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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nel 1382 Nannolo Minutolo compra da Angelo de Actavolis la terra di San Valentino con i suoi casali di Casatori e delle Curti.
Alla morte di Giovanni Battista Capece Minutolo, avvenuta il 21 settembre 1583, il feudo passa al figlio Troiano Capece Minutolo il quale ne paga la tassa di successione il 15 settembre 1584.
Alla morte di Giovanni Battista Capece Minutolo, avvenuta il 22 febbraio 1654, il feudo passa al figlio Francesco Maria Capece Minutolo.
La città era costituita da ottantasei casali o castelli, posseduti da sessanta baroni. La prepotenza di questi ultimi fece in modo tale che gli abitanti dei casali si sollevarono e li uccisero. In seguito a ciò gli abitanti dei suddetti casali decisero di unirsi e di edificare la nuova città, al cui interno edificarono tante contrade con chiese quanti erano i casali di provenienza.
Il libro nasce da questa riflessione di fondo: l'autonomia amministrativa di San Giuseppe Vesuviano da Ottajano, sancita dal Decreto Reale del 19 febbraio 1893, avviene senza alcuna ripartizione dei demani e degli immobili pubblici, comuni alle due comunità cittadine. Il fenomeno, ascrivibile ad una precisa volontà "politica", sottende una serie di fattori variegati e di rimandi nel tempo, il cui crogiolo esplode nei primi anni dell'Ottocento, allorché la legge sulla eversione della feudalità, introdotta dalla dominazione francese, libera i nostri padri dalla opprimente violenza del feudatario. In tale contesto gli effluvi libertari sembrano reificarsi in forme sempre più solide e più profonde nell'immediato sotto l'influsso della legislazione di grande prospettiva riformistica. Non a caso recitano il ruolo di comprimari gli umili, i nullatenenti, chiamati a riappropriarsi, previo sorteggio, di una parte del demanio, denominato Borde e Cafurchio, precedentemente adibita a riserva di caccia reale ed ora ceduta volontariamente dallo stesso re alla nostra comunità. Ben presto, però, l'apertura populistica rivela la debolezza delle angolature intimamente sottese alla suddetta operazione ripartitoria. Infatti, in tale occasione, richiedente l'esborso del canone annuale e delle spese per la coltivazione della quota demaniale sortita, favorisce la coagulazione di strane cordate finanziarie. In queste ultime entrano a supporto molti "galantuomini" fin dall'esordio, allorché si formano diverse società, nelle quali i singoli garanti, grazie alla malleveria pecuniaria, prontamente versata nelle casse pubbliche, ma non onorata dai debitori entro il tempo pattuito, diventano di fatto i proprietari. Proprio costoro, dopo aver infranto il sogno della loro eterna controparte, scorazzano imperterriti lungo i sentieri del demanio al fine di imporvi i propri interessi apertamente o surrettiziamente. La loro cavalcata, agevole e veloce in sulle prime, diventa impervia e dura per diverse concause, ambientali e politiche: le prime si appellano alla congiuntura economica o alle catastrofi vulcaniche e alle cosiddette piogge "acide"; le seconde si connotano nell'intervento dello Stato, deciso a riprendere il controllo del territorio. Ne deriva uno scontro frontale, ove confliggono interessi privati e collettivi, non sempre separati né identificati nettamente, né definiti in tempi e con modalità accettabili, dal momento che il costante ricorso processuale, oltre a rimandarne sine die la irrogazione della sanzione, alla fine risolve ogni questione sempre in una transazione bonaria e minimale rispetto al dovuto, il che depaupera le casse comunali di entrate importanti per la gestione dei servizi sociali, su cui si abbatte la cogente elusione operativa. Nel frattempo lo scenario circostante si anima di una "umanità" variegata e concreta, adusa, in funzione delle specifiche risorse economiche, a sbarcare il lunario alla meglio o ad attivare complicate procedure speculative, a centellinare, persino, le primarie esigenze familiari o a mettere sul banco enormi somme di denaro in contanti, a fungere da testa di legno o ad affrontare un affare importante in prima persona, a tentare qualche espediente di piccolo cabotaggio o a violare sistematicamente l'ordine costituito, a provare i rigori del carcere o a vanificare il teorema investigativo con artefatte controdeduzioni redatte all'occorrenza dall'abile avvocato di turno. Tutto ciò si svolge tra le pareti domestiche o nello studio notarile o nell'aula del tribunale o nella cancelleria comunale o all'aria aperta: ovunque echeggiano le voci più disparate nei toni, nel timbro e nelle reazioni. Se ne avvertirò la minima eco nella pagina, diluirò la fatica della ricerca, difficile per la novità della materia, intonsa e inesplorata, nella consapevolezza dell'impegno civico, per il cui trionfo continuo a percorrere la strada del recupero memoriale della mia terra verso la quale nutro un immenso affetto filiale (Introduzione del libro di Luigi Iroso, "La resa dei conti", San Giuseppe Vesuviano, 2009).
