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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il passaggio di Agerola dal vecchio al nuovo regime si svolge sulla pelle di Angelo Fusco, nominato sindaco il 6 agosto 1860 e riconfermato nella carica successivamente dal luogotenente generale del re nelle province Meridionali. Questa elezione suscita una fiera avversione da parte di Filippo Brancati e della famiglia Acampora nelle persone del sacerdote don Luca e dei notai Luigi e Michele. La prima manifestazione pubblica, intrisa di colori reazionari, avviene nel villaggio di San Lazzaro il 25 dicembre 1860, allorché Gennaro Lauritano, Luigi, Vincenzo e Ferdinando Coccia con altri compagni lacerano un “fazzoletto tricolore”, portato in trionfo sull’estremità della baionetta da un soldato. I tentativi sindacali di arrestare i colpevoli cadono nel vuoto, in quanto i fratelli Caccia sono nipoti di Filippo Brancati, comandante della Guardia Nazionale locale. Uguale sorte tocca ad una analoga richiesta di istallare in loco una stazione di carabinieri, in quanto il Sottoprefetto di Castellammare, de Pascale, è imparentato con i Coccia. A questo punto gli avvenimenti, lasciati a se stessi, degenerano. Infatti, il 19 maggio 1861, un’altra manifestazione, organizzata dai soliti mestatori, presenta una maggiore consistenza di partecipanti ascesi a cento uomini che, per giunta, armati di tutto punto, al suono della banda musicale, sfilano per le vie di San Lazzaro inneggiando al re borbonico Francesco Secondo.La sosta minacciosa davanti alla casa comunale, ove è in corso di svolgimento il consiglio per la nomina dei consiglieri, produce la brusca interruzione dei lavori e la corsa sfrenata di tutti, compresi la Guardia Nazionale, il sindaco e il segretario, mentre l’orda scalmanata sghignazza di fronte alla lacerazione dello stemma di Vittorio Emanuele Secondo, attuata da Antonio Brancaccio, nipote di Filippo Brancati. Una forza militare, sopraggiunta nella notte, per ordine del Sottoprefetto, informato dei fatti incresciosi, esegue molti arresti dei rivoltosi, mentre altri si sono dileguati sulla montagna. A questo punto il sindaco, non potendo contare sulla Guardia nazionale, ne istalla un’altra sotto la guida del figlio Giuseppe il quale ne assume il comando il 4 giugno 1861, in seguito alla sospensione del capitano Filippo Brancati.L'azione concentrica di padre e figlio si traduce nell'arresto di altri reazionari e di alcuni che danno copertura agli sbandati, come Filippo Avitabile, Andrea Imperato, Gennaro Cretella alias Diavolillo. La vendetta, organizzata dai soliti Acampora e Brancati, si verifica il 7 agosto 1861: la banda di briganti, scesa dai monti, mette a ferro e fuoco Agerola, lasciata incustodita dopo la fuga degli appartenenti alla Guardia nazionale. Il sindaco è momentaneamente lontano da casa, mentre il figlio trova la salvezza rifugiandosi in un giardino vicino, mentre la loro casa viene spogliata di tutto, biancheria, oggetti e denaro. Il tutto si svolge tra le grida di gioia effuse da alcune donne delle famiglie Acampora e Brancati. Particolarmente attiva risulta Teresa Gentile, moglie di Pietro Campanile, la quale dona denaro e fazzoletti per asciugarsi il sudore al capo Antonio Cavallaro, cugino della moglie del notaio Michele Acampora. Le due vittime si trattengono per diversi giorni a Castellammare, ove presentano rapporto al Sottoprefetto e al comando generale di Salerno. L'avvento di un distaccamento dei bersaglieri, comandato dal capitano Romagnano, consegue l'arresto di molti esponenti della Guardia nazionali. Il capitano di stato maggiore di Salerno, Filippone,venuto subito dopo, non avendo trovato il sindaco, raduna il consiglio comunale e nomina nella carica sindacale Pietro Brancati, fratello di Filippo e padre di Antonio, uno dei partecipanti alla suddetta prima manifestazione reazionaria. Inoltre scioglie la Guardia nazionale e ne forma un'altra con a capo un nipote del sindaco, al cui fianco agiscono come aiutanti i notai Acampora. In barba a tutto ciò i briganti aumentano di numero e uccidono quanti manifestano attaccamento al nuovo sistema politico, come il sacerdote don Carlo Lauritano, Gregorio Coccia, Antonio Russo, Matteo Gentile e Pasquale Naclerio. Questo grave documento di accusa, le cui pagine trasudano profonda amarezza, viene stilato da Angelo e Giuseppe Fusco, costretti a vivere lontano dal paese natale.
