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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
17 aprile 1893. E' bene riguardare la elezione politica di Torre Annunziata, anzi tutto, da un punto di vista generale. Il Catapano è nativo (San Giuseppe di Ottaiano) e risiede in Napoli - lo Zainy, invece, è nato altrove e risiede in Roma. Lo Zayny fu deputato di quel Collegio durante le legislature XVI e XVII - nel 30 e 31 1892 fa il suo giro elettorale per quel Collegio - e nel 6 novembre raccoglie voti n. 2129 sopra n. 4482. E, per converso, il Catapano, invitato dai suoi concittadini a presentarsi candidato del Collegio ai 29 ottobre 1892, nel 30 rifiuta - accetta, vivamente premurato, nella sera del 2 novembre. Fa il suo giro elettorale appena nel 4; e, nel 6 raccoglie, sui n. 4482, voti n. 2226. Questo risultato, relativamente splendido, ottenuto dal Catapano, che accettò la candidatura, vide e parlò ai suoi concittadini, due giorni appena prima della elezione, quando i più si erano già impegnati per lo Zainy, è dovuto all'immensa fiducia e simpatia, che, per le sue qualità e posizione sociale, egli gode, e più ancora al buon senso degli elettori di quel Collegio, Ed è una posizione di fatto questa, non soltanto affermata dal Catapano, ma venne ritratta al vero da tutta la stampa locale e di Napoli. Basta, all'uopo, leggere i giornali che si pubblicarono in quel tempo prima e dopo dell'elezione - come il Mattino, la Riforma, il Pungolo, il Momento attuale, la Cuccagna, il Frustino ed altri. 2. Il partito, che si trovava già impegnato per lo Zainy prima che il Catapano si fosse risoluto a scendergli competitore nella lotta ricorse a mezzi disperati e perfino illeciti e criminosi per vincere, come si raccoglie da un giornale locale, il Momento attuale. Ma a nulla valsero i suoi sforzi. Quel corpo elettorale volle prescelto al Parlamento un Deputato locale, che nel curare gli interessi della Nazione, conoscesse da vicino e ne curasse altresì gli interessi locali. E fosse un uomo che per le sue qualità, per i suoi precedenti e per la sua posizione fosse una garanzia dei nobili intenti di quel corpo elettorale. 3. E se questo fu e non altro lo stato di cose nell'elezione politica del 6 novembre 1892, chi può dire, e sul serio, che il Deputato voluto da quel corpo elettorale sia lo Zainy e non il Catapano? II. Non lo Zainy, candidato non riuscito, ma soltanto ventitré elettori, di cui quindici della frazione San Giuseppe e otto di Torre Annunziata, impugnano di nullità la elezione. Essi affermano che: I. Nelle tre sezioni elettorali di San Giuseppe di Ottaiano si sostituirono le schede a danno dello Zainy; II. Si ammisero in quelle tre sezioni a votare cittadini non elettori, mentre gli iscritti o erano preti e non votarono per l'expedit del Papa - o detenuti o assenti nelle varie Province del Regno o all'Estero, e non vi poterono votare; III. E, da ultimo, fuvvi nell'elezione ingerenza del Governo a prò del Catapano. E bene discutiamo di questi motivi di proteste di elettori - senza, però, tenere conto delle postume querimonie dello Zainy, che non ne protestò, al pari degli elettori, nelle forme e termini di legge. 5. E' un mendacio che si siano nelle tre sezioni di San Giuseppe sostituite le schede a danno dello Zainy.
