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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
All'indomani dell'unità d'Italia, precisamente il 5 ottobre 1861, l'agricoltura in Terra di Lavoro, sebbene utilizzi ancora tecniche e metodologie antiquate, presenta condizioni generali soddisfacenti.Infatti, la produzione di grano non solo soddisfa la domanda interna, ma si proietta anche in ambito francese. Un percorso quasi analogo vale anche per l'olio. Guarda, invece, ai mercati inglese, francese e americano la robbia in seguito all'intensificazione produttiva, succedanea alla sua diffusione dal circondario di appartenenza a quello di Castellammare, nonché alla sua diversificazione, dovuta al colore più brillante rispetto all'omologa transalpina. I risultati potrebbero essere di gran lunga superiori, se ci fosse un'adeguata rete strutturale. Essa passa dalla necessità di sviluppo della rete viaria su strada, su ferro e sul mare, ad un accrescimento dei monti frumentari, essenziali per ridare respiro al contadino, costretto ad attingere le risorse finanziarie da fonti private quanto mai esose e strozzanti. Le industrie, legate all'agricoltura, riguardano l'allevamento del baco da seta, la distillazione dei vini e l'allevamento degli animali. Il primo comparto, inzialmente fecondo, si muove in un'angolatura ristretta, data l'atrofia dell'insetto. La distillazione dei vini, effettuata precedentemente con la materia naturale, al momento con il granone, particolarmente accentuata nei circondari di Nola, Caserta ed Aversa,registra tredici stabilimenti a Cicciano, cinque a Marigliano ed altri sparsi qua e là. Le maggiori richieste affluiscono dall'Inghilterra, dalla Francia e dall'America che pagano un dazio di tre ducati, pari a dodici lire e settatantacinque centesimi, per ogni pippa o botte di dodici barili. Gli animali lanuti,oltre le carni ed i formaggi, forniscono le cosiddette lane mosce, utilizzate per la confezione dei materassi e dei guanciali. Gli animali bovini, adoperati per i lavori dei campi e per il tiro dei carri in occasione dei trasporti pesanti e voluminosi, offrono la carne da macello, il cuoio e il latte, sostanza fondamentale dei formaggi chiamati Caciocavalli. Gli animali bufalini, cresciuti nei Mazzoni di Capua,offrono carne, ricercata, soprattutto, dalla povera gente in due mesi dell'anno, settembre ed ottobre,nonché ottimo e copioso latte, la cui trasformazione contribuisce alla confezione delle mozzarelle e provole, secche ed affumicate. Gli animali porcini ad ingrasso sono alimentati parte nei boschi con ghiande e parte con fave cucurbitacee e con granone: la loro carne è distribuita, fondamentalmente, nel circondario; sola una piccola parte viene destinata a quello di Napoli. L'industria manifatturiera, nella quale lavorano moltissimi operai, registra un settore dedicato alla lavorazione della seta organzina, attualmente in decremento per la malattia dei filugelli. L'attività di ben trentacinque stabilimenti procede con sei caldaie, quella di dieci con trenta; uno è dotato di una macchina a vapore. Presso Caserta spicca la real fabbrica di tessuti di seta di San Leucio, laddove i quattrocento lavoratori, di entrambi i sessi, sono specializzati a produrre stoffe, rasi, velluti, damaschi broccati, broccatelli ed altri articoli. Nel villaggio di Casolla si trovano sette colliere con sedici caldaie. Aversa si segnala per la produzione di tele, di vetri e di critalli, mentre a Piedimonte d'Alife, in virtù delle acque del fiume Torano, svetta maestoso lo stabilimento di Giovanni Giacomo Egg, addetto alla filatura dei tessuti di cotone e lino da parte dei novecento operai. Nello stesso circondario si trovano molti e rinomati lanifici per la consistenza e varietà cromatica dei prodotti: tra questi vanno annoverati quello di Polsinelli in Isola, quello di Ciccodicola e Sangermano in Arpino, quello di Zino in Carnello, quello di Picani, Lanni e Cocchione in Sant'Elia, quello di Manna e Simoncelli in Isola. A fronte di siffatta produzione non mancano le lamentele. Esse riguardano, soprattutto, l'imposta fondiaria che, raggiundendo il 5% della rendita, ne assottiglia l'introito. Alla luce di tale spaccato il coro degli operatori economici si effonde in una petizione concreta, veicolata a creare casse del credito fondiario, destinate a venire incontro alle "prestanze" agrarie, industriali e manifatturiere. Ai suddetti problemi, che costituiscono un pezzo della questione meridionale, deve rispondere la nuova classe politica con indicibile impegno, se davvero vuole cancellare definitivamente dall'immaginario collettivo il regime borbonico e contribuire a dare voce a chi è stato tartassato nel corso dei secoli.