Nicola Martinelli, proprietario napoletano, giunge, mercoledì 15 aprile 1863, a Castellammare dopo mezzogiorno per sbrigare alcuni affari di famiglia. Verso le quindici e trenta, pronto a ritornare nella capitale, procede lungo la strada Quartuccio, allorché viene avvicinato da un individuo ignoto e strano nell’aspetto: “mustacchi folti e allungati verso il mento a piccola mosca di color biondo, capelli biondi tirati indietro agli orecchi, voce grossolana ed accento calabrese, con passo lento che gli fa curvare la persona nel camminare, con cappello all’italiana a cupolino”. Costui, dopo aver dimostrato di essere abbastanza informato sul suo privato, gli chiede un intervento per un cambio del servizio militare a favore del figlio, sorteggiato nella leva della marina. Quindi si presenta con il nome di Alfonso Chianetti e si mostra disponibile a versare per il suo interessamento 470 ducati, prontamente consegnati “in monete d’argento Napoleoni e mezzi Napoleoni”. Poco dopo il sedicente avventore, allontanatosi per cercare, a detta sua, il figlio, ritorna più preoccupato di prima con una vettura guidata da un giovane cocchiere che, dopo aver accolto Nicola Martinelli, spinge i due cavalli a tutta velocità alla volta di Vico Equense, ove si spera di rinvenire il giovane. Non desta alcun sospetto nemmeno la salita a bordo di altri due uomini i quali danno l’impressione di essere passeggeri diretti a Sorrento. Allorché l'abitato sparisce alla vista, si disvela l’insidia in tutta la sua tragicità: uno dei due ultimi arrivati aggredisce all'insaputa Nicola Martinetti, lo immobilizza, gli stringe un fazzoletto sopra gli occhi, gli lega le mani e lo spinge a percorrere a piedi per due ore e mezzo un’erta montana, alla fine della quale la vittima, liberata solo della benda, si trova immersa in una calcara. In questo luogo desolato e solitario inizia, alla presenza di cinque persone, uno strano interrogatorio, attivato da un interlocutore, chiamato dagli astanti “ Segretario di Sua Eccellenza il Cavaliere Pilone” e distinto tra gli altri perché porta “vicino ad un berretto alla tirolese tre piccoli ritratti in fotografia, cioè di Pio Nono, Francesco Secondo e Maria Sofia”. Il tono dialogico, fin dalle prime battute, procede lungo linee minacciose, in quanto si basa su un scambio di identità: l’aguzzino, ritenendo che Nicola Martinelli sia figlio o nipote di Raffaele, cassiere del Banco, e non di Vincenzo, preme per affermare la sua presunta tesi. Sconfessato dalla pervicacia dell’interessato e in preda all’ira, lo consegna ad uno dei presenti per l’esecuzione capitale. A questo punto Nicola Martinelli, non deflettendo minimamente dalla rivendicazione dei connotati paterni e dalla sincerità delle sue affermazioni, chiede che cosa fare per avere salva la vita. La concessione si appunta sul versamento di mille ducati e ottiene il permesso di farne richiesta epistolare, attraverso la consegna a mano, sia della domanda che della risposta, allo zio, domiciliato a Napoli in via San Tommaso d’Aquino. Nel frattempo la forza a resistere ad oltranza gli perviene dalla speranza di porre termine nel più breve tempo possibile alle tristi condizioni della prigionia che lo costringe a non essere padrone nemmeno dei movimenti più naturali. Gli infonde uno strazio indicibile, venerdì sera, 17 aprile 1863, il ritorno a mani vuote dell’emissario dall’abboccamento per il riscatto, il che si traduce in ulteriori maltrattamenti ed offese.