Il crepitio delle armi e il fervore delle idee, che alimentano i germi della nuova coscienza in Europa e in alcune zone italiane, tra il 1830 - 1850, non scalfiscono affatto la coscienza della nomenklatura locale del tempo. I rintocchi spirituali, segnati dalla chiesa parrocchiale di San Giuseppe, sono vanificati dall'affarismo del sottobosco cittadino, preposto all'amministrazione dei beni ecclesiastici. Eppure la nomina dei due Amministratori, scelti per un mandato triennale dal Sovrintendente Presidente della Provincia di Napoli, su proposta non vincolante di una terna di nomi, avviene, in seduta collegiale, nel Consiglio Comunale (Decurionato), presieduto dall'allora sindaco di Ottaviano, Basilio di Prisco, sulla scorta della "correttezza e della diligenza" amministrative. Un controllo dello stesso Sovrintendente Presidente in loco di "carte, libri e scritture" sfocia, il 3 giugno 1833, nell'arresto di Saverio d'Ambrosio e nella rimozione di Crescenzo Boccia, accusati di aver seguito i ritmi dell'allegra finanza "senza aver mai reso alcun conto" all'organo amministrativo centrale. Al posto dei due inquisiti subentrano Luigi d'Ambrosio e Carlo Leone, coadiuvati, nelle loro mansioni, da un segretario che sostituisce, il 28 maggio 1834, la figura giuridica dell'amanuense "precedentemente autorizzata". I nuovi amministratori, che non brillano per dedizione verso la collettività, si trovano in enormi difficoltà nel sanare "l'ingente arretrato", anche perché i debitori non solo risultano morosi e renitenti, ma non esitano a ricorrere alla forza bruta per far valere il loro capriccio. Preoccupato della piega degli avvenimenti, il governo centrale invia, il 18 maggio 1835, lo stesso "razionale dell'Intendenza" provinciale Giovanni Rocco con l'incarico di riscuotere le somme debitorie, accompagnato da "due piantoni" e, eventualmente, coadiuvato dalla gendarmeria comunale, messa in stato di allerta dal Sottintendente del Distretto. Nemmeno questo intervento straordinario riesce a riempire le casse della Chiesa, dal momento che i due anni successivi vedono aggirarsi per le vie comunali quale esattore "degli arretrati dello stabilimento" Giuseppe Ranieri, che percepisce per questo mandato il compenso di ventiquattro ducati. Gli strascichi delle pendenze debitorie giungono, persino, nelle aule del tribunale, ove gli interessi legittimi della chiesa di San Giuseppe, difesi dall'avvocato del Comune, Michele Barra, trionfano contro l'ostinazione di Andrea Ammirati e gli eredi Ammendola, condannati a devolvere quanto dovuto e costretti a dare le relative garanzie con l'ipoteca dei fondi. Qualche altra lite giudiziaria, come quella contro Tommaso Tafuri di Maddaloni, conclusasi, nella prima fase processuale, con la condanna del moroso all'esproprio di beni, quale compenso di denaro non percepito, approda in appello con l'accusa di falso in bilancio contro gli amministratori della Chiesa. In altri casi entra in gioco la mediazione di "galantuomini" locali i quali, dichiarandosi pronti a rispondere di tasca propria, ottengono benefici sugli interessi arretrati. Nell'ambito di tale patteggiamento viene risolta la pendenza pecuniaria di Michele e Rachele d'Ambrosio mercé l'intervento di Carlo Leone. Certamente i registri contabili della Chiesa risultano un caleidoscopio quanto mai variegato sia nelle entrate che nelle uscite, in quanto le continue transazioni, le revisioni degli interessi, gli accordi fra le parti contribuiscono a tener desta la pazienza certosina di Luigi d'Ambrosio, cassiere per "la parte materiale" dal 1838 al 1840. Di sicuro, nelle pieghe del bilancio richiede un capitolo a parte la "compensazione" chiesta da Michele d'Ambrosio il quale, registrato, contemporaneamente, quale creditore e debitore, è autorizzato, l'8 gennaio 1840, a pagare quattordici ducati e cinquanta grana di resta; un altro capitolo viene aggiunto per la richiesta, avanzata dagli eredi di Onofrio Guadagno, i quali, il 7 ottobre 1840, ottengono di poter diluire negli anni una somma dovuta per l'accumulo di interessi: l'istanza di solvenza del debito di seicento ducati e di derubricazione, inoltrata da Carlo Leone, il 22 maggio 1849, implica un notevole dispendio di energie contabili e tecniche, dal momento che occorre sanare una anomalia procedurale: Carlo Leone e Saverio di Prisco, rubricati, rispettivamente, quali debitore e creditore, hanno agito di comune accordo nell'utilizzo della suddetta somma, come è attestato da una scrittura privata "in forza di pubbliche cautele" .......... (Pubblicato su "La Bardinella" di Luglio 1993).
