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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Masto Libò, viata chella mamma che te facette: se vede propeto ca saje fravecà pulito a sto curzo de via nova a l’ausanza de l’antiche Romane. E lo vero ca lo ngigniero e lo screvano s’hanno penzato de t’appilà la vocca co sta palata de pane muscio, pe non fa dà la voce a li guagliune c’ancappano le prete a lo manganiello, ma è lo vero purzì ca tu da viecchio cane guardiano non te sì stennuto a lo sole pe te la menà n’canna: la tiene pesola pesola mpont’a li diente, vuote ll’uocchie attuorno, murmuliie e truone n’cuorpo, e non t’arresulisce de nce dà no muorzo pecchè non si frabutto e manco magna magna o secuteme chisso; sì de taglia antica e de core apierto: e pecché staje a panza sazia, guancie ma non te chiave ncuorpo sta scorza co la merca, abbrusciata e chiena de vrenna; puorte nnanze l’opera e magne pane de lo meglio sciore de Farina. Ebbiva masto Liborio.
Il ministro dei Lavori pubblici Luigi Giuva, con decreto regio del 24 ottobre 1860, nomina Luigi Settembrini direttore generale del suo dicastero. L'interessato, nella stessa giornata, reclina l'incarico con questa bellissima lettera che può essere definita una preziosa lezione di vita,valida ieri e oggi: "Signore, Ella mi ha comunicato un Decreto che mi nomina direttore del ministero dei lavori pubblici. La ringrazio dell’onore che m’ha voluto fare; ma per molte ragioni non posso accettare questo uffizio; e gliene dirò solamente una e la più semplice. A mio vedere ogni onesto uomo deve fare quello che egli sa fare: ed io non sono uno di quei pochissimi che riescono bene in tutto, né sono di quei molti che pretendono di sapere tutto. Non ho le cognizioni tecniche necessarie ad un Direttore dei lavori pubblici, e non potrei, senza danno pubblico e senza rimprovero della mia coscienza, togliermi un carico maggiore delle mie forze. Però la prego di accettare la mia rinunzia. Servitore Suo". F.to Luigi Settembrini.
MEDICI: 1) Allegrande Francesco, via San Giacomo 19, quarto piano; 2) Calabrese Antonio, pallonetto Santa Chiara; 3) Gabozzi Gennaro, cortile Santa Chiara n. 3; 4) Gabriele Giovanni Battista, vico Tre Re a San Tommaso n. 4; 5) Guida Gaetano, vico Quercia n. 9; 6) Lanza Pompeo, palazzo Maddaloni; 7) Maroder Antimo, vico San Giuseppe n. 6; 8) Mengozzi Giovanni largo San Domenico n. 17; 9) Margotto Valentino, largo Trinità Maggiore n. 18; 10) Prudente Francesco, largo Belle Donne n. 6; 12) Semmola Giovanni, Trinità Maggiore n. 6; 13) Semola Mariano, Trinità maggiore n. 6; 14) De Tomasi Luigi, calata San Severo n. 27; 15) Vorgari Achille, via Nuovo Monteoliveto n. 10. CHIRURGHI: 1) Coluzzi Agnello, SAN Sebastiano n. 65; 2) Iacono Pasquale, strada Santa Chiara n. 3; 3) De Santis Tito Livio, Cisterna dell’Olio n. 13; 4) Cisterna Saturnino, Cisterna dell'olio, n. 13; Salvia Vincenzo, Calzettari alla Corsea n. 37; 6) Testa Giuseppe, palazzo Maddaloni n. 6. AVVOCATI: 1) Bove Francesco; Beneventano Francesco Valerio, Cisterna dell’Olio n. 18; 3) Barra Michele, vico Carogioiello n. 21; 4) Conzo Vincenzo, Sant'Anna dei Lombardi n. 15; 5) Castellano Errico, Sant'Anna dei Lombardi n. 44; 6) Cangiano Francesco, largo San Demetrio n. 1; 7) Cacace Tito, strada Fiorentini n. 67; 8) Farina Giovanni, Cisterna dell’Olio n. 5; 9) Guida Michele, Cisetrna dell'Olio n. 3; 10) Lauro Agostino, strada San Giuseppe n. 24; 11) Licenziati Filippo, vico Ecce Homo n. 9; 12) Nisticò Antonio, Carrozzieri a Monteoliveto n. 24; 13) Paladino Nicola, Strada Corsea n. 83; 14) Trapani Raffaele, Cisterna dell’Olio n. 44; 15) Zerbi Domenico, strada Monteoliveto n. 56; 16) Cortese Paolo, strada Corsea n. 65; 17) Miletti Fortunato, vico 2° Foglie a Santa Chiara n. 33; 18) Giovane Gennaro, discesa San Tomaso n. 23; 19) Degni Barone Antonio, Cisterna dell’Olio n. 13; 20) Fabiani Trinità Maggiore n. 32; 21) Imbimbo Stefano, Trnità Maggiore; 22) Lemetre Michele Trnità Maggiore n. 31; 23) Russo Galeota Mario, Vico Nilo n. 32; 24) Torrusio cav. Domenico, Strada Incoronata; 25) Minasi Domenico, Carrozzieri a Monteoliveto n. 36; 26) Tarantino Leopoldo, Calata San Severo n. 17; 27) Zappulli Michele, strada Corsea n. 54.
