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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Montecorvino, posto nella provincia di Salerno, confina ad oriente con il territorio di Eboli, ad occidente con quello di Salerno, a mezzogiorno con la spiaggia del golfo di Salerno. Rientra nella giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Acerno. Ha sempre fatto parte del regio demanio, godendo di una speciale protezione del re. Siccome alcuni cittadini si distinsero per servigi prestati al proprio principe, Alfonso II con suo privilegio del 1494 decora di nobiltà generosa molte famiglie che tra l’altro erano impiegate nel Reale servizio. Ferdinando il Cattolico rinnova il suddetto privilegio, confermato a sua volta da Carlo V. Nonostante tali premesse, Filippo II vende, nel 1572, lo Stato di Montecorvino, la città di Salerno e la Terra di Olevano al principe Nicola Grimaldi per il prezzo complessivo di 106.000 ducati, così ripartiti: cioè 18.000 ducati per Montecorvino, 76.000 ducati per Salerno, 12.000 ducati per la terra di Olevano. Montecorvino lanciò le sue grida fino al cielo. Alla fine, di fronte alla decisione regale, si impegna a pagare i 18.000 ducati. Il re Filippo II accetta l’offerta. Così il 22 maggio 1591 viene stipulato lo strumento della vendita con cui sono pagati non solo i 18.000 pattuiti, ma anche 5.000 ducati a titolo di spese. Nel 1620 la corona di Spagna decide di vendere le città e le terre demaniali. Pienamente d'accordo si mostra l’avvocato fiscale Fabio Capace Galeota. La regia Camera della Sommaria con il Collaterale la pensano diversamente. Quest'ultima opposizione ben presto cede le armi di fronte alla decisione del re. Anzi proprio il Collaterale emana, il 25 febbraio 1638, un decreto di vendita per Montecorvino. Il decreto prima fu eseguito, poi se ne seppe il tenore. In effetti nei giorni 13 - 19 marzo 1638 Bartolomeo d’Aquino presenta la sua offerta per la compera di Minuri e di Montecorvino per carlini 45 a fuoco. Nonostante le opposizioni, Montecorvino è pronto a pagare la suddetta somma, da cui avrebbe dovuto trattenere i 18.000 ducati, pagati precedentemente........ Siccome d’Aquino ha nominato nella compera Giulio Pignatelli principe di Noja .......
Il 6 febbraio 1672 ad Ottajano nella piazza pubblica di detta terra e davanti al magnifico Didaco Mastico Spinelli governatore di detta terra, uniti e radunati nel luogo detto e davanti allo stesso magnifico Tarquinio Bifulco, notaio Carlo de Annuntiata, Francesco Duraccio, Vito Antonio de Ammirese odierni Eletti per il corrente anno ......Magnifici deputati e cittadini avendo già per lo Dio Grazia questa nostra Università ridotto in luogo destinato del monastero de monache a termine che può facilmente ridursi a clausura, si deve ora procurare determinare un'opera tanto pia mediante la quale si può sperare dalla divina Clemenza l'abolizione di quella calamità, che questa Terra prova presentemente per le continue ceneri del Vesuvio e per la moltitudine dei muroli, che infettano questa campagna, si potrebbero dunque deliberare lo stabilimento di detto Monastero, determinando che tutte quelle summe che perveniranno da tempo in tempo per l'avvenire dal prezzo delle legna della Montagna, come di quella del Mauro all'Università spettante, s'abbiano da mettere in pubblico Banco per doversi dall'Eletti, che pro tempore saranno con il consenso della maggior parte dei Deputati impiegati da mano in mano secondo li sarà l'occasione in compra o ricompra a beneficio del detto Monastero sintanto che arrivi a terminarsi un conto di ducati seimila, che frutti almeno ducati trecento, affinché possano mantenersi perpetuamente in esso dodici figliole cittadine povere, che si abbiano da monacarsi senza pagamento di dote la nominazione delle quali spetta ad essa Università così nella formazione di detto Monastero, come quante volte le sarà un loco vacante per la morte di alcuna o perché alcuna di esse non vorrà fare professione e perché non solo abbia dilatare la clausura di detto Monastero fintanto che arrivi ad avere la sopraddetta rendita, si potrebbe fra questo mentre soccorrere con ducati trecento da pigliarsi dall'altre entrate dell'Università pagabili dal giorno che detto Monastero sarà dichiarato clausura, dei quali ducati trecento si debbia andare manualmente scemando quelle quantità, che renderanno fruttando le compere, che faranno a beneficio del detto Monastero di maniera arrivate saranno le sue rendite alla summa di ducati trecento debba in tutto e per tutto cessare questo annuale soccorso.........
1° maggio 1577. I, In primis è stato convenuto per patto espresso che in la defesa et Montagna, quale comincia da la via de la Torre del Greco in su e per quanto s'estende lo demanio de la Corte se debbia conservar ita che in quella non se possa tagliare cerque, cerri, esche, lecine, né castagni nè del piede né dai rami, verde, nè secco bruggiato o inutile tanto a la lerta, quanto buttato in terra, ma debbiano restare intacte et intese sotto la infrascritta declaratione. II. Item è stato convenuto et declarato espressamente che tanto lo detto Signore Don Alessandro Medici et soi figli et successori universali et particulari in la detta terra di Ottajano, quanto ancora la detta Università, homini, citatini, particolari et habitanti in essa non possano né debbiano in modo alcuno et per qualsivoglia urgente necessità, che occorresse alcuno et all'altro tagliar né fare tagliare da persona alcuna in detta difesa et Montagna, arbori de cerque, cerri, esche, lecine et castagni verdi e secchi, vivi, né morti, bruggiati o inutili né dal pede né dai rami nè alla lerta né buttati in terra in modo alcuno, ma quelli debbiano sempre restare intatti e inlesi e senza damno né mancamento alcuno per levare ogni fronda che potesse commettere et a fine che possino sempre crescere et augmentare per lo effecto ut infra.
