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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
4 marzo 1868. Art. 1°. Nell'edificio del soppresso convento dei Rev. Padri di San Francesco ora di proprietà del Municipio di San Gennaro sarà fondato un asilo per fanciulli orfani e poveri con i mezzi che saranno in seguito indicati. 2°. Lo scopo della fondazione è quello di ricoverare fanciulli orfani e poveri di sesso maschile ed istruirli in qualche arte o mestiere, oltre ai necessari insegnamenti di religione o di morale ed alle cognizioni elementari delle lettere, dell'aritmetica, della geografia e del disegno lineare. Art. 3°. L'ammissione è gratuita. Vi saranno ammessi solo i naturali del Municipio dell'età di anni quattro a dieci di comprovata povertà. Art. 4°. Il numero non potrà oltrepassare i quattro nell'apertura dell'asilo, ma in prosiguo potrà estendersi fino a venti. Saranno ricevuti a preferenza gli orfani di amendue i genitori, indi quelli di uno solo. Qualora manchino gli orfani veramente poveri, potranno ammettersi i figli dei genitori viventi purché poveri, preferendosi quelli i cui genitori o uno solo siano affetti di malattia cronica che impedisca favoro proficuo. Art. 5°. Non saranno ricevuti gli affetti di malattia schifosa o contagiosa per lo che vi sarà apposita visita sanitaria anche per assodare se siano stati inoculati dal pus vaccinico.... Art. 12°. Le arti da apprendersi saranno quelle del calzolaio, del sartore, del falegname e del fabbro. In progresso potrà stabilirsi anche la musica e la pittura. Art. 15°. L'asilo avrà un Direttore, ed un Segretario nominandi dal Consiglio Comunale, la carica del Direttore sarà onorifica e quinquennale .... Aert. 17°. Tutti i bilanci e l'amministrazione saranno proposti dalla Deputazione ed approvati dal Consiglio Comunale. F.to La Giunta:Santolo Buonaiuto, Michele Tuccillo, Carlo Carbone sindaco, Domenico Ammendola.
L'anno 1896 il 2 novembre in San Giuseppe Vesuviano e nel solito locale, in seguito a determinazione del presidente, convocatasi l'amministrazione di questa col mezzo degli avvisi scritti, recanti gli oggetti della convocazione, recapitati tali avvisi nel giorno 27 ottobre dal messo comunale, come egli ha riferito, sono intervenuti i signori Pesce Raffaele, presidente, Cola Angelo, membro, Ferraro Luigi, membro, assistiti dal sottoscritto segretario, e così in numero di tre dei tre componenti l'amministrazione medesima hanno svolto il seguente ordine del giorno, proposto dal presidente Raffaele Pesce. Pervenuta a questa amministrazione domanda del parroco di San Giuseppe, con la quale espone lo stato attuale in cui è ridotta la parrocchiale chiesa e chiede il permesso di poterne costruire altra nello stesso sito che sia sotto ogni rapporto più consentanea et adatta allo esercizio del culto e si confaccia ai bisogni della popolazione.....Visto che l'ingegnere Foschini ha presentato il disegno del novello tempio gratuitamente e ha promesso dirigere ogni lavoro senza compenso veruno... Visto che il rev. parroco ha dimostrato per fatto l'incessante desiderio di avere una novella chiesa per poter vedere congregati tuttii fedeli ad eseguire gli atti religiosi e cristiani senza impedimento di sorta e togliere ed evitare ogni sconvenienza potesse aver luogo per la ristrettezza ed angustia dell'attuale chiesa. Propone al consesso, cui egli nella qualità di presidente si appartiene di accogliere la domanda del parroco con le condizioni qui appresso enunciate: 1° La costruzione del novello tempio rispetto alla amministrazione non dovrà menomamente apportare innovazione di sorta alle tavole fondamentali dello statuto della parrocchiale amministrazione, rimanendo integre e salde. 2°. Si dovranno sotto ogni rapporto riconoscere e rispettaare nella costruzione del nuovo tempio tutte le deliberazioni emesse dagli amministratori pro tempore ed ogni loro operato a contare dall'epoca delal fondazione dello statuto ..... 3°. Riconoscere e rispettare il sacrestano maggiore nominato dagli amministratori con deliberazione debitamente approvata il quale eserciti e sviluppi in detta chiesa parrocchiale quel jus padronato che compete agli amministratori a base delle tavole di fondazione di un tale Istituto... 4°. Infine qualunque offerta, donativo ed elemosina si possa corrispondere dai fedeli è di detta chiesa e di conseguenza di pieno diritto degli amministratori i quali la invertiranno a quello scopo per la quale è stato dai fedeli data. IL CONSESSO.... accoglie a così fatta maniera la domanda del parroco pro tempore sig. Prisco di Prisco.