Il gorgo, l’abisso che il moralissimo ed onestissimo governo dei moderati ha scavato al tesoro deve colmarsi tutti ne convengono: non è possibile che la finanza di uno Stato nuovo sia annualmente equilibrata a furia di prestiti di centinaia di milioni; due mezzi possono impiegarsi per evitare un così grave danno, cioé creare nuove tasse, accrescere le antiche e procedere arditamente con le radicali riforme ad una severa economia. Il Ministero, (per quanto vediamo dall’elenco delle leggi da presentarsi al parlamento) non si periterà di accrescere il prodotto delle vecchie imposte, di stabilirne delle nuove, ma in riguardo all’economie non ci pensa neppure. L’economia esigerebbe che si falciassero tutte le erbe parassite dei bilanci, che si riducesse l’effettivo dell’esercito senza però toccare ai quadri, imperocché non sappiamo comprendere a quale scopo si debba mantenere un grande esercito, se niun pericolo di guerra ci minaccia? Tante braccia tolte all’agricoltura ed all’industria, tanti giovani tenuti a poltrire nell’ozio delle guarnigioni mostrano sempre più nei ministri della moderazione l’assoluta incapacità di governare e nel tempo stesso la paura che hanno del popolo. Non giova illuderci: i moderati non faranno la guerra, se non ricevono gli ordini da Parigi; la questione di Roma secondo il nuovo vangelo della consorteria deve sciogliersi con la pressione dell’opinione pubblica e il solo parlare di Venezia e del quadrilatero eccita nei moderati spavento e sgomento ............... Non sembra vero, ma è così, la riscossione delle imposte dirette e indirette costa enormemente al tesoro quasi il quinto del prodotto. Ora perché non imitare la Francia su questo subbietto? In Francia le spese di percezione d’imposte non oltrepassano il sette per cento sul ricavo e nel tempo stesso i ricevitori sono altrettanti banchieri ............................. Ma che importa ai nostri ministri che vada tutto in ruina: essi devono governare e basta: cada il mondo ma si ritenga il portafoglio. Oh chi avrebbe mai osato predire che la patria di Machiavelli, di Romagnoli, di Melchiorre Gioja e di Filangieri sarebbe venuta in balia d’un Minghetti, d’un Venosta e d’un Peruzzi – Spaventa?
Non avrei mai creduto di dover partecipare ad un cerimoniale funebre alla memoria di Aldo Giordano. Infatti egli rappresentava una parte sostanziale di me stesso, con cui svolgevo il passato, elaboravo il presente e progettavo il futuro al di là di qualsiasi ostacolo naturale e secondo i canoni di una feconda amicizia. Invece il feretro mi richiama alla dura realtà con l’ineludibile mistero della morte contro il quale invano impazza la ragione.
A questo punto, trattenendo a stento le lacrime, attivo le vie del cuore al fine di trovare il senso vero, autentico e caratterizzante la vita di Aldo nelle sue dimensioni più profonde. Del resto lo impone questa partecipazione massiccia di pubblico, accorso per tributargli l’estremo omaggio. Per lui non valgono i versi foscoliani: “sol chi non lascia eredità d’affetti, poca gioia ha dell’urna”, semmai gli altri incentrati sulla “corrispondenza d’amorosi sensi”, grazie alla quale “si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi”. Proprio attraverso la fase dialogica si irradia in pieno la personalità di Aldo incentrata nella consapevolezza piena della sua identità umana e nel senso spiccato dell’appartenenza, esperite, all’interno e all’esterno delle pareti domestiche, con le virtù della bontà, della genuinità e della semplicità, in cui Francesco de Sanctis vede la forma esplicita della vera grandezza.