Ad Ottaviano è in piena attività operativa la macchina organizzativa per allestire quanto concorre a celebrare la ricorrenza annuale del patrono San Michele.
La festività, la cui scansione si snoda nell’arco di quattro giorni, dal sette al dieci maggio, prevede una serie di manifestazioni, religiose e laiche, diurne e serali, incastonate in un cerimoniale variegato: processioni, luminarie, volo degli angeli, palio degli asini, sfilata dei carri, musica, canti e fuochi pirotecnici.
Non è fuor di luogo, nella immediata vigilia dell’avvenimento, elaborare qualche riflessione generale in merito, finalizzata a far uscire l’evento dalla vacua rigidità celebrativa ed a favorire l’avvento di qualche timido seme di consapevolezza critica su un segmento del nostro momento storico.
All’uopo non c’è bisogno di scomodare gli studiosi di antropologia culturale per affermare che la suddetta festa ottavianese rientra a pieno titolo nell’ambito dell’antica tradizione popolare grazie alla presenza di alcuni suoi segni precipui che ne saldano l’intimo legame con l’atavico ed eterno ciclo agrario.
Infatti, essa, interrompendo l’attività lavorativa quotidiana, colma la sofferta solitudine del singolo, ne sollecita la cultura dell’incontro con gli altri nella comunione amicale ed affettuosa, propedeutica all’associazione sociale. Il mese di maggio comporta, nel calendario agricolo, l’irrorazione delle viti con il verderame. L’affollata e commovente processione religiosa con la statua dell’arcangelo San Michele per le vie cittadine, testimoniando il chiaro innesto del cristianesimo su preesistenti riti pagani, ne caratterizza la finalità della propiziazione divina. Il volo degli angeli, rappresentati da due bambini, tenuti sospesi in aria grazie ad un congegno di carrucola, chiamato “carrocciolo”, fino alla supplica rivolta al santo patrono in favore di tutta la cittadinanza, denota l’aspirazione collettiva a creare il ponte ideale dal cielo alla terra. L’asino simboleggia, fin dall’epoca esopica, la pazienza esperita nel duro lavoro nei campi. La sfilata dei carri richiama il recupero memoriale delle originarie borgate ottavianesi, speculari del senso dell’appartenenza. Lo sparo dei fuochi pirotecnici, portando in superficie ancestrali paure recondite attraverso emozioni antitetiche, legate al contrasto sinestetico buio – luce, rumore – silenzio, fuoco - pioggia, adempie alla funzione catartica e votiva, in cui coesistono il fardello del passato sempre presente nelle latebre dell’animo e l’agile sogno del futuro. Il canto, la preghiera e la danza denotano altrettante espressioni di una comunità viva che porta impressi sulla sua pelle i codici indelebili della esperienza esistenziale vissuta nella interezza della sua problematicità. Pertanto da siffatto quadro emerge un dato di fondo incontrovertibile: il rapporto della civiltà rurale dei nostri padri con l’ambiente naturale circostante si rivela incentrato su sentimenti di rispetto, di amore e, soprattutto, di timore. Alla luce di tale considerazione basilare scatta immediato l’interrogativo di fondo: cosa abbiamo mutuato di positivo noi figli dalla lezione del passato circa il rapporto verso l’ambiente? Nella risposta si misura il grado di elaborazione effettiva e salutare della stessa tradizione la quale, se opportunamente rinnovata e rinverdita, agevola il successivo cammino agli eredi. Nello specifico lo sguardo, pur effondendosi fugacemente in opposte direzioni territoriali, rimane inorridito e angustiato dal sistematico scempio prodotto dalle nostre mani, trasformate per l’occasione in tremendi ed acuminati artigli. Il pensiero vola dapprima in montagna la quale, pur facendo parte del sedicente parco del Vesuvio, è stata trasformata in discarica perenne, dal momento che se ne reitera la destinazione ricettizia di rifiuti con l’ultima trovata di allocare lo sversatoio proprio nella cava terzignese. In tal modo con il cuore gonfio di tristezza delibero di scendere da queste alture montane, violate nella loro essenza di riserva naturale, attraverso