Le difficili condizioni politiche e sociali, in cui si dibatte Lettere nell'arco di buona parte dell'Ottocento, si condensano nella vita di Andrea Ruotolo che ne rappresenta uno dei principali mestatori. Infatti, la sua intrigante presenza si avverte fin dal 1837, allorché egli, più che trentenne, prende in fitto la mensa vescovile locale, già incorporata in quella di Castellammare fin dal 1818. Ciò gli consente di entrare nelle grazie di monsignor Angelo Maria Scanzano, sotto la cui protezione egli compie ogni forma di efferatezza e di violenza, ordite nel chiuso della masseria vescovile, trasformata in triste ricettacolo di merce rubata e di delinquenti incalliti. Eletto capitano della Guardia Nazionale di Lettere, arruola i concittadini più ribaldi, nomina come ufficiali gli amici ed i loro figli. Dopo il 15 maggio 1848, sciolta la Guardia Nazionale, con spregiudicata disinvoltura diventa lo "spione" della polizia in virtù dello spazio amicale concessogli da un certo Palmieri e dal commissario Campagna, ai quali consegna denunce redatte secondo il criterio della vendetta personale ai danni degli innocenti. Dopo alcuni mesi non esita ad accogliere in casa sua il capitano D'Afflitto, deputato a disarmare la Guardia Nazionale. Nella circostanza, avvenuta il 15 novembre 1848, egli si impossessa di tutte le armi dismesse. Subito dopo fa eleggere capo urbano Michele Sabbadino sborsando di tasca propria trentasei ducati. Così il campo d'azione delle sue malefatte si allarga ulteriormente, tanto che gli onesti cittadini, non riuscendo più a sopportare questa cupa atmosfera, affidano, nel 1851, le loro doglianze al nuovo vescovo Francesco Petagna. Tali speranze liberatorie non vanno deluse, come dimostrano i due immediati provvedimenti, vertenti, rispettivamente, sulla destituzione del capo urbano Michele Palladino e sull'esilio comminato ad Andrea Ruotolo, costretto a trasferirsi ad Avellino con l'intera famiglia sotto il peso di gravissime accuse. Tutto ciò non abbatte affatto la sua indole indomita e malvagia la quale si perita a comprare a suon di denaro contante la benevolenza della "camarilla", rappresentata da Palmeri, Campagna e dal colonnello Armenio. Ed i frutti non tardano a maturare: Andrea Ruotolo, richiamato dall'esilio, viene inviato con un incarico speciale in Calabria, donde ritorna, dopo un anno, nella città natale che sprofonda nel degrado precedente. Sono pienamente consapevoli del cambio di clima moltissimi compaesani, costretti con insulti e minacce a firmare una petizione inviata al re Ferdinando II e mirata ad abolire la costituzione, dopo che è stata stilata un'apposita delibera decurionale, fatta presentare da suo cugino Onofrio Ruotolo e da un suo amico don Benedetto Cavallaro i quali vi accludono anche una nota degli "attendibili". Con indicibile facilità indossa la maschera del trasformista il 25 giugno 1860, allorché si dichiara liberale e perseguitato politico, portando a testimonianza le più recenti pagine del suo vissuto personale, esperito lontano dal suolo patrio. Così dichiara guerra aperta ai suoi nemici, compresi gli attuali decurioni i quali, memori del passato ancora bruciante sulla loro pelle, deliberano di estromettere lui e i suoi figli dall'arruolamento nella Guardia Nazionale. Gli bastano solo pochi giorni per mutare completamente lo scenario, visibile tra gli scranni dell'aula consiliare nel successivo 22 luglio, allorché il sindaco Giovanni Giordano e i decurioni, debitamente minacciati, gli consegnano le chiavi della milizia cittadina. A questo punto egli diventa il padrone assoluto di tutto.