L'avvento francese nel regno delle due Sicilie apporta una folata ideologica antimonastica, dettata dalla programmata volontà di equilibrare con interventi mirati e graduali il disastroso disavanzo finanziario delle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche, accumulato negli anni precedenti. I suoi nugoli procellosi soffiano con veemenza ed immediatezza anche ad Ottajano, laddove centotrentotto nostri concittadini sottoscrivono la richiesta, inoltrata al re Giuseppe Buonaparte, alla fine del 1806, e proiettata a sopprimere i quattro monasteri locali, retti, rispettivamente, dai Domenicani, Serviti, Paolotti e Carmelitani. L'istanza si basa sulla presunta opportunità di riutilizzare le rendite conventuali, che si aggirano a circa millecinquecento ducati, e i loro relativi locali, che ospitano appena qualche frate, per impiantarvi, a beneficio della collettività, servizi sociali impellenti ed inderogabili, quali un ospedale per i poveri, una scuola per i fanciulli, una caserma per la guardia civica ed un alloggio per accogliere le truppe francesi di passaggio. Il Sottintendente Gaetano Vestini, prima di esprimere il suo parere in proposito, effettua una meticolosa indagine, affidandone il compito al regio governatore locale, Matteo Anzuoli, e al nostro concittadino Giuseppe Barra. Le concordi informazioni, pervenutegli, nell'ultimo scorcio di gennaio 1807, da parte dei due incaricati, parlano un linguaggio del tutto antitetico rispetto alla suddetta domanda. Innanzi tutto in ognuno dei conventi dimorano soltanto due monaci, in quello dei Domenicani, invece, ve ne sono quattro, un maestro di teologia, un predicatore, un superiore, un confessore ed un laico. Inoltre, al di là del numero, tutti i frati, secondo la testimoninanza dei quattro parroci locali e dello stesso primicerio, coadiuvano i sacerdoti nelle mansioni religiose e coordinano nei loro plessi il funzionamento di varie congregazioni laicali. A giudizio del governatore, pretestuosi ed inutili risultano, poi, anche i ventilati servizi sociali. Infatti, la cultura ospedaliera non rientra neppure nella mentalità del circondario, come dimostra il San Giovanni di Dio, istallato a Somma, continuamente privo dei degenti. Il corpo di Guardia Civica ha già la sua sede in un posto centrale della piazza ottajanese. Sarebbe un inutile spreco di preziose risorse finanziarie pubbliche l'istituendo locale per l'accoglienza delle truppe francesi, la cui presenza in loco, eccezionale ed occasionale, dato che Ottajano non è "strada di passaggio", potrebbe essere ospitata negli stessi monasteri. Infine, proprio i Domenicani hanno da tempo attivato nel convento una scuola per i fanciulli. Tutti questi rilievi, inseriti nella susseguente relazione ufficiale del 27 gennaio 1807, pervengono alla attenzione delle autorità gerarchiche superiori, per cui non desta meraviglia il diniego opposto dal Ministro dell'Interno alla richiesta della suddetta parte della base sociale ottajanese, il 14 febbraio 1807. Frattanto fa sentire i contraccolpi più lancinanti il pesante deficit finanziario del nostro bilancio comunale, che annovera un disavanzo di 9318 ducati e sessanta grana, comunicato all'Intendente, il 13 gennaio 1807. Nè appare all'orizzonte il minimo segno di inversione di tendenza a causa di ineluttabili fattori congiunturali, legati all'ultima eruzione del Vesuvio, avvenuta l'anno scorso, per le cui costanti rovine, visionate dallo stesso Sottintendente, il dispaccio reale ha esentato dal pagamento del terzo della decima i proprietari dei fondi danneggiati. Permane, poi, a carico del nostro percettore la difficile esazione di gran parte della suddetta tassa da parte dell'azienda ex gesuitica. Tralasciamo le numerose liti giudiziarie, accresciutesi in proporzione all'elevato tasso di litigiosità, lascia presagire, a sentenze passate in giudicato, un ulteriore esborso di risorse pubbliche in indennizzi, in risarcimenti ed in onerosi onorari agli avvocati. Tali difficoltà di recupero di cassa, presenti in quasi tutte le realtà comunali del regno e associate ad una gestione poco rigorosa della spesa pubblica, rafforza la tesi di quanti , al vertice, sostengono l'ineluttabilità dell'incameramento dei beni conventuali. Il successivo decreto reale del 26 novembre 1807, che sancisce la soppressione dei monasteri dei padri Paolotti di Nocera, Castellammare, Cava, sembra escludere, al momento, quello di Ottajano, immesso, per errore meccanico, nella giurisdizione di Terra di Lavoro. Nello spazio di poco tempo, però, avviene la rettifica e si mette in moto tutta la procedura burocratica per effettuare l'inventario degli arredi sacri, esistenti nel suddetto convento ottajanese di San Francesco di Paola, eseguito, il 20 dicembre successivo, da Giuseppe Barra e Vincenzo Aurigemma: la copia del relativo verbale, sottoscritta dai responsabili, nonché