Il 1575 rappresenta un anno storico fondamentale per Afragola, in quanto esso segna la data del suo riscatto dal sistema feudale. Non a caso il feudatario pro tempore, Paolo Capece Bozzuto, possessore della parte feudale di Afragola, inoltra la domanda al viceré Lopez Ursada de Mendoza per comprare l'altra parte demaniale del territorio, offrendo la cifra di settemila ducati. La popolazione afragolese, non sopportando più l'oppressione del feudatario, avanza l'offerta di compera sia della parte feudale che di quella demaniale, impegnandosi a versare, rispettivamente, ventimila ducati nelle casse del barone e settemila in quelle della Regia Corte.....
Nel 1506 il capitano Demetrio Capusman compra dalla Regia Corte la terra di San Marzano, posta nella terra di Otranto. La compera viene confermata dalla cedola dell'imperatore Carlo V e registrata nei quinternioni e nel cedolario. Il feudo rimane nell'ambito della famiglia dell'acquirente fino al 1639, allorché, ad istanza della Regia Corte per crediti avanzati dal fisco e da altri creditori nei confronti di Demetrio Capusman il giovane, la terra viene posta all'asta. Francesco Lopes ne diventa il nuovo proprietario al prezzo di ventimila ducati, fra i quali vanno compresi i beni burgensatici (non feudali) valutati 2530 ducati. Quindi dal re Filippo IV egli ottiene il titolo di marchese di San Marzano.....
2 maggio 1601. In primis si è stabilito che ogni anno nel giorno dell'Assunzione della Madonna festa proprio della chiesa di Santa Maria della Manna della terra di Agerola dello stato di Amalfi dove si trova eretta la cappella di detto Monte, si debbiano eleggere quattro protettori in esso uomini di vita esemplare e facoltosi che più presto bisognando possano con le loro facoltà sovvenire al Monte che altrimenti che due di essi assistano in Agerola e due in Napoli, purché detti assistenti in Agerola uno sia del luogo di Campora e l'altro del luogo di Pianillo, et il simile si intenda degli assistenti in Napoli. L'elezione dei quali si farà nel modo seguente: lo stesso giorno dell'Assunzione come di sopra si congregheranno nella suddetta chiesa di Santa Maria tutti quattro i patroni vecchi (se potrà essere) i quali consultati alcuni giorni prima tra loro e fatto scelta delle persone più atte al governo di detto Monte si scriveranno per mano del segretario otto nomi delle persone scelte in otto cartelle, essendo però quattro di esse del luogo di Pianillo e quattro del luogo di Campora e che quattro di essi ne assistano in Agerola e quattro in Napoli, le bussole fanno in due volte, acciò vengano compartiti e che dei due protettori assistenti in Agerola l'uno sia di un luogo e l'altro dell'altro come di sopra e così degli assistenti in Napoli. Le quali otto cartelle si poneranno per mano del detto segretario in due bussolette in due volte cioé quattro per volta e fatto cavare una di dette cartelle per bussoletta per mano di un fanciullo o altra semplice persona si leggeranno in pubblico e quelli che usciranno saranno eletti per protettori.
Nel 1608 l'Università di Paduli, oberata dalle ingenti somme pagate annualmente ai creditori, si vede costretta a chiederne nel Sacro Collegio una dilazione. Particolarmente rilevante risulta il credito di Salvatore Fasulo, pari a 17.955 ducati, di cui 14.965 come capitale e 2.990 come interessi. A questo punto viene ordinato l'inventario dei beni pubblici, tra cui si annovera il bosco denominato Verdito. Quest'ultimo, dotato di case e di forni, viene valutato 18.000 ducati. La successiva controversia tra le due parti in causa si compone nel 1615 con un accordo benevolo, grazie al quale gli eredi di Fasulo si aggiudicano il possesso del sudetto bosco. Di lì a poco di apre il divario, in quanto i fratelli Fasulo pretendono altri settemila ducati per interessi inevasi, mentre l'Università si duole di essere privata del bosco. Segue un altro accordo: i creditori retrocedono dalle loro eccessive pretese pecuniarie, la cui riduzione comporta l'impegno pubblico a soddisfarla con rate annuali. Tale decisione, presa in pubblico parlamento, riceve l'assenso delle autorità superiori. Ma i fratelli Fasulo nel 1635, in occasione dell'avvento di un locale "governo amico", rivedono la questione a condizioni favorevoli. Anzi nel 1639 vendono tre parti del bosco a don Pasquale di Lisio al prezzo di novemila ducati.