L’estremo attaccamento alla vita porta l'infelice a tentare l’ultima carta: chiede ai suoi aguzzioni di rivolgere un’analoga petizione alla moglie con le stesse modalità. Siffatta autorizzazione viene concessa dopo un’estenuante trattativa, consumata nella eventualità di accompagnare la richiesta estorsiva con l’invio di un pezzo del corpo mutilato, cui, alla fine, subentrano, per fortuna, solo i peli della barba. In tal modo la lettera, destinata alla moglie e indirizzata al compare don Filippo Ardia, rettore della chiesa di Santa Maria a Mare, detta tutte le condizioni. A compenso di ciò i briganti gli portano via l’orologio e diversi “borderò” di circa ottanta lire di rendita al latore, conservati nelle tasche. Dopo due giorni di sosta, la banda decide di traslocare: percorre per cinque ore di viaggio luoghi scoscesi e tortuosi, trascinando anche il prigioniero nella nuova sede, circondata da fascine che, pur impedendo di effondere lo sguardo con chiarezza in lontananza, permettono attraverso le fessure di scorgere nelle immediate vicinanze, grazie al concorso rivelatore delle fiamme del fuoco, le figure di alcuni individui. Qui arrivano in serata negativi segnali libertari, dal momento che neppure la moglie ha obbedito ai suoi desiderata. Nel clima della susseguente disperazione brilla un insolito barlume di salvezza, visibile nella comunicazione della grazia accordata, a garanzia della quale Nicola Martinelli si impegna a ritornare a casa per procurarsi centottanta ducati e consegnarli personalmente entro otto giorni ad un incaricato nel Fondo di Capodimonte. La notizia fa apparire tutte le precauzioni restrittive a suo danno sotto una luce diversa, per cui non si avverte alcuna : l’apposizione della banda intorno agli occhi e i tre quarti d’ora di marcia. Finalmente con immensa gioia Nicola Martinelli gusta a pieni polmoni il sapore della libertà piena al bivio prospiciente al Largo dell’Arso e imbocca la strada della Cupa che conduce a San Giovanni a Teduccio. Si presenta alla stazione della Guardia Nazionale locale, ove racconta la sua strana avventura toccatogli e inoltra aperta denuncia contro i malfattori. Alla fine si ritira a casa, ubicata a Napoli al vico Vittoria a Buoncammino, n. 35, stanco e ammalato. In queste condizioni lo trova, nel pomeriggio di domenica, 20 aprile 1863, il vice ispettore funzionante in capo della Pubblica Sicurezza nella sezione Porto, Raffaele Manzi, recatosi a domicilio per interrogarlo.