dai testimoni Gaetano Coppola e Gaetano Cutolo, ne affida la custodia al sindaco Giuseppe d'Ambrosio fu Felice. La partita si riapre dopo pochi giorni, allorché la popolazione dimorante in piazza San Francesco, dispiaciuta per la chiusura della chiesa conventuale, ne chiede l'immediata riapertura, impegnandosi a sostenere eventuali spese di riattazione a titolo personale. Ancora una volta è chiamato in causa il Sottintendente Gaetano Vestini il quale, dopo la solita indagine affidata al regio governatore Giuseppe Barra, ne riferisce, il 23 marzo 1808, all'Intendente Raimondo di Gennaro le risultanze favorevoli alla istanza, su cui riscontra ampia concordanza di consensi della base sociale. Su questi presupposti favorevoli si basa, il 28 maggio successivo, il relativo decreto reale, che ne autorizza la concessione, previo l'avvenuto inventario dei beni esistenti nella chiesa. Esso viene eseguito, lunedì 20 giugno 1808, dall'incaricato distrettuale Nicola Cacace e dal regio governatore che ne affidano la consegna, dietro sottoscrizione del relativo verbale, al sindaco Michele Giordano. Non risulta ricco né efficiente il patrimonio rinvenuto nella suddetta chiesa, dotata di un altare maggiore di marzo e di sei altari laterali, sovrastati, rispettivamente, dai quadri di San Giuseppe, di San Gennaro, del Beato Gaspare, del Beato Nicola, di San Francesco di Paola, di San Michele Arcangelo, cui vanno aggiunti quelli di Sant'Antonino e di San Francesco d'Assisi, appesi al muro dell'entrata. Logora e consunta è la condizione dei paramenti sacri, conservati in uno stipite della sacrestia: in un angolo giacciono le stature di legno di Santa Lucia, di Sant'Agnello e di San Francesco di Paola, un baldacchino e due inginocchioatoi di legno; sul muro pendono i quadri della Madonna e di Santa Lucia. Analogo risulta lo stato delle altre suppellettili , tra cui due confessionili, un pulpito di legno, molti candelieri e varie "frasche indorate con pedagne". A latere della questione nodale, si avverte, in maniera palpabile, la divergenza di opinioni delle stesse autorità nostrane negli atti consequenziali alla denuncia di due frati domenicani Raimondo Zingarelli e Persiani contro il converso fra Liberato, il cui arbitrio, tollerato dalla bontà del padre "maestro" Vincenzo Iannantuono, si traduce nella fornitura di scarso vitto ai monaci. Il Sottintendente Gaetano Vestini, investito della delicata fase delle indagini, incarica, questa volta, il sindaco e il regio governatore locali di effettuare una ricognizione circostanziata suul campo. Le informarzioni, attinte dalle due fonti diverse e comunicate all'Intendente, l'11 agosto 1808, non risultano concordi. Infatti, il sindaco scardina le accuse e svilisce gli accusatori, definendo padre Zingarelli "poco esemplare", padre Persiani "di umore atrabiliare e ipocondriaco"; riconduce, inoltre, l'attuale atteggiamento polemico di fra Liberato alla recente perdita della carica di procuratore monastico, ricoperta da molto tempo. Il regio governatore, invece, avvalora quanto lamentato nell'esposto, snocciolando, persino, cifre insolite sul numero dei frati, attualmente nove, diciotto nell'immediato futuro, e delle rendite complessive annuali che, a suo giudizio, sono 923 ducati e trentuno grana. L'ufficiale comunicazione scritta di entrambe le versioni non esime l'emittente dal manifestare notevoli perplessità di giudizio, attribuite alle difficoltà ambientali, che impediscono di accertare la verità, come recita la parte conclusiva del documento: "Da ciò si capisce quanto sia difficile in Ottajano divenire all'accerto della verità". Nonostante ciò il Ministro del Culto rimette nelle mani dell'Intendente, il 27 agosto 1810, la decisione di sciogliere il nodo della questione, conferendogli la facoltà di trasferire l'indiziato, qualora risulti colpevole, in qualche altra sede monastica. Entro tale cornice ideologica non subisce alcuna caduta di tono la fede religiosa dei nostri padri, come si evince dalla loro massiccia partecipazione collettiva alle cerimonie quaresimali. Nello specifico la delibera comunale, mirata a designare la terna dei predicatori quaresimali per l'anno successivo nelle chiese di San Giovanni e di San Giuseppe, ha percorso, con tempestività encomiabile, tutto l'iter gerachico, il 19 dicembre 1808, allorché il vescovo di Nola comunica all'Intendente, il duca di Laurenzana, di aver conferito i relativi incarichi ai sacerdoti don Nicola Nappo e don Giuseppe Pappalardo, preferiti, rispettivamente, a don Giovanni Cutolo e don Francesco de Rosa, da una parte, a don Carlo Vita e a don Giovanni Ambrosio Pecorella, dall'altra. Successivamente, ad evitare qualsiasi ulteriore confusione giurisdizionale del nostro territorio, provvede il decreto reale dell'8 aprile 1809, a firma di Giacchino Murat e del Ministro Segretario di Stato Pignatelli, con cui