Così irrompeva nei pensieri di Aldo il sentimento della famiglia nella sua accezione più vasta e più coesa del termine, partendo dall’immanente, in cui la signora Rita costituiva il refrain costante, lungo il quale scorrevano i nomi dei figli, nipoti e tutti gli altri numerosi componenti. A questo punto egli valicava gli stessi termini temporali, dato che giustamente determinati vincoli affettivi sono eterni. Nelle continue carrellate rievocative non ho mai visto un figlio così affezionato al padre Armando, di cui conosceva a menadito i numerosissimi articoli pubblicati sulle singole riviste. Rimane ferma davanti ai miei occhi la sua gioia sprizzante in alcune circostanze, nelle quali egli riannodava il vincolo con qualche suo antico familiare: la descrizione di alcuni momenti storici sangiuseppesi contenuti qua e là nei miei libri, in cui campeggia la figura di Michele Giordano, suo avo; la pubblicazione del testo su Annibale Giordano da parte di Attilio; l’intitolazione di uno dei due istituti tecnici commerciali locali proprio ad Annibale Giordano. Da queste manifestazioni, speculari di una spiccata sensibilità, abbiamo la caratura effettiva dell’uomo.
Con la stessa disponibilità d’animo si proiettava il suo rapporto con la collettività nostrana, che ha perso un pezzo importante. Chi lo ha conosciuto ha potuto ammirarne l’ampiezza culturale e valoriale. Egli aveva innata l’attitudine ad accendere l’immediato colloquio e nelle forme più opportune, da quella più impegnata a quella più quotidiana. La stessa professione diventava occasione per dialogare a tutto tondo con l’interlocutore che non veniva mai considerato cliente, ma persona. Non a caso aveva la parola appropriata per tutti.
Persino gli stranieri trovavano in lui un valido punto di riferimento. Spesso, se per caso non lo vedevano in farmacia, lo cercavano dicendo: “Dove sta il dottore?”. Ed il rituale, iniziato con l’attesa e con l’incontro, si concludeva con l’inveramento dei versi manzoniani “Doni con volto amico, con quel tacer pudico che accetto il don ti fa”.
Caro Aldo, noi con i cuori gonfi di lacrime, alzando lo sguardo al cielo, ti ringraziamo di averci dato questa testimonianza di vita ispirata a grandi valori. Abbiamo capito ciò che stai dicendo in questo momento: adesso tocca a noi tutti l’obbligo di non fare spegnere la fiamma di siffatto patrimonio.
Caffettiere: Mannaggia tutte ll’uommene che non teneno parola! E comme, neh, Mast’Aniè? Nce aje abbandonate? Che bonora è; non te si fatto vedè cchiu? Mezarecchia: Ppi! Amante povere, amice perdute. Mast’Aniello s’avarrà fatte li denare e pecchesto ..... Ciabattino: Iavete a fa ....... mo si, che ve nce mannaria Foregrotta ........ Io sto co li cancare ‘ncapo e buje me stuzzecate appriesso. Mezarecchia: Ch’è stato? Che t’è socciesso? Ciabattino: E che m’ha da soccedere! E’ meglio che non chiacchiarejo, ca sto co lo beleno a lo musso, e si chiavo no muoro a uno mme faccio venì lo naso mmocca ...... Caffettiere: Mast’Aniello mio, non te ‘ntossecà cchiù; teh, vivete sta presotta de spireto de vrovine, e accònciate la vocca. Sbafa, sbafa co nuje; ca te sentarraje alleggerì lo stommaco. Ciabattino: E ca pe sto sbafà che aggio fatto co buje io sto co na persecuzione ‘ncuollo de nova specie. Io non saccio che mìè socciesso. Chi mme vo fa, chi mme vo dì, chi m’abbotta de maleparole da cca, chi m’ammenaccia da llà ..... e pecché, neh, e pecchhé?? Ca io parlo troppo ch aro e dico la veretà comme mme sento. E sto parlà sinceroha ‘ntoppato lo naso li nemice de la veretà, a li cuorpe de ‘mpostura e de boscia. Caffettiere: Uh! Mmalora! Io sentette parlà de na cosa; che saccio ..... de no sciabacchino che era stato secotato la semmana passata pe Toledo; ma non poteva maje ‘mmagenereme ca tu jere sto sciabacchino. Ciabattino: Fuorze volarraje dì Ciabattino? Caffettiere: Se, se Ciab ... Ciabattino!! Se, se!! ... ma tu che nce aje che spartere? Tu si solachianiello e non