La visita pastorale, effettuata, il 17 agosto 1542, nella chiesa di Panecocolo, denominata Santa Maria dell'Arco, riscontra che il Santissimo Sacramento è conservato in una cassa di legno. Subito viene ordinato al cappellano, Leonardo Marigliano, di farne una di marmo sotto pena della scomunica.
Nella stessa chiesa vi sono tre cappelle: una dedicata a Sant'Antonio e San Giovanni Evangelista, ove viene celebrata una messa ogni settimana; un'altra a Santa Maria dell'Ascensione, una terza fatta costruire dal notaio Antonio Maiono.
Gli inizi della chiesa di Madonna dell’Arco vanno ricercati nell’antica cappella abbandonata, ove era affrescata l’immagine della Vergine Maria. Essa divenne centro dell’attenzione generale del tempo in seguito a molti miracoli avvenuti in loco, per cui il papa Clemente VIII, al fine di dotare il luogo pio di un buon amministratore spirituale e temporale, data la continua richiesta di assistenza religiosa e di controllo delle numerose offerte provenienti dai fedeli sempre più crescenti, vi mandò, nel settembre 1592, per mezzo della Congregazione dei Vescovi e Regolari, padre Giovanni Leonardi della Congregazione della Beata Vergine di Lucca. Costui, giunto colà con altri sacerdoti, si immerse con indomita esattezza nel compito affidatogli dal sommo pontefice, obbedendo ciecamente agli ordini del cardinale di Sans, Nicolò di Pelve e del cardinale Alessandrino, al secolo Michele Bonello, ambedue capi della congregazione dei Vescovi e Regolari. Di lì a poco, al’inizio del 1593, egli diede inizio alla costruzione della chiesa secondo il modello e il disegno della chiesa di Santa Caterina a Formello. A fronte della fiumana dei fedeli, provenienti non solo da tutto l’hinterland napoletano, e delle immani entrate economiche, il pontefice, volendo dotare la chiesa di un governo stabile e duraturo, deliberò di affidarne la direzione ai padri regolari Teatini. Poiché questi rifiutarono l'incarico per motivi inespressi, il pontefice la concesse, nel mese di febbraio 1595, ai padri riformati di San Severo dell’ordine di San Domenico della Congregazione di Santa Caterina da Siena, di cui almeno dodici rappresentanti avrebbero dovuto inverare il piano pontificale. Ma i padri domenicani, avvertendo un notevole disagio sia per il vitto sia per la prosecuzione della costruzione della chiesa nonché del convento, chiesero la diretta amministrazione delle rendite ecclesiastiche. A questo punto scattarono numerose pretese sia da parte di Somma quale città capoluogo sia da parte del casale di Sant’Anastasia, entrambi desiderosi di ricavare qualche beneficio economico dalle rendite ecclesiastiche.....
La rievocazione è un esercizio duplice e, quindi, necessariamente ambiguo. Da una parte essa costringe, nel momento più amaro del cordoglio, a recuperare una memoria che proprio in questi istanti si preferirebbe tenere a distanza per poter elaborare silenziosamente il dolore del lutto. Dall’altra, tuttavia, la mente sente l’ineluttabilità e la cogenza di questo recupero, e proprio in questo modo comincia ad avere la speranza di poter mettere in secondo piano, o quanto meno, di attenuarne lo strazio.