le piccole strade a “gira – poggi” sapientemente costruite all’indomani della eruzione vulcanica del 1906 e desisto dal cercare le tracce delle selve demaniali di un tempo, di cui si sono persi, persino, i nomi e le ubicazioni. La voluta riproposizione onomastica almeno delle principali sezioni silvane, quali Piano del Fico, Cerri, Piscinale, Schiappagrande, Campitelli, Paliata, Finelli, Muroli. Guastaferri, Borde, Cafurchio e Mauro obbedisce al mio preciso disegno di non essere affatto intenzionato a sottostare agli attacchi onnivori della dimenticanza assurda. Del resto la spessa coltre dell’oblio, dominando su una parte importante del vissuto topico, minaccia la sopravvivenza della nostra identità, protesa, nell’empito libertario, lungo i secoli scorsi, tra l’altro, a difendere i cosiddetti usi civici, la cui fruizione conferisce al demanio lo stigma indelebile del possesso collettivo. D’altro canto in questa falda i torrenti, che si snodano tra il versante di Terzigno e quello di San Giuseppe Vesuviano, sboccano in vasche di assorbimento: Camaldoli, Campitello, Pepparulo, Zabatta con gli affluenti Crispo, Palomba e Recupo, San Leonardo con gli influenti Spiriti e Vivenzio. Quelli, appartenenti al versante di Ottaviano, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia, si scaricano nei regi lagni. Alcuni vi pervengono attraverso il collettore Alberolungo: il Piazzolla con gli influenti Rosario e Carmine, ingrossati a loro volta dai colatori secondari Subisseo, Neve e Saviano; il Santa Teresa con gli influenti Zennillo, Bosco I, Bosco II, Macedonia e Costantinopoli. Tale patrimonio naturale risulta del tutto ignoto ai giovani i quali stentano a credere alla riesumazione del vissuto anche perché l’attuale spettacolo circostante si presenta completamente trasformato. Non a caso a valle non si riesce a percepire più la linea di demarcazione che segni la fine della selvaggia cementificazione; ormai diventa impossibile rintracciare un vero polmone verde, dal momento che l’intera zona, avvolta da un conurbamento strozzante, esala aria pesante e, talora, miasmi maleodoranti. Non oso nemmeno immaginare secondo quali criteri e cosa abbiamo incanalato nel sottosuolo, sacrificato al bisogno impellente della viabilità a tutti i costi. A questo punto, spinto da una inconscia attrazione, mi trovo immerso nella fiumana umana festante a Ottaviano e mi soffermo ad assaporare alcune leccornie esposte sulle bancarelle per attutire, forse, la vigente amarezza valoriale.
Nell'immenso panorama delle storie locali, incentrate, per lo più, sull'analisi orizzontale degli avvenimenti, occupa un posto di rilievo l'ultimo lavoro di Giorgio Mancini, Sepeithos, animato da una visione analitica trasversale e subtettonica, grazie alla quale il corso storico si vivifica nella sua sinuosità, man mano che erompe dal sottosuolo alla superficie, illuminando gli aspetti circostanti. Il tema centrale del libro è il fiume Sebeto, nei cui meandri l'autore, utilizzando un vasto repertorio attinto da fonti poliedriche, compie un'ampia e meticolosa navigazione, prendendo l'abbrivo dall'antichità greca e, attraverso una serie di tappe diacroniche, sempre puntuali e circostanziate, approda ai nostri "infausti" giorni. Ai due momenti itineranti corrisponde una diversa dimensione spirituale, sottesa alla mutata temperie: lontano dal nostro presente, l'atmosfera è improntata a solarità piena e sfavillante, in quanto lo sguardo si colma di gioia nel penetrare nelle pieghe del mito e del valore che i nostri padri hanno sempre nutrito verso il fiume; viceversa, un velo di malinconia si insinua nel cuore, allorché si constata l'insana follia contemporanea, che ha ridotto il Sebeto ad un malsano e putrido sversatoio industriale. Eppure la navigazione è contrassegnata da continui e salubri tuffi storici nell'alveo del suddetto fiume, ove è possibile ammirare il suo antico paesaggio variopinto di emissari e di immissari, nonché la sua abbondante ricchezza floreale e ittica (Estratto dell'introduzione all'opera).