La scena iniziale rappresenta il ventitreenne Alfonso Cerullo con la divisa di soldato borbonico battersi sul campo di battaglia contro i nemici fino alla capitolazione a Cisterna, donde si rifugia a Roma. Di qui, il 18 novembre 1860, affronta i rischi impliciti nella sua condizione di ricercato e ritorna nella sua città natale di Marano. Si nasconde per un pò di tempo nella masseria del principe di Castagneto, ove il padre lavora come colono. La sua presenza, però, non passa inosservata, per cui la soffiata di circostanza porta sulle sue tracce un comandante della Guardia Nazionale che lo sorprende nella taverna delle Pennine: gli spiana il fucile in faccia e gli intima di arrendersi. Puntando sulla sua destrezza e sulla momentanea indecisione dell'avversario, Alfonso riesce a liberarsi da quel terribile imbarazzo e si dà alla macchia nella campagna circostante. Le brevi comparse in famiglia, indotte dall'esigenza primaria di sfamarsi, avvengono con molta circospezione ed attenzione, ma non tale da farlo passare inosservato. Del resto nei piccoli paesi tutti sanno e vedono tutto, anche se, il più delle volte, non parlano. Proprio in una di queste sortite egli si trova di fronte un certo Iacobo Izzi che gli presenta Giuseppe de Maria, Giovanni Solla, Domenico Catuogno e Giovanni Volla, tutti latitanti per diserzione o renitenza. A questo punto, ritenendo di esporre anche la sua famiglia ad un grave rischio, nel mese di maggio 1861, si allontana di lì e costituisce una piccola banda. Gli approvvigionamenti avvengono da parte dei proprietari dei fondi limitrofi a Marano. Nel corso del mese di giugno ingrossano le fila il falegname Ferdinando d'Ippolito ed un suo compagno, entrambi napoletani che sono evasi dal carcere dei Granili, nonché altri tre uomini. Tutti costoro eleggono all'unanimità Alfonso Cerullo capo della banda, in quanto gli riconoscono la superiorità per l'arte dello scrivere, del leggere e del ragionare. Avendo urgente bisogno di armi, egli le chiede in prestito agli amici di Marano, tra cui Domenico de Vito, Giuseppe lo Zannuto, il sergente Fronna, Giuseppe Ruggiero, Matteo Carputo e Domenico Verde i quali non deludono le sue aspettative. Il suo nome corre sulla bocca di tutti i compaesani e diventa sinonimo di terrore. In siffatta atmosfera, il 27 giugno 1861, in cui si celebra la festa di San Crescenzo, il capitano della Guardia Nazionale di Marano, Camillo Spinosa, lo invita a presentarsi a casa sua per sciogliere la banda. Attratto dalla velata impunità, implicita nel garbato invito, Alfonso esegue quanto consigliato: consegna le armi ai reali possessori e, nella stessa giornata, scioglie la banda e si ritira nella masseria a lavorare. Dopo non molto tempo egli, annoiato dall'inazione e incalzato da ogni parte, ricompone la banda con l'adesione di quaranta uomini, provenienti, nella maggior parte, dai ranghi dell'esercito e dalle realtà regionali diverse. Infatti, dando uno sguardo veloce agli appunti personali del capo, annotiamo le identità di alcuni accoliti: Luigi Petrella e Biagio Fedele da Napoli, Crescenzo di Matteo da Pianura, Francesco Carraturo e Michele Rosselli dalla Sicilia, Vincenzo e Andrea Giuliano da Marigliano, Pasquale Panella da Pozzuoli, Saverio Perotti e Saverio Iallone da Marano, Nicodemo Ferrillo da Calvizzano, Carmine Trezzella da Nola, Luigi Casignano da Lecce, Gaetano Mincione e Dionisio Capassi dalla Basilicata. Il mentore in assoluto è certamente Macedonio de Maria il quale, vantandosi di far parte di un sedicente comitato borbonico, lo spinge a tenere