Da un po’ di tempo Agerola versa in un degrado amministrativo assoluto, la cui eco perviene alle orecchie del Sottoprefetto di Castellammare il quale invia in loco un proprio emissario, Antonio Milone, per avere un quadro circostanziato dell’intera problematica. Costui ne fotografa lo spessore e ne addita le cause senza alcuna reticenza, lanciando strali accusatori a vasto raggio in una apposita relazione, datata 17 gennaio 1864. Innanzi tutto egli punta il dito inquisitore contro il sindaco Gennaro Avitabile, uomo dotato di spiccata bontà, ma di scarsa autorità e di inconsistenti conoscenze specifiche. Con lo stesso carico di responsabilità occupano un posto di rilievo anche i consiglieri comunali, il cui numero, non raggiungendo mai la presenza canonica delle venti unità prescritte, ne lamenta l’assenza sistematica di quattro elementi. I rimanenti sedici, poi, in perenne dissidio tra loro e privi, per la maggior parte, dei minimi rudimenti di fondo circa il loro ruolo istituzionale, soggiacciono proni alla volontà prevaricatrice e vessatoria del segretario comunale Coppola il quale “fa e disfa a suo talento”, arrogandosi, in pari tempo, i poteri del sindaco, della giunta e del consiglio comunale. Contro siffatto arbitrio sfacciato, speculare di estrema incuria e di accentuata disonestà, alzano invano la voce gli unici oppositori effettivi, Michele Acampora e Giovanni Villani, mentre Salvatore Amatruda e Pietro Brancati, che pure palesano con i precedenti due colleghi un’analoga formazione culturale di adeguato livello, procedono a passi felpati, dati i condizionamenti ambientali: Salvatore Amatruda espleta, tra l'altro la carica di segretario della Congrega di Carità.
Non c'è bisogno di portare il segretario Coppola sul banco degli imputati in tribunale, dal momento che costituiscono gravi prove a suo carico tutti gli atti comunali: la nomina di Michele Acampora e Giovanni Villani a revisori dei conti della passata amministrazione, avvenuta all'indomani dell'avvento del suddetto incaricato prefettizio, esce dalla sua mente de imperio con il vizio della piena illegittimità, dal momento che Giovanni Villani è stato assessore supplente ; i consigli comunali si riuniscono senza obbedire ai criteri legali nemmeno nell'atto della convocazione;
i registri dello stato civile del corrente anno sono in bianco, mentre carte volanti annotano le diverse notizie dei nati; quelli delle delibere portano solo la firma del sindaco; la lista elettorale giace in un cassetto senza il parere obbligatorio del Consiglio; il ministero delle finanze non conosce la contabilità militare, in quanto non è stata inviata a tempo debito, per cui il Comune corre il rischio di perdere gli anticipi già distribuiti circa due anni or sono. A fronte di una situazione così devastante e desolante il prefetto ordina l’allontanamento immediato del segretario disonesto ed indice la seduta pubblica per la surroga. Essa cade il 22 febbraio 1864, allorché i quattordici consiglieri nelle persone di Michele Avitabile, Nicola Avitabile, Giuseppe Avitabile, Luca Acampora, Silvestro Acampora, Pietro Brancati, Melchiorre Coccia, Filippo De Martino, Costantino Fusco, Nicola Imperato, Bonaventura Naclerio, Carlo Naclerio, Giuseppe Saturno e Giovanni Villani eleggono segretario Alfonso Frau di Praiano e vice segretario Davide Avitabile. Tra le righe della delibera si avverte l'auspicio generale di cambiare definitivamente marcia, onde gli interessi della collettività possano campeggiare in cima alle preoccupazioni degli amministratori.
