla folla, esortandola a combattere per l'unità d'Italia. Quindi dichiara di assumere la dittatura della Sicilia nel nome di Vittorio Emanuele II. Le copie del relativo decreto, di seguito trascritto, sono affisse lungo tutte le vie:
"Siciliani, Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde.
Noi siamo con voi! Non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dunque! Chi non impugna un'arma è un codardo e un traditore della Patria. Non vale il pretesto della mancanza d'armi. Noi avremo fucili; ma ora un'arma qualunque basta, impugnata dalla destra d'un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vecchi derelitti.
All'armi tutti. La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà d'un popolo unito".
La città di Sorrento vanta un'antica tradizione di acquedotti risalente ai Romani i quali ne appresero la tecnica dai Greci. Entro questo programma va inserita la costruzione di alcuni acquedotti sorrentini, denominati Formiello, San Massimo, Majano e Casa d'Ardja. Il primo ha origine nel territorio di Piano nella contrada chiamata Patrulo alle falde settentrionali del monte Vico Albano, alla profondità di sessanta palmi sotto la superficie della casa appartenente allora a Francesco Attanasio e Giacomo Califano.