Ottajano ritorna a far parte integrante della provincia di Napoli: "Art. 1°. Il Comune di Ottajano farà nuovamente parte di questa provincia di Napoli. Il nostro Ministro dell'Interno è incaricato della esecuzione del presente decreto". La politica centrale anticonventuale continua il suo corso regolare e ne realizza il piano anche ad Ottajano, il 7 agosto 1809, allorché il decreto reale sancisce la chiusura dei monasteri locali di Santo Spirito, di San Lorenzo e del Rosario. All'uopo la commissione, che comprende il giudice di pace, Giuseppe Barra, il consigliere distrettuale Aurelio Bifulco, il decurione Francesco Fasano e il sindaco Michele Giordano, sostituito dal decurione Gioacchino Bifulco, è incaricato di eseguire gli atti burocratici consequenziali. I lavori iniziano il 10 settembre successivo, allorché viene selezionata tutta la documentazione cartacea da esaminare e sigillata, compresi i registri contabili dei censi, dei livelli e dei canoni. L'intera giornata successiva è dedicata alla ricognizione e all'inventario dei beni immobili e mobili dei tre conventi, opportunamente annotati nei relativi verbali, redatti dal cancelliere del giudicato di pace, Vincenzo Crispo. La prima tappa è il convento di Santo Spirito, retto dai carmelitani fra Carmelo Postiglione di Napoli e fra Alberto Cerchia di Castellammare. La commissione vi entra attraverso la porta della chiesa, sul cui coretto, posteriore all'altare maggiore, domina un quadro in tela della Vergine del Carmine. Nella parte anteriore, lateralmente all'altare, giace un tavolino di legno dorato, presso il quale una nicchia di legno accoglie la statuta della Vergine del Carmine con il bambino in mano, "vestiti con abiti stellati in oro con corrispondenti corone". Lo stucco adorna l'altare maggiore e gli altri altarini laterali, facilmente individuabili per l'effigie sacra riprodotta nei rispettivi quadri appesi al muro: Sant'Anna, Santa Maria Maddalena, Sant'Elia, Sant'Alberto, San Biagio, Santa Maria del Carmine. La perlustrazione della sacrestia, collocata a sinistra e ugualmente rivestita di stucco, non richiede molto tempo, data la esiguità e la vetustà degli oggetti rinvenuti. Poco dopo i commissari, varcando la porta a destra, si immettono in un arioso cortile, la cui cisterna, posta al centro, soddisfa le esigenze idriche della cittadinanza per l'intera giornata fino alle ore ventiquattro, in piena applicazione delle voci contemplate in un antico capitolato concordato con l'ente comunale. A mezzogiorno un piccolo giardino quadrato, piantato a viti e alberi da frutta, è diviso in due porzioni: la prima misura novanta palmi di lunghezza e nove palmi di larghezza, l'altra quarantanove palmi di lunghezza e diciassette palmi di larghezza. Lungo il fianco sinistro del corridoio, che costeggia il cortile, corrono una stalla, un cellarino, una dispensa, un deposito di legna, il forno e sei "casotti". Attraverso la scala si accede al primo piano, il cui corridoio si snoda in due direzioni opposte: a destra "un luogo comune che ha la sua competente seditoria di tavola di legno", a sinistra la cucina, il refettorio e le tre camere. Occupano lo spazio maggiore del secondo piano le sei celle dei frati, delle quali due intercomunicanti, chiamate stanze priorali: le rispettive finestre si affacciano sul cortile sottostante, sulla cui parte orientale domina una loggia. Sopra il dormitorio sovrasta il coro con l'organo "posto dentro". A sinistra una piccola scala conduce al campanile, formato "a ventaglio" e dotato di due campane del peso di un cantaio e mezzo ciascuna. Il libro contabile, aggiornato accuratamente, registra molte entrate dovute a censi ed affitti di vari terreni, ubicati in località ormai scivolate, in maniera definitiva, dall'immaginario collettivo, tra le quali il Padiglione, le Anime del Purgatorio, Coscia di Torre o via di Sarno, Recupo, Pizzola, Trofa, San Cristoforo, Pintollo, Scavolella, Pietra del Galluccio, le Fontanelle, i Travi i Muscetti, Scalabrile, il Vallone del Carmine, la Cupa di Sant'Anna, Taverna Penta a Poggiomarino e Suronicola a Somma. Aniello Giamonti di Giuseppe utilizza, a nolo, due vani attigui al monastero, nonché un terzo con piccola cisterna. Quindi la commissione si sposta nel conventino di San Lorenzo, retto dai serviti fra Pasquale Palmieri di Caivano (priore), fra Stefano Fusco di Baiano, fra Bonaventura di San Pietro a Patierno. Esso si estende nel luogo denominato Santa Croce, alla fine di un ampio spiazzo, orlato da diverse piante di gelsi e da due di tiglio "servibili per frescura in tempo d'estate". La parte centrale dello stabile è occupata dalla chiesa, sulla cui entrata pende il quadro di Maria Addolorata. L'interno è ravvivato dallo splendore dello stucco dell'altare maggiore e dei due altarini laterali, su cui sovrastano i quadri di Santa Giuliana e di San Filippo Benizio. Da