Sciabattino .... Ciabattino: E solachianiello e ciabattino è la stessa cosa .... Nzomma pe te fa capace, so stato io, che aggio passato tutto chesto, pecché ca parlo ‘nfaccia e chello che aggio da dì a uno non ce lo mmanno dicenno. Mezarecchia: Povero Mast’Aniello! Mme dispiace ca pe bia nosta ... ma chesto non mme fa capace: doppo che tu avisse fatto male a parlà, me pare ca nce sta la legge, e la legge (comme sentette di quanno io era Calibardino) è eguale pe tutte! Pecché addonca non se fa sta legge pure per tte, senza fa tanto chiasso e tanto rommore? Caffettiere: Ma caro Mast’Aniello, ll’aje voluto tu, agge pacienza! Tu chiacchiarie sempe comme a no riazionario, pecché cierte cosarelle sarria meglio a non dirle, e tu a lo contrario parle, parle e parle senza riguardo. Ciabattino: Nzomma la libertà de la stampa pecché nce stà? Forze per dicere solamente chello che buò tu o chello che bò Mezarecchia? Embé, tu dice ca lu governo borboneco era tiranno pecché non boleva fa parlà liberamente, pecché voleva che tutte quante avessero penzato de una manera, e che mo ognuno po dì li sientimente suoje senza paura de ji dint’a le quarantaquatto? E si io non pozzo parlà commme mme lo sento, ‘nche consiste stà libertà d’opinione? Caffettiere: ma tu a le bote parle troppo arraggiuso. Ciabattino: Chi magna fa mollica, se sole dì. E se io compatisco a ll’autre che te jettano cierte chacchune che meretarriano d’essere ‘mpise, non cìè niente de male che non se jesse tanto trovanno lo pilo dint’aa ‘lluovo co mmico, che so poveriello sì, ma cetatino libero comm’a tutte quante ll’autre; e si parlo, parlo ca nne tengo ragione da vennere, pecché mme veco affritto e paccariato senza averence nisciuna corpa. Veco la patria mia arredotta de sta sorta de manera, appezzentuta, sfavecata, annabbessata, e pecché? pecché? E bolite che io mme sto zitto e dico che tutto va buono? Non sarrà maje! Io desidero che la patria mia fosse felice, che tutte stessero contiente, che non ce stessero ‘ngiustizie, che ll’uommene fossero frate, ma veramente frate, frate fedele comm’a Abele e no comm’a Caino..... (Dal giornale "Il Ciabattino")
Vincenzo Ferrara quondam Fiorillo, Antonio de Anna, Giuseppe Zamparello, Giovanni Domenico de Afeltro, Ottavio Monticello, Lutio Alvino, Matteo Valentino, Andrea Ponticello, Giovanni de Fuccia, Ottavio Cortese, Minico Palmentiero, Paolo Mastronso, Simone Ferrara, Iacobo de Anna de Marco, Filippo Casolaro, Sibio Ferrara, Cesare Russo, Andrea de Luca, Minichello Ferrara, Maurello Fontanella, Gennaro Casolaro, Innocenzo Abate, Andrea Rocchino, Marco Ponticello, Lelio Zamparello, Adezio Mingola, Carlo Russo, Alfonso de Alesio, Iacobo de Andrea, Giulio Marcello de Anna, Giovanni Andrea de Luca, Vincenzo Abate, Ludovico Russo,Tiberio de Loysio, Iacobo Russo, Palmerio Prezioso, Nardello Cortese, Giovanni Abate, Minico Russo, Agostino Rocco, Carluccio Casolaro, Ottavio Casolaro, Paolo Ponticello, Fabrizio de Anna, Antonio de Ligorio, Amperio Russo, Benedetto Pisa, Salvatore Russo, Orazio Russo, Stefano de Rosa, Pirro Loysio Abate, Battista Ferrara, Francesco Ferrara, Marco Antonio Russo, Ottavio Migliore, Pompeo Vergara, Donato de Vita, Giovanni Paolo Russo, Francesco Ponticello, Benedetto Cortese, Romualdo Ponticello, Filippo Abbate, Vincenzo Ferrara quondam Nicola, Giovanni Russo quondam Simone, Ottavio Abate, Pompilio de Alesio, Riccio Russo, Nicola Casolaro, Adetio de Anna, Vincenzo de Angelo, Annibale Casolaro, Adetio Ferrara, Ascanio Russo quondam Maurello, Iacobo Alvino, Giuseppe Fontanella, Fabio Russo, Fonso Russo di Andrea, Adenasio Ferrara quondam Mauro Antonio, Giovanni Andrea Prezioso, Sabatino Mastronso, Fabiano Prevete, Berardo Mastronso, Pascarello Cortese, Pascarello Cortese, Novello Casolaro, Giovanni Mario Russo, Giuseppe Russo, Orlando Casolaro, Mucio Casolaro, Ovidio Ferrara, Giuseppe de Natale, Ascanio Russo, Giovanni Andrea, Simeone e Andrea Fontanella, Antonio