Nell’immediata vigilia dell’unità d’Italia in quasi tutto il distretto di Castellammare continuano le difficoltà nella riscossione dell’imposta sui beni immobili costituiti da proprietà agricole, meglio conosciuta con il nome di fondiaria. Nello specifico non costituisce affatto una eccezione Ottajano, ove molti contribuenti, appartenenti alla clase sociale dei galantuomini, edotti da un loro comportamento ormai inveterato con pendenze debitorie tuttora insolute, si apprestano a produrre un altro vistoso arretrato nell’esercizio finanziario in corso. Si legge nel comportamento degli interessati un alto tasso di estrema infingardaggine, le cui radici allignano tra gli stessi componenti dell’amministrazione comunale, come lamenta il ricevitore del distretto nel chiamare in suo aiuto il Sottintendente, il 3 marzo 1860. L’appello, reiterato dopo quattro giorni, si tinge di tinte allarmanti di fronte ad un atteggiamento ben più grave rivelato dai morosi i quali, a detta del contabile locale, addirittura osano nascondere qualche prodotto agricolo che potrebbe essere sequestrato. A questo punto non rimane altra strada che la coazione del pagamento con l’invio del piantone “con pernotto”. A margine viene riportato l’elenco di quanti presentano morosità per l’anno passato e il primo bimestre dell’anno in corso. In esso occupano i posti apicali Antonio Daniele con trentasei ducati e ventisei grana di addebito, Michele Ranieri con ventisette ducati, Gabriele Boccia, residente nella località Scocozza, con ventidue ducati e nove grana, Antonio Crispo con quattordici ducati e venti grana. L’ampiezza del problema si espande ulteriormente nella sua preoccupante gravità, allorché notiamo nel registro dei renitenti il pieno coinvolgimento anche di alcuni enti religiosi i quali manifestano un enorme ritardo nella stessa compilazione e presentazione dei bilanci annuali. Nella contestazione degli addebiti il conservatorio Ave Gratia Plena registra una sola annualità, la congrega di Santa Maria Visitapoveri sei annualità, quella dell’Assunta sei annualità, quella del Rosario tre annualità, quella della Santissima Concezione tre annualità, la chiesa di San Giuseppe una annualità. Questi, messi alle strette delle loro responsabilità, non si perdono d’animo e trovano un alleato di turno nel principe di Ottajano il quale, nella sua veste di sovrintendente del consiglio generale degli Ospizi, non esita a concedere ai richiedenti la salvifica proroga, il che comporta la rimozione immediata dei piantoni. Nei mesi successivi l’elusione daziaria non accenna ad invertire la rotta abituale, anzi alza il tiro e la voce, favoriti dal momento delicato del trapasso dal vecchio al nuovo regime. Non a caso gli elusori partecipano con intensa gioia ai tre giorni di festa, organizzata con analoga pompa nei tre punti della nostra realtà territoriale, nel centro di Ottajano, a San Giuseppe e a Terzigno, per celebrare il trionfale ingresso di Garibaldi a Napoli, avvenuto il 7 settembre 1860, in quanto hanno modo di toccare con mano che le forze dell’ordine sono impegnate in compiti più importanti, imposti da sfide di ben altra natura. Così, puntando su tale “distrazione” generale, essi procedono con aperte minacce nei confronti del personale percettorio e nella sistematica violazione dei sigilli imposti sulla merce sequestrata. In controtendenza le solitarie note di prostrazione intima del percettore distrettuale confluiscono nella chiusa della missiva del 15 ottobre 1860, in cui il mittente chiede al suo superiore almeno l’autorizzazione a poter contare sull’appoggio dei tre guardiani rurali comunali per effettuare il suo importante servizio nel vasto e difficile territorio di Ottajano. Si deduce il negativo segno della risposta dalla susseguente richiesta, datata 30 novembre 1860, in cui si richiede l’intervento dei carabinieri e dei bersaglieri per la riscossione daziaria non solo a Ottajano, ma anche a Torre Annunziata, Boscotrecase, Gragnano, Vico Equense, Massa Lubrense e Capri. Vi si avvertono segnali preoccupanti per l’immediato futuro, laddove sembra farsi strada l’idea che il rispetto della legge debba viaggiare sulla punta delle armi sguainate.