duro, in quanto il re Francesco II, nel suo imminente ritorno al trono, lo ricompenserà adeguatamente. All'uopo gli manda qualche contributo per le spese più urgenti della banda la quale, da parte sua, concretizza la prassi del sovvenzionamento coatto. Così, scorrendo la relativa lista delle estorsioni, vi scorgiamo la somma complessiva di centrotrentaquattro ducati e quaranta grani, a cui concorrono, tra gli altri, il sacerdote don Mario de Magistris con venti ducati, il giudice Egidio Battagliese con due ducati e quaranta grani, Vincenzo de Martino con sei ducati, Arcangelo de Marino con tre ducati e sessanta grani, Giovanni de Marino con tre ducati e sessanta grani.Va da sé l'imposizione delle elargizioni in natura di vario genere, quali commestibili, abiti, armi e munizioni. Lo stesso discorso vale per quanto concerne i furti e le grassazioni, come quella perpetrata, il 24 luglio 1861, a danno della Guardia Nazionale di Chiaiano, ove, stando alla testimonianza diretta del protagonista, egli non partecipa, dal momento che febbricitante, assistito da due soli "guaglioni", giace "sopra un mucchio di frondi di castagne". Al ritorno i suoi uomini gli consegnano un pingue bottino di cinque o sei fucili, una tromba e una bandiera. Dopo pochi giorni, nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1861, matura la decisione di cambiare vita definitivamente. Forse, rimane coinvolto nella tempesta del dubbio circa il ritorno borbonico e non sopporta più la brutta piega di alcuni del suo seguito, dediti a "rubare e far denaro" per il solo gusto di delinquere. Così l'indomani si accomiata dai suoi uomini, dei quali molti, ben trentotto, continuano a percorrere la stessa strada sotto la guida di Crescenzo de Matteo, lastricandola di misfatti e crimini. Assapora i rigori del carcere un piccolo gruppo, nel quale si segnalano Giovanni e Gennaro Volla, Raffaele d'Amora, Luigi Corigliano e Luigi Pagano. Alcuni indossano la divisa militare, come Iacobo Izzo, Francesco Maria, Fedele Ippolito e Giuseppe Maria. Alfonso, rimasto da solo, vaga continuamente attraverso i campi per cinque o sei giorni, si sente braccato su ogni fronte, per cui alla fine non trova altra soluzione che rintanarsi in una cameretta al piano superiore dell'abitazione della sorella attigua e concomitante con la casa paterna, donde può osservare i movimenti esterni di quanti vanno alla ricerca delle sue tracce. Chiuso tra quelle pareti, trascorre il tempo dedicandosi a cucire e a filare, mettendo a frutto gli insegnamenti della sorella. L'unica sortita avviene il 4 ottobre 1863, allorché travestito da donna si reca ad ammirare il "basolato" nuovo e il palazzo recentemente costruiti nel suo paese. Purtroppo, nel suo rifugio arriva ad infiltrarsi la subdola voce dell'immancabile traditore di turno che, fingendo di preoccuparsi della sua incolumità, lo sollecita a rifugiarsi a Roma, seguendo le indicazioni superiori trasmesse attraverso due incaricati. Puntualmente, il 26 novembre 1864, questi ultimi sono sul luogo dell'appuntamento, ove Alfonso sopraggiunge accompagnato dai fratelli. I tre, saliti su una vettura, procedono alla volta di Napoli. Giunti alla barriera di Capodimonte, vengono sorpresi dalla forza pubblica la quale lo arresta, mentre i due compagni si qualificano come agenti della questura. Sottoposto a perquisizione, gli trovano addosso un fucile, un revolver, le munizioni, un coltello da caccia e alcuni documenti importanti, sulle cui note egli rievoca durante l'interrogatorio le tappe più significative della sua avventura esistenziale.