Cirillo, Menico Ponticello, Carlo de Vita, Battista Russo, Francesco Idisco, Donato Astone, Giovanni Domenico Fastone, Scipione Sorgente, Giovanni Sorgente, Menico Russo, Scipione Russo, Ottavio Russo, Minico Ottavio Russo quondam Pascarello, Attilio Teverola, Giovanni Iacobo de Luca, Giovanni Antonio Ferrara, Adezio Russo, Giuseppe Cortese, Stefano Cortese, Alfonso Ciaramella, Cesare Ciaramella, Marco Taurella, Maurello Caruso, Geronimo de Ambrosio, Orazio Russo de Ascanio, Francesco de Vita, Pompeo Mingolo, Tommaso de Luca, Donato Valentino, Carlo Abate, Paolo Abate, Scipione Ferrara, Francesco de Luca .......... (Luigi Iroso, Casoria alla luce del Sole, 2012).
......... Poco dopo, in uno scenario viario rinnovato, lo sparo dei fuochi pirotecnici annuncia l’avvento in Casoria del cardinale Giuseppe Spinelli il quale, a monte della visita pastorale, ha ordinato ai parroci di preparargli in anteprima una dettagliata relazione sulla chiesa di propria competenza. Sulla scorta di questi importanti documenti, ci confondiamo nel corteo cardinalizio e ci avviciniamo alla collegiata chiesa di San Mauro, la cui facciata, estesa su uno spazioso terreno, presenta tre porte, la grande al centro e le due piccole lateralmente. A destra si eleva il campanile di piperno, sulla cui sommità svettano tre campane, una di dieci cantare, la seconda di cinque e la terza di due. Il frontespizio si caratterizza per la varietà cromatica che avvolge anche le sottostanti immagini dei Santi Pietro, Paolo, Mauro, Nicolò Pellegrino e Filippo Neri. Naturalmente entriamo attraverso la porta centrale spalancata e sull’uscio con tono deferente compie gli onori di casa il cinquantenne preposito don Paolo Russo, il cui servizio parrocchiale dura da tredici anni. Gli sono vicini i coadiutori don Giacomo d’Arco e don Matteo Costabile. Al primo impatto colpisce l’ariosità degli spazi interni, che si effondono in lunghezza centonovantasette palmi e in altezza ottantaquattro palmi, solcati dalla policromia degli stucchi e degli intagli, la cui linee armoniche, dispiegandosi in direzione opposta per tutto il perimetro murario, confluiscono nel coro di noce con due ordini di sedili, ove, in quello superiore, siedono il preposito curato, il parroco e i canonici. Sovrasta il quadro della Santissima Vergine con San Mauro e altri santi, opera di Domenico Vaccaro. In questo spazio vuoto talora viene spostato l’organo mobile, altre volte allocato nella cappella di Santa Maria di Monserrato. Nella parte immediatamente anteriore, circondata da un’ampia balaustrata di noce traforata con tre gradini ed altrettante porte, troneggia l’altare maggiore nella sua varietà marmorea, impreziosita ulteriormente nella fattura del tabernacolo con l’aggiunta di pietre di lapislazzulo e con la portella di argento con le relative chiavi. All’interno le ostie consacrate si conservano in tre pissidi d’argento. Corrono su entrambi i lati nove cappelle, disposte cinque a destra e quattro a sinistra secondo il corrispondente schema: Santa Maria di Monserrato, San Giuseppe, San Tommaso Apostolo, San Felice in Pincis, San Francesco d’Assisi, San Rocco, Santissimo Rosario, Santa Maria di Loreto e San Lazzaro, Crocifisso e San Mauro: tutte sono dotate di sepoltura riservata ai componenti della famiglia proprietaria della cappella, tranne i bambini morti senza battesimo, sepolti nel giardino della chiesa. La calda parola dei predicatori, soprattutto, quaresimali trova la giusta base di emissione nel pulpito di legno, mentre l’acqua benedetta, rinnovata ogni sabato, è conservata in due grandi fonti marmoree “di broccatello di Spagna”. Tra queste stesse mura si trova la congregazione laicale di Santa Maria della Pietà con la omonima cappella, sul cui altare di marmo spicca il quadro della visitazione di Maria Vergine con la cornice di oro. Il suddetto oratorio, che misura in altezza trenta palmi, in larghezza trenta e in lunghezza cinquantaquattro, è