sinistra si accede nella sacrestia, da destra nel cortile, la cui cisterna centrale rappresenta lo spartiacque dello spazio scoperto: un muro, lungo novantuno palmi e largo quarantotto, circonda un giardinetto con diverse piante da frutta e viti, la parte restante funge da cortile. Ai lati si estendono un vano per il deposito della legna e una piccola stalla. Sul lato sinistro una scala porta al primo piano, ove troviamo sette celle dei frati, ognuna delle quali è dotata di finestre che si affacciano sulla strada regia. Una scaletta consente l'accesso al piano superiore, ove ci sono il refettorio, la cucina e il forno. Su tutto l'edificio svetta un piccolo campanile a "ventaglio", da cui promanano i rintocchi di due campanelle del peso complessivo di un cantaio. Le rendite annuali, relative al fitto degli immobili del convento, che ascendono a ventiquattro ducati e ottanta grana, provengono dai seguenti locatari: il barbiere Tommaso Annunziata paga due ducati annuali per un botteghino, il calzolaio Luigi Catapano sei ducati per due botteghe, il "cannaparo" Arcangelo Chiarolanza sette ducati per le altre due botteghe, Pasquale Ragosta cinque ducati annuali per il "cellaio", Santolo Autorino due ducati e quaranta grana per una camera, Giovanni dell'Annunziata paga la stessa cifra per l'altra camera. L'ubicazione dei possessi terrieri conventuali tocca diverse zone nostrane, quali San Cristofaro, Casa Iovino, Santa caterina, le Pescinelle, la Mauta. La giornata dei commissari si conclude nel monastero del SS. mo Rosario, sito nella piazza di Tre Case. Qui dimorano i domenicani fra Vincenzo Iannantuono di San Marco la Catola del Molise (priore), fra Vincenzo Scorza di Murano in Calabria, fra Bartolomeo Tocchi di Piccheri di Lucera, fra Raimondo Zingarelli di Ottajano, fra Aurelio Pennantuoni di San Marco la Catola, fra Liberato di Luggo di Ottajano, fra Riginaldo Rinaldo di Melito, fra Giovanni Assante di Posillipo di Napoli. Asserisce il priore che le autorità politiche centrali, dopo la soppressione del monastero domenicano di Aversa, hanno ampliato l'organico del convento da lui retto con l'aggiunta dei seguenti confratelli: fra Alberto Credi di Napoli, fra Agostino Cartolano di San Michele della provincia di Citra, fra Ferdinando Buono di Barano d'Ischia, fra Gaetano Petito di Sant'Antonio di Terra di Lavoro, fra Domenico de Celis di Napoli, fra Capuano Varrecchione di Cerchiello della provincia di Capitanata, fra Benedetto di Meglio di Barano d'Ischia, tutti attualmente assenti, in quanto impegnati altrove, su autorizzazione superiore. La struttura dell'edificio si presenta come un massiccio blocco a due braccia distinte, contrassegnate, rispettivamente, da un portone e da una porta. Quest'ultima permette l'accesso nella chiesa, ove domina il marmoreo altare maggiore, dietro il quale si trova il coro composto da sedili di noce, su cui campeggia il quadro della Vergine del Rosario. Gli otto altari laterali sono così distribuiti: sul lato destro quelli di San Domenico, di San Vincenzo, di San Lodovico Beltrando, della Maddalena del Carmine; sul lato sinistro quelli della circoncisione, della Vergine del Rosario, di Sant'Antonio e di San Pio. Completano le suppellettili ecclesiastiche i quattro confessionili di legno. Sul campanile rintoccano due piccole campane del peso di circa due cantaie e mezzo ognuna. Chi entra attraverso la portineria si trova di fronte un piccolo corridoio, sulla cui sinistra c'è il locale della Confraternita del Rosario dei Fratelli Secolari. Sulla destra "un'antiporta" di legno apre su un chiostro, formato da quattro corridoi, ugualmente distinti dalla cisterna centrale a "più bocche", donde si attinge acqua per innaffiare il giardino. Questo, di figura quadrata e murato su tre lati, piantato con diverse piante di frutta e viti, si estende in lunghezza ottantasette palmi e in larghezza settantacinque palmi, un'altra porzione, posta a mezzogiorno, è larga centoquattordici palmi e lunga quarantaquattro palmi e mezzo. Alla destra del corridoio terraneo quattro vani fungono da forno, stufa, deposito per la legna e dispensa. Lungo il corridoio del primo piano si succedono, su entrambi i lati, le cinque celle dei frati, il refettorio, la cucina, la "dispensuola", ove si respira un'aria di austerità visibile, del resto, nella essenzialità della cella del priore: "Un lettino con due materazzi, scanni di ferro, quattro tavole, una manta di lana bianca, due coscine, dodici sedie di paglia pitturate, due tavolini di legno, un burongino con una scansia sopra con pochi libri ..., un bauletto con biancheria ..., cinque quadretti senza cornici rappresentanti vari santi". Al secondo piano il noviziato, composto da altre quattro celle e da un "camerone", si slarga, a vista d'occhio, su di una loggia maestosa. Allo stato attuale risulta del tutto inservibile a causa dei detriti