La nascita del presente giornale coincide con un momento particolare e delicato del nostro Liceo, polarizzato tra due opzioni antitetiche, l’espansione o lo stallo, i cui rispettivi termini di riferimento contemplano, da una parte, l’urgente ampliamento del numero delle aule con la realizzazione del sotteso progetto di una sede più grande, dall’altra, la cura esclusiva dell’esistente, incardinata nelle trentuno aule attualmente in dotazione.
Il recente flusso storico, immessosi nel filone delle sue vivaci origini, le quali affondano le loro radici nella germinazione autonomistica, avvenuta, per distacco dall’omologa istituzione madre di San Sebastiano al Vesuvio, il 1° settembre 2001, indica la proiezione direzionale in chiave espansiva, nella cui dinamica mi identifico pienamente. Tale scelta, però, richiede l’assunzione di mature responsabilità da parte di tutti gli operatori, docenti e ATA, decisi consapevolmente ad affrontare le sfide dell’immediato futuro, implicite nelle nascenti domande sociali e nel concetto stesso dello sviluppo.
In questa angolatura si innesta perfettamente il titolo stesso del giornale, “L’Urlo”, metaforicamente espressivo della esigenza generale della famiglia liceale, già pronta a mettersi in discussione in vista di ulteriori traguardi ideali, speculari del comune senso di appartenenza e dell’idem sentire. Pertanto l’urlo, alieno dall’imitare l’attuale tendenza di alzare il timbro della voce per far sentire il flebile pensiero debole, si riferisce, invece, alla forza vibrante delle nostre idee forti le quali, supportate da una forte caratura culturale, ne rivendicano la irradiazione nel territorio circostante in un benefico rapporto di feed – back. Del resto qui si annida la funzione specifica del nostro Liceo, divenuto polo di riferimento indispensabile per qualsiasi progettualità grazie all’ampio quadro di riferimento relativo alla formazione e alla istruzione, incluse nell’offerta formativa e finalizzate allo sviluppo della realtà territoriale.
Ma la novità sostanziale del giornale si concretizza nel vivo delle sue colonne, la cui essenza si alimenta con la contemporanea presenza plurale di alunni e di docenti, accomunati dallo sforzo di dare vita ad un ulteriore strumento di informazione. Così i surriferiti attori, latori di un identico programma, agiscono sinergicamente non solo per leggere il contesto limitrofo in maniera circostanziata, ma anche per incidervi in modo profondo con interventi salutari.
Con questi auspici ideativi e prassici nasce il nuovo giornale. Il programma è pronto: con l’inizio del nuovo anno scolastico daremo fiato, ogni due mesi, alle nostre voci.
Solo un immenso ed indomabile atto di amore dà un senso completo alla vita e alla poesia. Tale verità, valida in tutti i tempi, rivela una sua pregnanza semantica, soprattutto, nel mondo attuale, ove il grido rozzo, volgare e sguaiato, di mero effetto mediatico, tenta di violare, persino, il segreto recondito delle coscienze più nobili, assorte nel loro eloquente ed affascinante silenzio.
Proprio alla suddetta sorgente cristallina di alta caratura valoriale, inverata in re grazie alla testimonianza attiva e costante, attinge la presente raccolta poetica, voluta dalla prof. ssa Maria De Luca la quale, avendo perso la figlia in maniera tragica, ha elaborato il suo ineffabile dolore personale, all’interno e all’esterno della sua professione, nei termini di ulteriore dedizione materna verso i giovani, la cui genuina voce, sintonizzandosi sulla stessa linea d’onda interiore, ne amplia l’eco formando un delicato e pensoso coro, proiettato a dimostrare la realizzazione concreta di un effettivo ponte dialogico ad ampio spettro tra il passato e il presente, tra il cielo e la terra. Ed il prodigio si dischiude in tutta la sua interezza: le parole si sostanziano in idee e fatti.