dotato di molti sedili di noce, idonei ad accogliere i 218 confratelli, adusi a riunirsi ogni domenica mattina per recitare le orazioni religiose, per ascoltare il commento del vangelo da parte del padre spirituale don Tommaso Gallucci e per pronunciare gli atti di fede, speranza, carità e contrizione, sigillati dalla recita di alcuni pater e ave per la chiesa, per il sommo pontefice, per il cardinale e per il re. Ogni prima domenica del mese i confratelli, dopo la liturgia rivolta al suffragio dei defunti, si confessano e si comunicano. Nelle cerimonie ufficiali essi indossano i camice, il cingolo e la mozzetta di colore violaceo con le imprese di Santa Maria della Pietà d’argento. La parte amministrativa è nelle mani del superiore e di due assistenti, eletti annualmente dal consesso generale, alla presenza del preposito della Collegiata e del padre spirituale, dopo la festività della visitazione della Madonna. I nuovi responsabili a loro volta nominano “gli ufficiali subalterni”: quattro delegati a visitare i confratelli infermi, cui vanno consegnati in regalo polli e dolce; due a custodire gli abiti, l’argenteria e altro; quattro a raccogliere le elemosine per la celebrazione delle messe per le anime del purgatorio; due ad aprire e chiudere le porte della congrega, mentre si svolge l’assemblea. La rielezione di costoro non può avvenire, se non è trascorso almeno un triennio. Quanti si macchiano di qualsiasi mancanza, puntualmente ripresi dal padre spirituale, devono ripercorrere il tragitto della riammissione deliberato dall’assemblea generale. L’accoglienza comporta l’espiazione della penitenza e l’esercizio della meditazione suggerita dal padre spirituale. Nello stesso locale si riuniscono, nel pomeriggio domenicale, i cento confratelli della congregazione della Dottrina Cristiana, dedicata ai principali misteri della fede cristiana, la Santissima Trinità, l’Incarnazione del Verbo e il Santissimo Sacramento. Vi fanno parte, anche se solo nominalmente e in funzione esclusiva del godimento delle indulgenze, quindici donne. All’interno della cappella della Pietà, familiarmente rievocata con il nome di Cappellone, vi è quella della Santissima Concezione: l’altare, interamente di marmo, tranne la mensa e il paliotto, è sormontato dal quadro del Vaccaro. A questo punto si slarga l’accesso alla sacrestia la quale, costruita a volte, misura ventisei palmi di altezza e trenta di lunghezza. A destra e a sinistra, due mense arroccate al muro custodiscono gli apparati sacri; adempiono analoga funzione i vari stipi in legno disseminati ovunque. Qui sono custoditi i registri dei defunti, dei battezzati e dei matrimoni. Il primo registro dei defunti è andato perduto, il secondo parte dal 4 gennaio 1634. Il primo registro dei battezzati inizia dal 14 maggio 1564, il corrispondente dei matrimoni dal 20 agosto 1566. L’attuale grandezza della chiesa va scritta a merito del parroco don Antonio Abbate, come si legge nell’epigrafe incisa dietro il pilastro dell’altare maggiore. Alla grandiosità strutturale della Collegiata corrisponde la sua estensione territoriale. Essa, registrando 4387 parrocchiani, di cui 2196 uomini e 2191 donne, compresi i cinquantotto sacerdoti secolari e il diacono facente funzione di maestro di scuola, don Giuseppe Parisi, si effonde in un raggio molto vasto e confluisce nelle prominenze dei cinque paesi limitrofi: infatti, verso Cardito funge da limite estremo la masseria dei Miracoli, verso Arzano l’osteria dell’Agnello, verso Afragola la via Longa che si dilunga da Poggioreale fino alla stradetta prospiciente l’osteria di San Pancrazio, verso Casavatore la cosiddetta Cupa. Attraverso questo lungo tragitto, che delimita l’ottina o parrocchia della Collegiata, procede la solenne processione con la statua di San Mauro in occasione della festività del Santo Patrono, il 15 gennaio, e, soprattutto, nella seconda domenica di luglio, in cui si celebra la traslazione delle ossa del Santo a Casoria: apre il corteo il lungo stuolo dei canonici, dei sacerdoti e dei confratelli della Congregazione della Pietà, le cui preghiere, recitate o cantate, rinforzate dal sonoro seguito del popolo festante, ne rimandano l’eco per tutta la cittadinanza .............. (Estratto dal libro: Luigi Iroso, Casoria alla luce del sole, 2012).