La necessità di riparare l’ormeggio delle barche nel periodo delle avverse condizioni atmosferiche spinge l’amministrazione comunale di Massa Lubrense a deliberare di costruire nelle immediate prospicienze della sua costa marina, contrassegnate da due grandi massi calcarei già esistenti, una scogliera, sulla cui base è in animo di edificare successivamente una banchina. Il relativo progetto, presentato dall’architetto Camillo Ranieri il 3 agosto 1842, contempla l’esborso di 3862 ducati e quaranta grana. Risultano aggiudicatari della gara pubblica gli imprenditori edili Vincenzo Buonocunto e Ferdinando Scelzo i quali ne sottoscrivono le condizioni dello strumento notarile il 23 agosto 1842, allorché si impegnano ad eseguirne i lavori ad opera d’arte in cambio di pagamenti, comprensivi dell’interesse del cinque per cento a scalare e scanditi progressivamente nell’immediato futuro fino alla chiusura definitiva del cantiere. L’attività lavorativa, iniziata nel 1° settembre 1842 sotto la direzione del suddetto tecnico e di due decurioni Mattia Turris e Giovanni Persico, procede con una certa lena. Infatti, dopo un anno è già stata terminato il primo tratto e versa in uno stato avanzato il secondo tratto, tanto che l’Intendente della provincia di Napoli ordina al tecnico la misura di quanto effettivamente compiuto. La risposta arriva con calma assoluta il 10 giugno 1844, allorché la quantificazione parziale delle spese ascende a 2874 ducati e quarantotto grana. Di lì a poco, terminata l’intera struttura, avviene la rendicontazione totale pari a 7691 ducati e venti grana, maggiorata di 3872 ducati e otto grana rispetto al preventivo. Nel periodo interino dell’iter procedurale per la liquidazione, precisamente nel gennaio 1845, il secondo tratto della scogliera viene abbattuto dall’impeto violento delle onde e disperso nel fondo del mare. A questo punto il sindaco convoca subito il decurionato, invitandolo ad esprimersi sulla eccedenza della spesa presentata e sul danno testé avvenuto. La delibera finale, varata all’unanimità dei presenti, respinge la misura finale dei lavori avanzata, delegando l’architetto Celentano non solo a controllarne la rispondenza e la congruenza di quanto rivendicato, ma anche ad additare le cause dell’abbattimento. Di lì a poco, il 10 febbraio 1845 giunge la perizia giurata del tecnico di parte: costui contesta senza mezzi termini l’eccedenza della richiesta e imputa agli imprenditori edili la colpa “di non aver nettato e espurgato il fondo del mare” , ove si addensano le cause fondamentali del crollo: la scogliera risulta priva di “scarpe necessarie”, né eseguita “a strati paralleli”; inoltre gli scogli non allocati su “sponde di grandezza sufficiente”. Tale rapporto, fatto proprio dal decurionato, viene inviato all’Intendente della provincia. A questo punto scatta l’indagine superiore con l’invio in loco, il 15 marzo 1845, dell’architetto Ercole Lauria. Costui ritiene, nella relazione datata 30 agosto 1845, che la causa del crollo della scogliera consista nella sua errata inclinazione, non rispondente ai calcoli progettuali. Su queste basi, contestate dalla controparte, si spalancano le porte del contenzioso che, bruciando notevoli energie finanziarie, non concede sconti nemmeno lungo l’asse temporale
I suoli che corrono lungo la spiaggia di Castellammare, dal largo Quartuccio fino al fiume Sarno, fanno parte da sempre del demanio pubblico e, in virtù di tale natura, sono stati censiti a diversi cittadini dietro il versamento di un canone. Il 12 marzo 1793, su disposizione reale, due ingegneri, il napoletano Ignazio de Nardo e lo stabiese Catello Trojano, ne elaborano la relativa pianta, finalizzata ad una censuazione più consona alle nuove esigenze, susseguente alla loro divisione in varie sezioni. Proprio all’inizio del largo Quartuccio il Comune fa costruire due fabbricati, uno per la casa comunale, l’altro per i magazzini del grano che, negli anni 1829 e 