Il bilancio consuntivo di Pozzuoli, presentato l’8 novembre 1718, registra le entrate pari a 10.933 ducati, tre tarì e diciannove grana, cui corrispondono come uscite 10.930 ducati e quattro grana. Addentrandoci nel computo delle entrate, notiamo che svolgono un ruolo primario le varie gabelle che incidono sulla farina, sul caso, vino e olio, sulla carne, sul peso e scannaggio, sulla catapania, sulla confezione del pane, sulla neve, sulla portolania, sul “mondezzaro” e sulla zecca, i cui rispettivi gestori pro tempore sono Diego Folliero, Giovanni Battista Capomazza, Francesco Assante, Domenico Troja, Giuseppe Pettenato, Carlo Damiano, Geronimo di Nocera, Gennaro d’Ariano, Proculo Piccardo e Antonio Cauza. Seguono vari censi esatti da privati, tra i quali si distinguono Giuseppe Costantino, Salvatore di Costanzo, Filippo Compagnone, Matteo Iodice, la congregazione di San Filippo Neri dei mercanti napoletani, Paolo Sabatino, Francesco Adaldo, Vincenzo Volpe. Lo sguardo alle uscite, poi, ci permette, di verificare gli impegni nei confronti dei cosiddetti creditori strumentari, tra i quali la Casa della Santissima Annunziata rivendica un appannaggio di trecentoundici ducati e due grana. Oltre alla verifica finanziaria, l'esame in questione ci consente anche di recuperare alcuni pezzi del passato, costituenti l’essenza della società puteolana nel Settecento. Non a caso ben 250 ducati vanno a sovvenzionare, in termini di vitto e alloggio, i cittadini carcerati e poveri senza distinzione di sesso. Notevole risulta lo spazio dedicato al comparto religioso, ove eccellono le festività del Santissimo Corpo di Cristo, della Santissima Concezione, dei Santi Proculo, Gennaro e Giacomo che impegnano 350 ducati. Occupa un capitolo a se stante la Madonna: ella, nelle vesti di Regina del Parto, funge da protettrice suprema della cittadinanza la quale vi ricorre fiduciosa in ogni avversità. Per questo motivo la sua statua viene portata in processione per le strade cittadine quattro volte all’anno e la lampada nella cappella rimane sempre accesa. Le risorse riservate ai lavori pubblici contemplano gli accomodi alle infrastrutture viarie con i relativi canaloni sotterranei, le fontane, i ponti e le carceri. La manutenzione di cinque torri, utilizzate per la custodia delle marine, usufruisce di un budget annuo di novanta ducati. La procedura per l’elezione annuale della giunta, costituita dal sindaco ed Eletti, costa alla collettività centrotrenta ducati, in quanto presuppone la presenza del governatore con la cosiddetta squadra di campagna, deputata ad assicurare l’ordine pubblico.Attendono con gioia le festività pasquali le autorità centrali, in quanto destinatarie di un vistoso contributo, quantificato in centocinquanta ducati.
Negli ultimi tempi i nobili hanno accentuato il loro potere a detrimento della cittadinanza. L’eco si legge a chiare lettere in un ampio memoriale accusatorio, composto da trentuno punti e inviato al presidente della Regia Camera, Bartolomeo de Sierra Ossorio, il quale, in seguito a dispaccio datato 26 giugno 1704, ne attiva la relativa indagine.