Mi esprimo così di getto, dando libero corso alla vorticosa fiumana emozionale, perché risulta estremamente difficile tenere ferma l’assenza definitiva di una persona come il preside Felice Borrelli, assenza da cui comunque parte questo esercizio personale di amarezza. Il flusso dei pensieri allora sarà per me fondato sul tentativo di recuperare l’immagine complessiva dell’uomo che è diventato, in anni per me decisivi dal punto di vista professionale ed esistenziale, non un mero punto di riferimento, ma l’assoluta presenza della esemplarità del bisogno di conoscenza, nonché del sostegno affettivo, assoluto. Ancora più paradossale appare, dunque, dal momento che ho appena sottolineato la dimensione presenziale dell’uomo, dover tornare al fatto insostenibile della sua scomparsa, cioè appunto della sua assenza. E’ stato proprio lui in qualche circostanza a farmi intendere il carattere contraddittorio e lacerante dell’esperienza umana, questo suo intricato gioco di rimandi tra opposti, il cui moto ondivago improvvisamente si trasforma in tragico dramma.
Maestro sopraffino, infatti, dell’arte di leggere i testi della tradizione, ma anche a noi molto prossimi, lettore non sofisticato di assurde ed inutili astrazioni, bensì dotato della capacità di intus legere, di leggere dentro in modo empatico e dialogico la grande poesia e la grande prosa, egli aveva estratto da queste lunghe frequentazioni ermeneutiche un sapere, come dice la grande saggista spagnola Maria Zambrano, “dell’anima”. Un sapere cioè inscindibile dai battiti concreti della vita, proprio per questo attento al patirne tutte le contraddizioni, ad individuarne tutti i limiti, ma nello stesso tempo a valorizzarne le sfumature più arcane e, però, essenziali al tentativo di mettere a fuoco la condizione umana in tutta la sua problematica interezza. Tutto quello che di straordinario egli comunicava e trasmetteva era sempre attenuato e quasi ingentilito dalla sua volontà di mettere l’interlocutore a suo agio, tanto da far sembrare le sue indicazioni soltanto delle semplici e leggere note a margine. Sembrava quasi chiedere scusa di essere quello che manifestamente era: un eccezionale evocatore di verità. Ricordo l’umiltà con la quale un giorno mi chiese cosa pensassi di una poesia particolarmente indecifrabile nella sua bellezza di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Naturalmente lui aveva, nel frattempo, letto diverse interpretazioni di quel testo poetico e lui stesso ne aveva delineato una sua personale. Invece di rovesciarmi addosso, tuttavia, l’enorme ricchezza accumulata in molti giorni e notti di lettura, volle che fossi io, liberamente e senza troppi giri retorici, a indicargli uno spunto o una suggestione. Preso alla sprovvista e tuttavia avendo meditato per conto mio su quei versi, ebbi l’immensa felicità di potergli indicare, in seguito a lettura contrastiva dei versi pavesiani, il senso di luce e di liberazione dall’orrore della morte che essi mi avevano trasmesso: gli occhi della fine, di ciò che non ha volto, sono gli occhi della donna amata, ossia di chi supremamente segna il destino dell’uomo, accompagnandolo persino durante la discesa terminale nel “gorgo”. E questo basta per poter continuare ad esistere sperando. La sua commozione, nel sentire queste parole, fu immensa perché aveva individuato anche lui, ben lontano dalle lugubri e fumose elucubrazioni di alcuni sedicenti esperti, una possibilità così semplice e nel contempo così alta di redenzione.
Intanto non riesco a chiudere l’album personale dei ricordi, in quanto la pregnanza umana del preside Felice Borrelli continua a battere alle porte con indomita forza e ne spalanca gli orizzonti prospettici, sui cui nitidi orli si stagliano ulteriori testimonianze egualmente eloquenti del suo magistero che mi porta ancora per qualche attimo a spaziare indietro nel tempo. Fu, infatti, ancora lui, in momenti in cui noi giovani docenti provavamo a portare il Novecento letterario tra i nostri allievi liceali, a segnalarmi dei testi da aggiungere a questo nuovo e difficile canone che andavamo costruendo, dando prova di profondo spirito critico e aperto alle più rivoluzionarie proposte culturali. Da buon conoscitore di Leopardi, mi servì una preziosa dritta nello splendido finale di un romanzo di Carlo Cassola, “Il taglio del bosco”, dove si riverberano illuminazioni decisamente leopardiane. In tal modo il testo suggerito, che noi non ancora avevamo preso nella debita considerazione analitica, divenne oggetto di approfondite letture e di interminabili discussioni in classe, nelle quali fu coinvolto lo stesso autore, di cui conservo gelosamente il relativo intervento in originale.