riversati dalle alluvioni la parte sotterranea alla chiesa, prima usata come "terrasanta"; conserva, invece, una certa efficienza il vano sotterraneo alla Congrega e al posto di Guardia, adibito a cantina. Lo speciale Nicola Annunziata, il "canaparo" Raffaele di Luggo, il bottegaio Luigi Annunziata hanno preso in fitto i "bassi" del convento, ad esso contigui e sporgenti nella piazza di Tre Case, per esercitarsi la loro attività lavorativa, mentre Gaetano Ranieri alias Mascella, Francesca Menechino, Nicola Annunziata e Francesco d'Avino li adoperano come "cellai", Isabella Chiarolanza come lavanderia. Su tutte si segnalano le due botteghe locate dal sarto Carmine Annunziata: una è "coverta con astrico a cielo", nell'altra, "sottoposta a una camera e egualmente coverta con astrico a cielo, ci si ascende per mezzo di uno scalantrone di legno". Gli arredi sacri inutili sono depositati in una masseria, a due piani, denominata il Falangone, di proprietà del convento, fittata a Tommaso Cola. Qui in una camera del piano superiore uno "stipone" accoglie quattro candelieri, un crocefisso, un quadro lacero con l'effigie di San Domenico; invece, nei locali inferiori giacciono "una quercia ossia un torchio per uso di premere uve all'ordine, uno scanno di legno a gradini per empire le botti". Non palesano inferiorità di estensione gli altri fondi rurali, ubicati al Campitello, alla Cupa di San Giuseppe, a Terragrande, al Lavinaio: quest'ultimo, ad esempio, include un "cellaio per premere uva, un tinaccio di legno vecchio, un cellaio da riporvi il vino, due camere, forno, cisterna, lavatoio ed aia da scognar vettovaglie". Ben presto si spengono i riflettori ufficiali della cronaca alta sui suddetti conventi: le loro rendite incamerate contribuiscono a dare un pò di sollievo alle esangui casse statali, le porte delle loro chiese si spalancano alla devozione religiosa della nostra popolazione, le loro strutture entrano nella lunga girandola dei progetti di riconversione in uffici pubblici, cominciata dalla giunta del sindaco Agostino Scudieri, il 25 giugno 1810: "Il locale del soppresso monastero dei Minimi .... potrà servire ... alla casa decurionale, alla casa municipale, alla giustizia, a Cancelleria di pace. Per l'alloggio dei gendarmi e delle truppe, che trasnsitano o permangono, potrebbe servire il locale del soppresso monastero dei Domenicani ... potrà servire l'altro monastero dei Serviti e finalmente il monastero dei carmelitani cadente e mal sano potrebbe servire a ospedale (8).
5 agosto 1549. I. Perché detto Signore Fabricio havendo ottenuto provisione da sua Cesarea Maestà de posser fare la reintegratione in detta terra d'Ottajano. In virtù della quale provvisione fo deputato Commissario lo magnifico Ludovico Angeriano. Per il quale foro emanati banni contra tutti li possessori dei beni cum clausula justificata contra della quale Provisione e banni in detta terra e particulari foro apposte molte ragioni ad impedir detta reintegratione et signater che detta Provisione non appareva essere stata presentata infra annum et infra ditto tempo non essere stata espedita executoria secundo la forma della Regia Pragmatica e che detto magnifico Ludovico come giodice incompetente non possea procedere in detta causa. Il quale non avendo admesso a detta ragione et altre opposizioni declarò se esser giodice competente ed doversi in quella procedere. Reputando contumaciali li conventi ed esserno incorsi in pena banni, dato termine in contumacia ipsos a detto Signore Fabricio; del che ne fu appellato; Item lo detto Signor Fabricio remette e perdona a tutti citatini et habitanti quomodocumque et qualicumque in detta Terra, et tanto ad homini, quanto ad donne tutti, et qualsevoglia delitti per essi commessi de' qualsevoglia qualità .... per tutto lo tempo passato per fino alla presente giornata... Item che detta Università particulari cittatini et habitanti in essa possano et a loro sia licito in lo bosco, silve et montagna de detta terra et per quanto s'estende lo demanio de detta Corte tagliare e far tagliare qualsevoglia ligname de qualsevoglia sorte in quacumque quantitate tanto de lavore, come de non lavore, tanto fruttiferi, come non fruttiferi ...... Item il detto Fabrizio si contenta e promette tenere detta terra di Ottajano per terra riserbata per habitatione sua. Ita che per causa di detta habitatione propria non possano venire ad habitare né alloggiare soldati, uomini d'arme nè cavalli leggieri ......Detto Consultore sive giudice debbia assistere in detta terra di Ottajano ovvero venire secundo lo bisogno dell'espedizione delle cause, et almeno tre volte il mese et debbia dare audientia dove stava la Corte del Capitanio, però in lo Castello et Palazzo di detto Signor Fabrizio .... ((Estratto dal libro di Luigi Iroso, Album di famiglia, Edizione "Quaderni Campani", San Giuseppe Vesuviano, 2003)).