L'opera di Nicola Nicodemo risulta significativa nello scoprire la congiura tramata da molti ribelli, decisi ad uccidere, nella notte del 22 settembre 1701, il viceré Duca di Medina Coeli, ad occupare il regio Castello Nuovo e a consegnare la Città e regno di Napoli nelle mani delle armi austriache, allora nemiche. I fatti si svolsero in maniera diversa dal progetto: la maggior parte dei congiurati fu giustiziata nella mattina seguente del 23 settembre, il Viceré si rifugiò incolume nel real Castello Nuovo, Napoli e il regno non provarono l'onta della disfatta. Il Viceré, a titolo di riconoscenza, concesse a Nicola Nicodemo una gratificazione di tremila ducati, come si evince dal suo "biglietto" del 31 dicembre 1701. A sua volta il re Filippo V vi aggiunse la promozione dell'interessato alla carica di giudice della Vicaria con lo stipendio di mille ducati annuali. Tuttavia la vita fu avara nei confronti di Nicola, il quale morì improvvisamente nel 1704. Allora il re Filippo V, manifestando memoria lunga, concesse ad Angelo, padre di Nicola Nicodemo, i suddetti mille ducati in perpetuum e la facoltà di poterli dividere alla sua morte tra il figlio Ottavio e i nipoti, come attesta il real diploma del 26 luglio 1705. Dopo due anni, però, il 7 luglio 1777 entrano nel regno le armi austriache, le quali tolsero anche alla famiglia Nicodemo il godimento di qualsiasi privilegio. La situazione rimase identica per i ventisette anni del dominio austriaco. Nel frattempo morì Angelo. Tuttavia nel 1734 si ribaltò il dominio straniero e ciò coincise con il riconoscimento a Ottavio e Giuseppe Nicodemo, zio e nipote del giudice, il ripristino degli antichi privilegi, incentrati nei centocinquanta ducati di interesse sui tremila e nei mille ducati, documentati con real carta del 18 giugno 1734. A questo punto la guerra più aspra si accese nelle aule del tribunale del Sacro Regio Consiglio, ove i cugini Francesco Saverio Notargiacomo e Lorenza Nicodemo avanzarono la pretesa di godere dei suddetti privilegi, ritenendo di rientrare a pieno titolo nell'asse ereditario di Nicola Nicodemo.
Formicola e i suoi casali hanno sempre costituito un solo Comune, governato da uno stesso giudice e da uno stesso barone. Non prima del 1758 il casale di Saffo realizza il suo sogno di diventare autonomo grazie agli appoggi e alle aderenze di Paolo Campagnano il quale, essendo il più ricco della provincia, grazie a questo espediente autonomistico, paga meno tasse di prima. Non a caso non si sa per quale motivo l'avvocato del Comune non rivelò i motivi che dovevano motivare o vietare l'autonomia. Su questa scia si collocò, nel 1771, il casale di Schiavi.
La rievocazione è un esercizio duplice e, quindi, necessariamente ambiguo. Da una parte essa costringe, nel momento più amaro del cordoglio, a recuperare una memoria che proprio in questi istanti si preferirebbe tenere a distanza per poter elaborare silenziosamente il dolore del lutto. Dall’altra, tuttavia, la mente sente l’ineluttabilità e la cogenza di questo recupero, e proprio in questo modo comincia ad avere la speranza di poter mettere in secondo piano, o quanto meno, di attenuarne lo strazio.
Mi esprimo così di getto, dando libero corso alla vorticosa fiumana emozionale, perché risulta estremamente difficile tenere ferma l’assenza definitiva di una persona come il preside Felice Borrelli, assenza da cui comunque parte questo esercizio personale di amarezza. Il flusso dei pensieri allora sarà per me fondato sul tentativo di recuperare l’immagine complessiva dell’uomo che è diventato, in anni per me decisivi dal punto di vista professionale ed esistenziale, non un mero punto di riferimento, ma l’assoluta presenza della esemplarità del bisogno di conoscenza, nonché del sostegno affettivo, assoluto. Ancora più paradossale appare, dunque, dal momento che ho appena sottolineato la dimensione presenziale dell’uomo, dover tornare al fatto insostenibile della sua scomparsa, cioè appunto della sua assenza. E’ stato proprio lui in qualche circostanza a farmi intendere il carattere contraddittorio e lacerante dell’esperienza umana, questo suo intricato gioco di rimandi tra opposti, il cui moto ondivago improvvisamente si trasforma in tragico dramma.