1831, sono venduti a Giovanni Rispoli e Antonino Spagnuolo. Le altre porzioni terriere vedono come censuari, nell’ultimo decennio del Settecento, Vincenzo Cosenza, Michele Stanzione, Vincenzo Gonziano, Nicola Amato e Vincenzo Scelzo, surrogati, rispettivamente, nell’arco del primo trentennio dell’Ottocento, da Fortunato e Michele Palumbo, Antonio Mereghini, marchese de Turris, Catello Spagnuolo ed altri i quali, secondo le proprie necessità e possibilità, vi edificano varie costruzioni senza alcuna licenza. A fronte di tali modifiche d’uso viene intimato ai responsabili la restituzione del suolo che dà adito ad un aspro contenzioso, conclusosi, l’11 marzo 1842, con la sentenza della terza camera del tribunale civile di Napoli, secondo cui l’azione intrapresa è ormai estinta per perenzione. Nel frattempo l’intera area è stata dotata delle debite infrastrutture viarie. Infatti, risale al 1834 la costruzione della strada pubblica lungo le suddette costruzioni dal largo Quartuccio alla fabbrica dei cuoi, nelle cui prossimità si eleva il cantiere mercantile. Un’altra strada, costruita l’anno precedente “con basolata” e, successivamente, ricoperta di brecciame, giunge fino al torrente San Marco, arginato con forti mura e ornato di un ponte, che favorisce la comunicazione tra le sponde opposte. La distesa arenosa di questa zona fino alla foce del fiume Sarno cade sotto il rescritto reale di agosto 1844 che ne ordina la censuazione al fine di favorirne la coltura. Una parte del suolo dal fiume Sarno fino al Camposanto viene occupata dalla strada ferrata, un’altra parte è assegnata ai fratelli Spagnuolo e agli eredi di Taddeo Vernacore per la ricostruzione delle “caldaie” in compenso dei quelle demolite nel cantiere reale. Vi è sottesa l’intenzione di collegare anche queste parti dell’opportuna rete viaria come ramificazione ulteriore di quanto realizzato prima. Anzi nello specifico vige il rispetto assoluto di alcune regole basilari, facenti parte di un piano di costruzione di massima e rientranti nell’utilità della collettiva stabiese, soprattutto, per quanto concerne la riserva di determinati spazi: così quelli nei pressi del surriferito torrente hanno la funzione di permettere l’accesso dalle paludi agli abitanti della frazione di Schito; quelli prospicienti alla marina mirano a consentire il “bordeggio” del mare, il tiro delle reti da parte dei pescatori e il rimorchio delle barche da pesca; quelli lungo il molo e innanzi al forte sono destinati alla costruzione di qualche chiesa. Il contenuto costituisce il nerbo della memoria scritta, il 24 agosto 1845, dal sindaco Antonio Vitelli per il controllore distrettuale delle contribuzioni Carlo Gargiulo.
La legge sull’eversione della feudalità, emessa dal re francese Giuseppe Bonaparte il 2 agosto 1806, ha una notevole carica rivoluzionaria, in quanto sancisce la fine dell’oppressione feudale e lascia trasparire un immediato futuro democratico, visibile nell’assegnazione delle quote demaniali ai più indigenti della popolazione. Siffatto programma, tradotto nel vissuto concreto di Ottajano, fa scattare la reazione dei galantuomini nostrani già nella prima ripartizione delle selve Borde e Cafurchio. Questi ultimi, insinuandosi nel gioco finanziario e diventando soci con gli assegnatari dei demani in virtù della quota da loro versata, ne diventano i padroni di fatto. Non contenti della parziale vittoria, essi attendono la conclusione di tutta l’operazione demaniale, per celebrare il trionfo definitivo. Così, all’indomani della divisione di tutti i demani tra il feudatario e il Comune di Ottajano, sancita l’11 novembre 1811 da Giacinto Martucci, commissario del re, si verifica un fenomeno molto strano: le terre del primo attore sono floride e feraci, quelle della controparte giacciono in uno stato di estrema prostrazione. Tra le diverse motivazioni sottese spicca il forsennato assalto dei galantuomini, i cui rappresentanti, issando il vessillo