1) Si ordina che tutte le suore atte convengano all'officio divino dì e notte, tanto la Madre quanto le altre, eccetto quando fossero inferme o vero occupate in alcuna cosa necessaria la quale commodamente non potessero lasciare o differire e qualunque sarà il contrario sempre dica la colpa sua ..... 2) Sonato che sarà il primo segno dell'officio si ispedisca in tal modo, che si ritrovi in coro avanti che s'incominci l'officio et chi farà il contrario debba la seguente mattina far la penitenza secondo il giudizio della Madre ..... 3) Che il matutino si suoni di modo che sempre le suore abbiano pigliato otto ore di sonno; 4) Quando s'incomincerà l'officio si dica devotamente e senza riso o parlare l'una all'altra o altra dissoluzione ma con grande devozione e quelle che faranno il contrario siano corrette dalla correttrice del coro; 5) L'officio non si lasci senza licenza della madre, al quale debbiano stare tutte quelle che legittimamente non sono impedite...; 6) Nessuna sorella sia chiamata dall'officio divino senza licenza della madre ....; 7) Quelle che sono state assignate a leggere le lezioni o responsori preveggano il tutto a buona ora...; 8) Che un'ora d'orazione non si preferisca mai dopo matutino ... 9) Qualunque romperà il silenzio notabilmente e contenderà in coro debba accusarsene avanti la Madre et dall'istessa ricevere la penitenza più o manco grave che sarà solita fare tale errore. 10) Tre volte la settimana si faccia la disciplina in comune ..... 12) Le suore tre dì avanti la natività del Signore e per tutta la settimana santa e poi un dì avanti le feste della Madonna non siano occupate in alcun esercizio eccetto quelli che sono necessari ... 15) Dalla Pasqua insino alla festa di Santa Croce di settembre, dopo magnare nell'ora del dormire si suoni il silenzio ed osservisi insino che saranno chiamate le suore per dire per tutto l'anno dall'Ave Maria della sera, insino a dì si debba inviolabilmente osservare il silenzio ... 17) Una volta la settimana dicano la colpa tutte comunemente nel sabato o altro giorno che comanderà la madre .... 24) Circa la comunione tutte faranno almeno ogni quindici giorni, eccetto se per giusta causa o impedimento paresse altrimenti alla Madre badessa al Padre Confessore ..... 43) Niuna monaca tenga cosa particolare nè pure un fazzoletto, ma la comunità debba provvedere alla necessità di ciascuna .... (La suddetta regola si rifà alla "Costituzione delle Monache del 3° ordine di San Francesco" confermata dal papa Nicolò IV il 17 agosto 1289.
23 settembre 1732. Sta la suddetta terra (Campobasso, n. d. r.) al presente situata alla falda di un monte di pietra viva, dalla parte di mezzogiorno con suo piano. La medesima è murata intorno con i suoi torrioncini all’antica con modica distanza l’un dall’altro, nel medesimo recinto vi sono sei porte. La prima che è la principale sotto la denominazione di San Leonardo. La seconda detta Porta mancina, la terza di San Paolo. La quarta di Santa Maria della Croce, la quinta di Sant’Antonio Abbate, la sesta di San Nicolò di Bari. Fuori la porta principale vi è la una piazza grande ove si fa il mercato ogni giovedì e le fiere in essa, vi sono diverse abitazione a destra e a sinistra ………..
L’antica terra di Campobasso stava prima situata nella sommità dell’anzidetto monte, ove al presente v'è rimasto il solo castello che si possiede dalla ducale corte e consiste in un cortile con sue mura alzate intorno scarpate sotto porzione, del quale v’è cantina e cisterna d’acqua piovana e mediante pochi scalini si ascende ad un ballatoio, ove vi è porta all’incontro della quale vi è altra grada di fabbrica....... Accosto al castello suddetto vi è l’antica chiesa arcipretale sotto il titolo di Santa Maria Maggiore, consistente in tre navi, con l' altare maggiore isolato, con una statua di legno della Beata Vergine dell’Assunta indorata, vi sono in essa sette altri altari con una sacristia dietro, nella quale si conservano i suppellettili di detta chiesa e i suoi argenti, sopra l’ingresso della medesima v’è il suo organo, a destra v’è il fonte battesimale, la medesima è coverta a tetto a due penne e suo pavimento di mattoni, in essa vi sono due altre cappelle ius patronati del fu Ill. Duca ultimo della medesima terra di Campobasso, una sotto il titolo di San Domenico e l’altra di Santa Maria di Costantinopoli, v’è il suo campanile con due campane. La medesima chiesa è governata dal suo arciprete che viene nominato dalla ducale corte e da sette altri canonici che vengono creati dal vescovo di Boiano, tiene di entrate ascendentino in denaro a circa ducati 400 e da tomoli 130 di grano in ogni anno tra decime e terraggio .......................
Poco discosto dalla medesima e proprio nel luogo detto delle tre porte v’è l’altra chiesa parrocchiale sotto il titolo di San Bartolomeo, coverta a lamia a croce con un tetto sopra, mattonata nel suolo, tiene il suo campanile con tre campane. La medesima è divisa a tre vani, con suo altare maggiore a pietra forte isolato, con un quadro dipinto a oglio della Beata Vergine dell’Arco, vi sono due altari laterali, sopra la porta della quale chiesa vi è il suo organo, a sinistra v’è stanza grande per cimitero.......