Siffatto timbro di malinconia soffusa si espande, al di là dei singoli risultati conseguiti, nelle intime fibre di tutti i componimenti poetici, impegnati, quasi all’unisono, a formulare gravi interrogativi sui novissimi esistenziali, vissuti sotto forma di attesa e di sogno, di aspirazione e di desiderio, di scatti e di progetti, di nuances e di dispetti, speculari della età innocente degli autori, dotati, però, di profondità riflessiva, in barba a falsi stereotipi di marca opposta.
Queste tematiche gravitano nell’ambito dei modelli letterari più vari, legati, in massima parte, alla esperienza scolastica recente o passata, donde prorompe ora la rima, ora il verso libero, ora la prosa ritmata. Non diverso risulta il timbro linguistico che spazia dal recupero secco del significato primigenio all’uso metaforico, dalla espressione irruente alla pausata affermazione, dalla concitata esternazione alla esclamazione strozzata tra le labbra, dalla stridente domanda al fulmineo disvelamento emozionale: ogni predilezione espressiva, che promana indicibile candore affettivo, sgorga all’insegna della imprevedibilità e della spontaneità assoluta in un gioco intricante di colori e di suoni, la cui gradazione, riverberandosi in ogni direzione con forza autonoma, crea sfondi piacevoli e suggestivi.
Inoltre il composito registro delle immagini, spaziando in lungo e in largo, mutua dai molteplici comparti della natura abbondante materiale di supporto, rivisitato nelle infime connessure e vivificato da spiccata tensione umana, donde scaturisce un mondo variegato nei topoi, ma interrelato per la compresenza dei medesimi brividi contenutistici.
A questo punto è preferibile, forse, arrestare la penna e fermarsi ad auscultare le note poetiche, la cui musica, inebriando lo spirito adagiato su di una liana sospesa nel vuoto e fluttuante al vento cosmico, corrobora ancora una volta una mia idea fissa: i giovani sono davvero interessanti sotto tutti i firmamenti dell’universo.
1955. Ecco un altro amico ci ha abbandonati: uno dei più cari che lasciano un vuoto incolmabile nel nostro cuore. Il lutto è gravissimo per tutti: per la sua famiglia, che è stata improvvisamente colpita da tanta sventura; per la scuola, che ebbe in Lui un nobilissimo rappresentante; per la scienza, alla quale l'Ammendola, come vedremo, recò un valido contributo; infine per la nostra rivista, di cui egli fu non un semplice abbonato, ma anche un sincero ed entusiasta sostenitore. L'ultima cartolina, che qui riproduciamo, era datata dal luglio .... Egli era nato da Gaetano e da Tortora Rachele a San Giuseppe Vesuviano il 2 settembre 183 e mancò ai vivi in Napoli il 6 luglio di quest'anno ..... (V. D'Agostino, In morte del prof. Giuseppe Ammendola, Edizione Ruata, Torino, 1955)
...... Faccio erede universale Scipione Pignatello mio nipote, figlio primogenito di mio fratello Camillo. Voglio che il mio corpo venga seppellito nel monastero di San Giovanni del Parco solo con dodici torce e senza alcuna pompa nella sepoltura che ho fatto dietro l'altare maggiore in cui sono sepolti i corpi di Isabella Caracciolo mia moglie e mio figlio Camillo.... E succedendo in Napoli il mio corpo sia depositato nella chiesa di Santa Maria senza pompa e si trasferisca alla detta sepoltura di Lauro. Item lascio che il corpo di Mutio Pignatello mio figlio debba condursi alla stessa sepoltura dentro il medesimo tabuto che si ritrova al presente nella chiesa di Santa Maria dei OPignatelli ... Lascio ad Ascanio mio figlio 46.000 ducati correnti ....
28 agosto 1521.
.....Maria dice che ha la terra di Lauro con i suoi casali Felino, Fontana, Taurano, Muscano, Yma, Quindici, Bresagra, Beato, Pignorio, Migliano, Casola, Dimocella, Marzano, Sopravia, Pago, Pronosano e Visciano ...