del monopolio, siedono sugli scranni comunali con ampi appoggi persino a livello provinciale. Fortunatamente i primi tentativi predatori vanno a vuoto, per cui nel 1827 l’intera estensione demaniale pubblica viene divisa in sette sezioni ed ognuna fittata per tre settenni. In questo piano generale non esita ad entrare la corrente dei monopolisti con una ridda di liti giudiziarie le quali, prodotte ad arte per varie e deliberate omissioni, tra cui la mancanza dell’iscrizione ipotecaria, mirano a frodare il Comune e, nel migliore dei casi, a causare il dispendio di notevoli energie finanziarie. Nel crogiolo delle questioni sorte con una certa frequenza dal 1827 al 1849 in tutte le selve demaniali, valligiane e montane, “l’architetto” Pasquale de Rosa recita un ruolo di primaria importanza, per cui tutti credono che egli possa essere un ottimo sindaco, capace di dare una svolta definitiva alla suddetta materia. Su questa base fideistica si fonda l’investitura dell’interessato nel 1850. Ma fin dai primi passi della nuova amministrazione incominciano a sgretolarsi le speranze generali. Infatti, le autorità comunali mostrano prontezza nel modificare le offerte dei privati con condizioni lesive degli interessi della collettività, per cui giunge puntuale la ripulsa superiore. Questo tassello fa parte di una strategia ad ampio spettro, finalizzata ad acuire il degrado delle selve demaniali, al punto che esse non attirino oblatori, surrogati dagli immancabili monopolisti che ne vengono in possesso a bassissimo costo. In siffatta atmosfera difficile alligna ogni forma di illegalità, non escluso il furto di legname reciso nella selva pubblica Profico e depositato nella vigna appartenente ad Arcangelo de Vito, puntualmente denunciato al sindaco. Costui, convocata la commissione, costituita dal coadiutore del primo Eletto, dai decurioni Crescenzo Giordano e Salvatore Auriemma, si reca in loco in compagnia del commesso comunale Giuseppe Ranieri ed i “servienti” Francesco Menechini e Michele Cutolo per accertarsi de visu della merce trafugata: rinviene, alla presenza del proprietario, otto fascine di legname verde da pochi giorni reciso. Notizie confidenziali portano alla ribalta gravi responsabilità a carico del guardaboschi Francesco d’Ambrosio e delle guardie rurali Antonio Miranda e Angelo Raffaele d’Avino, adusi a perpetrare dietro ricompensa siffatti crimini da ben diciotto mesi con la complicità manuale di Arcangelo Pagano, Gennaro Pagano e Pasquale alias Nzoaturo. Il 15 aprile 1853, il corposo incartamento con la relazione sindacale è inviato al Sottintendente di Castellammare il quale ne mette a conoscenza l’Intendente di Napoli. A questo punto scatta la procedura per la sospensione dei suddetti dipendenti pubblici con la contemporanea quantificazione dei danni che ascendono a 266 ducati e quaranta grana. Il successivo intervento dell’ispettore forestale non solo conferma l’accaduto, ma ne estende l’entità in un raggio d’azione diffuso, avallata da altre denunce che fanno salire il risarcimento a 4500 ducati. Su tali basi procede l’indagine, nel cui mirino entra anche l’amministrazione comunale con l’imputazione di mancata sorveglianza. Quest’ultima imputazione si aggrava ulteriormente in complicità oggettiva con i trasgressori nella persona del sindaco Pasquale de Rosa, accusato apertamente da una commissione ad hoc deputata e costretto alle dimissioni. Ancora una volta si prospetta il lungo e tortuoso iter giudiziario che, affidandosi al potere levigatore del tempo, smussa sempre più le accuse dei responsabili e attenua la portata delle decisioni finali. In controluce i fondi demaniali continuano a dimenarsi tra le acute sofferenze dell’infermità e al loro capezzale assistono impietosi i galantuomini. E’, forse, cambiato qualcosa nel nostro attuale momento storico, ove agiscono soltanto nuovi protagonisti in uno scenario diverso?
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