Saluto con intensa gioia l'attuale rifioritura della storiografia locale la quale, quando poggia su di una precisa e solida base scientifica, innervata nella consultazione di documenti archivistici, rappresenta per l'intera comunità circostante una preziosa risorsa, in quanto latrice della ricostruzione dell'ineludibile principio dell'appartenenza. Proprio la dimenticanza di siffatto principio, perpetratasi per lungo tempo, ha prodotto inauditi scempi nel nostro territorio, lasciato, il più delle volte, in balia della improvvisazione propositiva e fattuale a danno di una progettualità consapevole e incisiva, fondata sul sincero affetto verso la propria terra, in cui risiede il tasso della ricaduta positiva e favorevole di qualsiasi azione rivolta verso gli interessi della collettività. Ed un mensile, sorto, con i migliori auspici, nella pulsante realtà di San San Gennaro Vesuviano, San Giuseppe Vesuviano,Ottaviano e Palma Campania, non può, accanto ad altre tematiche di spiccato interesse e di vasto respiro, non dare adeguato spazio a questa diffusa istanza, affidata per gentile concessione del direttore, alla mia penna in virtù dei precedenti e lunghi studi in materia. Nello specifico ormai il campo storiografico nostrano ha spazzato via dalla sua ottica procedurale le belle e statiche favole di un tempo, intessendo al loro posto una fitta rete di pagine incontrovertibili, grazie alle quali si delinea uno scenario inusitato: uomini in carne ed ossa agiscono con l'oneroso carico della loro umanità, si spostano da una parte all'altra del territorio con incredibile dinamismo, danno vita ad avvenimenti imprevedibili sotto il peso della loro ardente passionalità, versano lacrime amare nel culmine estremo della sconfitta, poco dopo si rituffano con rinnovato ardore nel vortice inarrestabile del flusso esperenziale. Inoltre l'analisi focale narrativa non delimita più le riprese esclusivamente intorno alle gesta gloriose di una classe sociale predeterminata, né procede per categorie precostituite ed artefatte, ma investe l'intera struttura sociale, cogliendola in tutte le sue molteplici manifestazioni individuali e collettive, nel momento della gioia e dell'ira, all'aperto e al chiuso, nel pagliaio e nel palazzo. Del resto l'incipit di questa storia ha, finalmente, una sua cornice temporale ben definita, il 1513, allorché Errico Orsini, sposando Maria Sanseverino, riunifica la contea di Nola, la quale includendo Avella, Lauro e i casali, la città di Nola e i casali, Palma e i casali, Ottajano e i casali, si spinge dall'interno sino al litorale. Ma siffatta felicità del conte nolano riceve un terribile scossone il 1528, allorché egli, abbandonando l'antica alleanza con gli spagnoli, passa dalla parte dei francesi, in occasione della discesa in Italia di Odet di Foix, visconte di Lautrec. La mossa strategica risulta completamente sbagliata, in quanto il campo di battaglia assegna la vittoria definitiva all'imperatore Carlo V: infatti, le sue truppe, comandante dal viceré Filiberto Cahonne, penetrano, il 22 agosto 1528, in Nola, dopo che le porte sono state spalancate di notte da alcuni parenti proditori di Fabrizio Maramaldo, uno dei capitani di ventura al soldo imperiale. La gravissima infermità, se evita ad Errico Orsini di sfuggire alla pena capitale, riservata a quanti si sono macchiati di alto tradimento, ne debella la fibra fisica nello spazio di pochi giorni, nonché ne manda all'aria tutti i piani, sui cui cocci acuminati è costretta a procedere la moglie nella penosa odissea per ottenere, almeno, i suoi beni dotali. Frattanto i battiti della politica non arrestano il loro freddo e implacabile corso al di là delle persone e dei sentimenti. Espugnata la città - capoluogo, si smembra di nuovo la contea nolana: il feudo di Palma, che ingloba Palma, Vico, Castello, Carbonara e San Gennaro, è venduto a Giacomo della Tolfa, conte di San Valentino, al prezzo di 7160 ducati. Nello stesso anno, il 1° luglio 1529, Fabrizio Maramaldo prende possesso del feudo di Ottajano, che comprende Ottajano, San Giuseppe, Terzigno e San Gennarello, dopo essersi impegnato a versare nella casse pubbliche centrali la somma di tredicimila ducati. Poco dopo, il 21 settembre 1529, la stessa città di Nola compra dalla Regia Camera l'autonomia amministrativa per sé e per i suoi sedici casali, sborsando 21.550 ducati. Da questo punto in poi le strade si diversificano in molteplici direzioni: ogni comunità, diventata "autonoma" anche nella delimitazione circostanziata dei propri confini, scrive nuovi capitoli storici a responsabilità sempre più personale.
Il 20 aprile 1461 il re Ferdinando I di Aragona concede in dono a Roberto Sanseverino la città di Caiazzo. Quindi nell'anno 1461 concede a Roberto i castelli e le terre di Campagnano, Allignano e i casali di Squilli per la ribellione di Giovanni Celano. Nell'anno 1483 Roberto cede tutti questi possessi al figlio Giovanni Francesco. Nel 1502 Roberto Ambrosio Sanseverino, essendosi ribellato, viene privato di Caiazzo e degli altri possessi ...
5 giugno 1785. Il nominato territorio della Starza della Regina (Giovanna II, moglie del re Ferrante I di Aragona, n. d. r.) sta posto nel recinto del territorio di Somma, poco lungi dall'abitato della medesima ed è di figura multilatera; la sua superficie forma un piano inclinato, elevato alquanto sull'orizzonte dalla parte di mezzogiorno; e confina nella seguente maniera: principia il confine dal luogo detto il Purgatorio, ove il torrente chiamato il Lagno della Starza attraversa la pubblica strada, che da detta città conduce al casale di S. Anastaso; e camminando per un muro tramezzante detto Torrente e il territorio si cala nell'alveo del suddetto; indi con proseguire il cammino verso settentrione per il detto torrente, si giunge alla pubblica strada, che da Somma conduce alla chiesa di Santa Maria del Pozzo; ed ivi il confine lascia detto Lagno e si ripiglia per la strada suddetta, fin che giunge nel principio dello spiazzo avanti detta Chiesa. Da questa girando a sinistra versoponente e camminando per la pubblica via, si ritrova sulla man sinistra la Casa del Passo ((Estratto da una relazione originale)).