Maestro non lo dicevo a caso. Maestro anche di una idea completamente diversa di scuola, fondata sul recupero della valorialità e sulla forza dell’esempio, sulla potenza della trasmissione di contenuti non effimeri e sulla necessità di impostare a tutti i livelli e con ogni mezzo il dialogo intergenerazionale, virtù che egli esperiva con disinvoltura in ogni frangente della quotidianità. Sapeva in effetti parlare in maniera chiara con tutti, adoperando la lingua che la circostanza richiedeva, ma senza mai piegarne i significati e la forza plasmatrice alla banalità di un comunicare qualunque. Per questo era sempre e fondamentalmente un uomo “integrale”, per usare un aggettivo caro a Jaques Maritain, ossia tutto ciò che era e faceva compariva nella sintesi continua delle sue parole e delle sue azioni. Nell’epoca che celebra la doppiezza come una dimensione, a mio parere, pessima della verità, lui ha , invece, sempre stroncato ogni forma di simulazione, ha messo al bando ogni forma di ambiguità, ha issato sempre il vessillo della coerenza lungo le ineludibili coordinate della saggezza classica: idem in corde atque in ore. Per questo nessuno di quelli che lo hanno conosciuto ha mai potuto veramente fare a meno di volergli bene. Io ho l’onore, per quanto attraversato dal dolore, di annoverarmi sinceramente tra quelli (Articolo pubblicato su La Tribuna, Anno XXII, 7 - 15 aprile 2010).
Formicola e i suoi casali hanno sempre costituito un solo Comune, governato da uno stesso giudice e da uno stesso barone. Non prima del 1758 il casale di Saffo realizza il suo sogno di diventare autonomo grazie agli appoggi e alle aderenze di Paolo Campagnano il quale, essendo il più ricco della provincia, grazie a questo espediente autonomistico, paga meno tasse di prima. Non a caso non si sa per quale motivo l'avvocato del Comune non rivelò i motivi che dovevano motivare o vietare l'autonomia. Su questa scia si collocò, nel 1771, il casale di Schiavi.
L'opera di Nicola Nicodemo risulta significativa nello scoprire la congiura tramata da molti ribelli, decisi ad uccidere, nella notte del 22 settembre 1701, il viceré Duca di Medina Coeli, ad occupare il regio Castello Nuovo e a consegnare la Città e regno di Napoli nelle mani delle armi austriache, allora nemiche. I fatti si svolsero in maniera diversa dal progetto: la maggior parte dei congiurati fu giustiziata nella mattina seguente del 23 settembre, il Viceré si rifugiò incolume nel real Castello Nuovo, Napoli e il regno non provarono l'onta della disfatta. Il Viceré, a titolo di riconoscenza, concesse a Nicola Nicodemo una gratificazione di tremila ducati, come si evince dal suo "biglietto" del 31 dicembre 1701. A sua volta il re Filippo V vi aggiunse la promozione dell'interessato alla carica di giudice della Vicaria con lo stipendio di mille ducati annuali. Tuttavia la vita fu avara nei confronti di Nicola, il quale morì improvvisamente nel 1704. Allora il re Filippo V, manifestando memoria lunga, concesse ad Angelo, padre di Nicola Nicodemo, i suddetti mille ducati in perpetuum e la facoltà di poterli dividere alla sua morte tra il figlio Ottavio e i nipoti, come attesta il real diploma del 26 luglio 1705. Dopo due anni, però, il 7 luglio 1777 entrano nel regno le armi austriache, le quali tolsero anche alla famiglia Nicodemo il godimento di qualsiasi privilegio. La situazione rimase identica per i ventisette anni del dominio austriaco. Nel frattempo morì Angelo. Tuttavia nel 1734 si ribaltò il dominio straniero e ciò coincise con il riconoscimento a Ottavio e Giuseppe Nicodemo, zio e nipote del giudice, il ripristino degli antichi privilegi, incentrati nei centocinquanta ducati di interesse sui tremila e nei mille ducati, documentati con real carta del 18 giugno 1734. A questo punto la guerra più aspra si accese nelle aule del tribunale del Sacro Regio Consiglio, ove i cugini Francesco Saverio Notargiacomo e Lorenza Nicodemo avanzarono la pretesa di godere dei suddetti privilegi, ritenendo di rientrare a pieno titolo nell'asse ereditario di Nicola Nicodemo.