Se si fosse fatto un coscienzioso scrutinio nel ramo giudiziario non si sarebbe avverato, in danno della giustizia, il serio malanno di far rimanere al potere di cariche eminenti soggetti esecrati per fatti immorali e pravità politiche senza meriti e di brutte caste. Tra costoro occupa il primo posto il famosissimo satellite del dispotismo Gennaro Sauchelli, attualmente presidente della Gran Corte di Benevento, gesuita d’indole e per educazione dotato della natura dal funesto dono di malvagità non comune. Egli sortiva i suoi natali da una illecita tresca in cui viveva sua madre, domestica nella casa Morra. E come spia del ministero Delcarretto, e per i rapporti del padre naturale entrò nella carica di giudice del circondario di terza classe. Avvezzo quale delatore agli arbitri, abusò sempre del potere e confuse l’amministrazione della giustizia con i capricci delle sue sbrigliate passioni, per soddisfare le quali calpestando ogni diritto divino ed umano si disfece del proprio coniuge propinandole potente veleno. Col suo saputo bigottismo e farisaico modo ha sempre avuto l’arte di sapersi mascherare e smaltirsi con i colori dei tempi …….. Ma però si tradiva in Catanzaro quando qual Giudice di quella Gran Corte Criminale fu il Commissario delle cause politiche appalesandosi il magistrato più efferato nelel condanne per reati di simil natura. Si rammenta con orrore la causa giudicata da quella Gran Corte per rinvio contro un tale Ameriduri di Gioiosa imputato principale di tenere in propria casa riunione settaria. Il Sauchelli commissario diede il suo voto di non costa per Ameriduri perché ricchissimo ….. mentre per i gregari votò pel costa colla pena di 25 anni di ferri, perché poveri …… Sapienti pauca!!! Fu pure in Catanzaro commissario di quegli infelici contadini che si recarono nel Campo ove avvenne il conflitto coi Regii, e quantunque assodato si fosse che erano andati per elemosinare, pure votò pel costa con trenta anni di ferro. Questi tratti di ingiustizia e di empietà gli valsero di merito, per lo che acese al posto di Procuratore generale. Trapiantato in Potenza colle sue scaltrite arti commise cose orribili e da non credersi nelle lacrimevole occasioni del flagello del terremoto. Basta riscontrare i rapporti che a quell’epoca a suo prò faceva l’aborrito Intendente Ajossa soggetto dello stesso suo calibro. Non appena giungeva in Avellino, ove da Potenza venne traslocato, si unì a filo doppio colla celeberrima spia e lenone dell’Ajossa, il tristissimo giudice Cav. Ferdinando Giannuzzi e facendo con costui causa comune, ebbe la sfacciataggine definirlo appo il Governo pel primo giudice della Provincia, raccomandandolo con peculiari rapporti al ministero per magistrato Collegiale. Per brevità si tralasciano altri orrori fatti e si rammenta solo quello avvenuto in Avellino verso il 22 giugno decorso anno 1860 contro l’impiegato di quella procura civile sig. Matteo Stisi ………………. Ed intanto questo mostruoso germoglio dei figli di Adamo, rovina e desolazione di tante famiglie per aver condannato tanti liberai alla morte e ai ferri si fa non solo rimanere ancora sui seggi della Gran Corte Criminale, ma per meglio incoraggiarlo nel malaffare se gli affidano delicati incarichi come quello di Commissario ripartitore della Capitanata. Misera provincia! Sarai da lui spogliata ed oppressa. E già te ne ha dato l’esempio col aver fatto nominare per suo assessore Vitagliano di Benevento di lui fido lenone e tristo come lui. Domenadio è stanco delle nequizie di questo uomo e si spera che il Governo provegga contro di lui.