Le accuse investono l’intera attività amministrativa, sempre più accentrata nelle mani nobiliari. Infatti, la recente apertura della taverna da parte di Luise de Palma si affianca alle due più antiche di Michele Cesarini e di Mario Mastrillo, ubicate, rispettivamente, al Carmine, alla dogana e nei pressi del mercato: tutte e tre godono del disgravio fiscale da trenta a quindici ducati per ogni botte di vino venduta nelle taverne e nei quindici fondaci locali, mentre gli ecclesiastici continuano a pagare sette carlini e mezzo per la stessa merce all’affittatore pro tempore.
Dei suddetti personaggi il primo sovrasta di gran lunga sugli altri, tanto che ha avuto l’ardire di spostare la fiera di San Paolino dall’antica sede, larga e spaziosa, situata alla Porta di Gesù o Porta della Regina, alla nuova del Carmine, angusta e disagevole, ove egli ha costruito un insieme di locali, impiantandovi la “chianca”, la bottega e la taverna, appoggiandole, addirittura, alle mura della città e circondandole con una siepe.
Nella elezione dei quattro Eletti i nobili mirano ad avere come colleghi o i renitenti o gli assenti o gli occupati, nominati a loro arbitrio ed in sedute insolite, per non esporre a controllo le numerose prepotenze di casta, esperite a danno della controparte.
Nelle loro mani si concentrano la usurpazione di centinaia di moggia del bosco demaniale, situate nella località denominata ai Punti di Nola, i crediti fiscalari e strumentari, la esazione delle gabelle, l’esercizio monocratico delle cariche di baglivo, cancelliere e razionale del Monte di San Felice, cariche che, sulla carta, dovrebbero essere ricoperte da tre persone.
Vi si avverte il segno negativo dell’avvocato Giulio di Palma, le cui sedicenti mansioni collettive, pagate dalle casse pubbliche, conoscono solo gli interessi privati
Il governo militare alleato, sub regione di Resina, il 9 ottobre 1943, nomina come commissario prefettizio di San Giorgio a Cremano l’avvocato Eugenio Amendola, il quale, iscritto al partito socialista fin dal 1898, paga il suo tributo ideologico con la persecuzione e la persecuzione durante il ventennio fascismo. Egli dovrebbe sostituire gli avvocati fascisti Francesco Sparano e Giuseppe Cardini, rispettivamente, commissario e vice commissario prefettizi.
A fronte dell’atteggiamento dilatorio della prefettura, l’avvocato Eugenio Amendola, il 4 novembre successivo, presenta le dimissioni al governo militare subregionale, il quale le respinge.
A sorpresa la prefettura, il 22 dicembre 1943, nomina come commissario il ragioniere Salvatore Ambrosio, iscritto al partito fascista fino al suo scioglimento e impiegato al consiglio provinciale delle corporazioni alle dipendenze del gerarca Tecchio.
Venuto a conoscenza di ciò, il governo militare invita l’Amendola a rimanere in carica, mentre la prefettura gli chiede, l’8 febbraio 1944, di dare attuazione all’insediamento di Ambrosio nella carica di commissario. L’interessato ottempera all’ordine prefettizio.
Puntualmente giunge la netta e intransigente interdizione da parte del comitato di liberazione che, messo alle strette dall’ulteriore diniego di Amendola, nomina, il 13 aprile 1944, il dottor Salvatore La Campa sindaco di San Giorgio a Cremano.
L’iter riserva ancora la sorpresa finale: nel momento in cui ulteriori indagini portano a galla di quest’ultimo l’appartenenza al partito fascista fino al suo scioglimento, il comitato ritorna sui suoi passi, fa le dovute pressioni su Amendola e lo induce ad accettare la nomina di sindaco.
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