Maestro sopraffino, infatti, dell’arte di leggere i testi della tradizione, ma anche a noi molto prossimi, lettore non sofisticato di assurde ed inutili astrazioni, bensì dotato della capacità di intus legere, di leggere dentro in modo empatico e dialogico la grande poesia e la grande prosa, egli aveva estratto da queste lunghe frequentazioni ermeneutiche un sapere, come dice la grande saggista spagnola Maria Zambrano, “dell’anima”. Un sapere cioè inscindibile dai battiti concreti della vita, proprio per questo attento al patirne tutte le contraddizioni, ad individuarne tutti i limiti, ma nello stesso tempo a valorizzarne le sfumature più arcane e, però, essenziali al tentativo di mettere a fuoco la condizione umana in tutta la sua problematica interezza. Tutto quello che di straordinario egli comunicava e trasmetteva era sempre attenuato e quasi ingentilito dalla sua volontà di mettere l’interlocutore a suo agio, tanto da far sembrare le sue indicazioni soltanto delle semplici e leggere note a margine. Sembrava quasi chiedere scusa di essere quello che manifestamente era: un eccezionale evocatore di verità. Ricordo l’umiltà con la quale un giorno mi chiese cosa pensassi di una poesia particolarmente indecifrabile nella sua bellezza di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Naturalmente lui aveva, nel frattempo, letto diverse interpretazioni di quel testo poetico e lui stesso ne aveva delineato una sua personale. Invece di rovesciarmi addosso, tuttavia, l’enorme ricchezza accumulata in molti giorni e notti di lettura, volle che fossi io, liberamente e senza troppi giri retorici, a indicargli uno spunto o una suggestione. Preso alla sprovvista e tuttavia avendo meditato per conto mio su quei versi, ebbi l’immensa felicità di potergli indicare, in seguito a lettura contrastiva dei versi pavesiani, il senso di luce e di liberazione dall’orrore della morte che essi mi avevano trasmesso: gli occhi della fine, di ciò che non ha volto, sono gli occhi della donna amata, ossia di chi supremamente segna il destino dell’uomo, accompagnandolo persino durante la discesa terminale nel “gorgo”. E questo basta per poter continuare ad esistere sperando. La sua commozione, nel sentire queste parole, fu immensa perché aveva individuato anche lui, ben lontano dalle lugubri e fumose elucubrazioni di alcuni sedicenti esperti, una possibilità così semplice e nel contempo così alta di redenzione.
Intanto non riesco a chiudere l’album personale dei ricordi, in quanto la pregnanza umana del preside Felice Borrelli continua a battere alle porte con indomita forza e ne spalanca gli orizzonti prospettici, sui cui nitidi orli si stagliano ulteriori testimonianze egualmente eloquenti del suo magistero che mi porta ancora per qualche attimo a spaziare indietro nel tempo. Fu, infatti, ancora lui, in momenti in cui noi giovani docenti provavamo a portare il Novecento letterario tra i nostri allievi liceali, a segnalarmi dei testi da aggiungere a questo nuovo e difficile canone che andavamo costruendo, dando prova di profondo spirito critico e aperto alle più rivoluzionarie proposte culturali. Da buon conoscitore di Leopardi, mi servì una preziosa dritta nello splendido finale di un romanzo di Carlo Cassola, “Il taglio del bosco”, dove si riverberano illuminazioni decisamente leopardiane. In tal modo il testo suggerito, che noi non ancora avevamo preso nella debita considerazione analitica, divenne oggetto di approfondite letture e di interminabili discussioni in classe, nelle quali fu coinvolto lo stesso autore, di cui conservo gelosamente il relativo intervento in originale.
Maestro non lo dicevo a caso. Maestro anche di una idea completamente diversa di scuola, fondata sul recupero della valorialità e sulla forza dell’esempio, sulla potenza della trasmissione di contenuti non effimeri e sulla necessità di impostare a tutti i livelli e con ogni mezzo il dialogo intergenerazionale, virtù che egli esperiva con disinvoltura in ogni frangente della quotidianità. Sapeva in effetti parlare in maniera chiara con tutti, adoperando la lingua che la circostanza richiedeva, ma senza mai piegarne i significati e la forza plasmatrice alla banalità di un comunicare qualunque. Per questo era sempre e fondamentalmente un uomo “integrale”, per usare un aggettivo caro a Jaques Maritain, ossia tutto ciò che era e faceva compariva nella sintesi continua delle sue parole e delle sue azioni. Nell’epoca che celebra la doppiezza come una dimensione, a mio parere, pessima della verità, lui ha , invece, sempre stroncato ogni forma di simulazione, ha messo al bando ogni forma di ambiguità, ha issato sempre il vessillo della coerenza lungo le ineludibili coordinate della saggezza classica: idem in corde atque in ore. Per questo nessuno di quelli che lo hanno conosciuto ha mai potuto veramente fare a meno di volergli bene. Io ho l’onore, per quanto attraversato dal dolore, di annoverarmi sinceramente tra quelli (Articolo pubblicato su La Tribuna, Anno XXII, 7 - 15 aprile 2010).