Disgraziatamente per la nostra patria gli uomini del potere o non sanno o non vogliono rimediare ai mali che vanno man mano ingigantendosi, non trovando nulla che li combatte. Il Borbone quindi ed i Borbonici, acquistando sempre più coraggio, fanno i fatti loro palesemente, e noi? E noi facciamo chiacchiere e sempre chiacchiere. La reazione s’ingrossa nelle provincie, forma i suoi reggimenti, dà battaglia, mette a sacco e distrugge, e non si pensa a reprimerla energicamente. Vuolcisi dare ad intendere che sono bande di briganti mentre sono quasi tutti soldati borbonici feroci ed istruiti nel maneggio delle armi comandati dai loro ufficiali istruiti quanto ogni altro nell’arte della guerra. Se prontamente non si accorra e si distrugga fino all’ultimo reazionario, se non si faccia giustizia e si ponga in opera tutto ciò che può far conta la popolazione (Iddio nol voglia), quando men l’aspettiamo vedremo invasa la nostra bella Napoli e rinnovate le sanguinose scene del giugno 1799!!!! Signore di San Martino nelle vostre mani raccomandiamo la nostra tranquillità, il nostro avvenire! Leggiamo dalla Democrazia: La nostra Città vede sui colli di Castellammare e di Portici sventolare l’aborrita bandiera borbonica, cosa concepibile, oltre ogni dire insultante il governo e il popolo, che dovrebbe scuotere entrambi ad agire con più energia. Sì, i reazionari evasi dai Granili si aggirano su quei luoghi e minacciano strage e morte ai coloni. Intanto che si fa per snidarli? Un giorno o l’altro essi si presenteranno tra noi e si lasceranno passare. Ecco il felice stato delle nostre provincie. Intanto la solerzia del commendatore e segretario generale dei due dicasteri dell’Interno e Polizia, il sig. Silvio Spaventa, starsene inerte al cospetto di cosa cui reprimere e di sacro dovere, di cui la pubblica opinione mai non desiste di domandargliene conto. Avant’ieri molte pinzochere si misero a gridare al miracolo, al miracolo. A quella voce accorsero molta gente, e siffattamente accrebbesi il concorso che avvisatane la Piazza fu spedito sul luogo il colonnello Sarmento acciò riferisse sul fatto, e già quelle stupide, per non dire tristi e meretrici, avevano acceso candele e si erano prostrate innanzi un’immagine nella cappelletta sita alle spalle della Vicaria, e precisamente al punto ove si noleggiano le vetture per Aversa. Là presso, sul ponte di Casanova, erano circa cento Militi Nazionali che si esercitavano nelle armi. A quell’annunzio si portarono sul luogo e dispersero quell’ammutinamento. Questi erano condotti dagli ufficiali dell’8 battaglione, signori Michele Camerlingo e Gaetano Manzanillo, nonché dall’ex Luogotenente dei Garibaldini Luigi Gargiulo. Se quel tumulto non fosse stato testé sedato, niuno a cosa avrebbe condotto, ci siano d’esperienza gli ultimi fatti di Caserta, e veggano i nostri governanti di quali armi usano i nostri nemici onde gettare il paese nell’anarchia e nel subbuglio, e giudichiamo se noi abbiamo sì o no ragione di gridare tutto giorno: calpestate, togliete dalla faccia della terra questi aspidi velenosi, e pensino infine a prendere tali provvedimenti che tali fatti possano impedire. Ove ciò avvengasi, noi avremo il diritto e la forza di dire la colpa è vostra, voi pagate il fio . M. P.