Nel 1608 l'Università di Paduli, oberata dalle ingenti somme pagate annualmente ai creditori, si vede costretta a chiederne nel Sacro Collegio una dilazione. Particolarmente rilevante risulta il credito di Salvatore Fasulo, pari a 17.955 ducati, di cui 14.965 come capitale e 2.990 come interessi. A questo punto viene ordinato l'inventario dei beni pubblici, tra cui si annovera il bosco denominato Verdito. Quest'ultimo, dotato di case e di forni, viene valutato 18.000 ducati. La successiva controversia tra le due parti in causa si compone nel 1615 con un accordo benevolo, grazie al quale gli eredi di Fasulo si aggiudicano il possesso del sudetto bosco. Di lì a poco di apre il divario, in quanto i fratelli Fasulo pretendono altri settemila ducati per interessi inevasi, mentre l'Università si duole di essere privata del bosco. Segue un altro accordo: i creditori retrocedono dalle loro eccessive pretese pecuniarie, la cui riduzione comporta l'impegno pubblico a soddisfarla con rate annuali. Tale decisione, presa in pubblico parlamento, riceve l'assenso delle autorità superiori. Ma i fratelli Fasulo nel 1635, in occasione dell'avvento di un locale "governo amico", rivedono la questione a condizioni favorevoli. Anzi nel 1639 vendono tre parti del bosco a don Pasquale di Lisio al prezzo di novemila ducati.
2 maggio 1601. In primis si è stabilito che ogni anno nel giorno dell'Assunzione della Madonna festa proprio della chiesa di Santa Maria della Manna della terra di Agerola dello stato di Amalfi dove si trova eretta la cappella di detto Monte, si debbiano eleggere quattro protettori in esso uomini di vita esemplare e facoltosi che più presto bisognando possano con le loro facoltà sovvenire al Monte che altrimenti che due di essi assistano in Agerola e due in Napoli, purché detti assistenti in Agerola uno sia del luogo di Campora e l'altro del luogo di Pianillo, et il simile si intenda degli assistenti in Napoli. L'elezione dei quali si farà nel modo seguente: lo stesso giorno dell'Assunzione come di sopra si congregheranno nella suddetta chiesa di Santa Maria tutti quattro i patroni vecchi (se potrà essere) i quali consultati alcuni giorni prima tra loro e fatto scelta delle persone più atte al governo di detto Monte si scriveranno per mano del segretario otto nomi delle persone scelte in otto cartelle, essendo però quattro di esse del luogo di Pianillo e quattro del luogo di Campora e che quattro di essi ne assistano in Agerola e quattro in Napoli, le bussole fanno in due volte, acciò vengano compartiti e che dei due protettori assistenti in Agerola l'uno sia di un luogo e l'altro dell'altro come di sopra e così degli assistenti in Napoli. Le quali otto cartelle si poneranno per mano del detto segretario in due bussolette in due volte cioé quattro per volta e fatto cavare una di dette cartelle per bussoletta per mano di un fanciullo o altra semplice persona si leggeranno in pubblico e quelli che usciranno saranno eletti per protettori.
Nel 1506 il capitano Demetrio Capusman compra dalla Regia Corte la terra di San Marzano, posta nella terra di Otranto. La compera viene confermata dalla cedola dell'imperatore Carlo V e registrata nei quinternioni e nel cedolario. Il feudo rimane nell'ambito della famiglia dell'acquirente fino al 1639, allorché, ad istanza della Regia Corte per crediti avanzati dal fisco e da altri creditori nei confronti di Demetrio Capusman il giovane, la terra viene posta all'asta. Francesco Lopes ne diventa il nuovo proprietario al prezzo di ventimila ducati, fra i quali vanno compresi i beni burgensatici (non feudali) valutati 2530 ducati. Quindi dal re Filippo IV egli ottiene il titolo di marchese di San Marzano.....