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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
6 febbraio 1865.
Signori Consiglieri, il franco linguaggio che io andrò a tenere in questa mia breve esposizione, se fosse stato tenuto prima che la Città nostra avesse dato tante splendide prove di abnegazione vero l’Italia, avrebbe forse potuto essere interpretato come dettato da spirito municipale; ma dopo il generoso contegno dell’intiera popolazione negli ultimi rincontri e le prove incontrastabili dei suoi sentimenti unitari e nazionali, i suoi rappresentanti senza tema di essere redarguiti di municipalismo hanno il diritto di alzare la voce per far sì che le venga impartita quella giustizia, che sinora io non so se per opera degli uomini o del fato non ha potuto ottenere.
L’unificazione delle leggi finanziarie in Italia, prima che le condizioni economiche delle varie Province venissero uguagliate, produsse tale spostamento di interessi materiali nella più parte delle Province meridionali e particolarmente in Napoli, che il solo amore dell’unità nazionale ha potuto far tollerare.
Una delle più grandi sventure di questa città è stato il completo isolamento nel quale finora si è cercata ridurla e tenerla.
Una città di 500.000 abitanti, che era centro di movimento amministrativo ed economico di nove milioni di popolo; che sperava nel novello ordine di cose di vedersi largamente ricambiati quei vantaggi con comunicazioni ferroviarie col testo di Italia, con grandi stabilimenti meccanici, col porto e collo sviluppo delle industrie e del commercio, si vede per cinque anni trascurata nei suoi più vitali interesse economici.
Il sottoscritto, incaricato della distruzione del brigantaggio, promette una mancia di franchi 100 per ogni brigante vivo o morto, che si presenterà. Tale mancia sarà pure data a quel brigante che ucciderà un compagno, oltre di avere salva la vita. Diffida che sarà immediatamente fucilato chi dia ricovero o mezzo qualunque di sussistenza o di difesa ai briganti e vedendoli o sapendone il luogo, dove si sono rifugiati, non ne dia avviso sollecito alla forza ed alle autorità civili e militari. Tutte le pagliaie debbono essere abbruciate;le torri e le case di campagna, che sono abitate e custodite da forza, debbono essere fra tre giorni scoperte e le aperture venire murate. Scaduto tale termine, saranno bruciate, come saranno uccisi gli animali senza la necessaria custodia di forza pubblica. Resta proibito portare pane e viveri di qualunque fuori l'abitato comune e sarà tenuto come complice dei briganti il contravventore. L'esercizio della caccia è proibito. La guardia nazionale è responsabile nel territorio del proprio comune. Il sottoscritto non intende vedere in questa circostanza che briganti e controbriganti. Perciò tra i primi terrà chi voglia restare indifferente e contro questi prenderà misure energiche. I soldati sbandati, che non si presenteranno tra quattro giorni saranno considerati briganti. Celico (Calabria) 1° marzo 1862.
Gli studenti del R. Liceo Ginnasio "A. Diaz" hanno dato il 26 giugno uno spettacolo "Pro Patrioti". Ecco il resoconto inviatoci dal corrispondente locale: "Benché non molto brillante, questa commedia di Boccabella)è fuggita una ragazza) ha suscitato molto entusiasmo nei giovanissimi spettatori. Quanto alla recitazione, essa non poteva essere perfetta, data l'età degli attori (più che l'età la cattiva recitazione è dovuta alla mancanza di prove e di direzione: n. d. r.), tuttavia piace porre in rilievo la disinvoltura di Veneroso e qualche buono spunto di Ragosta e di Sara Alba. Negli altri solo buona volontà (era quella che doveva essere sfruttata: n. d. r.). Il varietà organizzato alla fine dello spettacolo è forse piaciuto di più. Si sono distinti specie il Marra, già cantante di Radio Napoli, il tenore Martini Alberto (Marcello Vece), giovane speranza del nostro teatro lirico e l'emozionatissima signorina Capasso. Anche qui è piaciuto il brillante Veneroso nelle vesti di comico. Non impeccabile la regia di Zotti (è venuto meno in pieno alle più elementari cognizioni di azione). Con ciò, però, non vogliamo menomare l'opera svolta dal collega Zotti, la buona intenzione fa sì che passiamo su tutto il resto: speriamo meglio al prossimo anno. Buona la presentazione del collega Pepe. Avviso al pubblico: un'altra volta non fiori ma …. opere di bene.
In questi giorni si è fatto un gran parlare di Napoli, in modo da mettere in forse la buona fama di quella città bella ed illustre. Merita Napoli questo ultimo oltraggio? Di questo voglio parlare.
Quando io a molti uomini egregi che vivono a Napoli domando: perché non vi occupate un poco della città? Rispondono: Ci sgomenta l’indifferenza pubblica. Non conoscono bene la città. Essa non ha la continuità dei montanari e dei pianigiani, ma la discontinuità dei vulcanici: ha, come il vulcano, un giorno d’impeti, di esplosioni terribili ed anni di riposo: abbandona il capo sulle lave raffreddate e si addormenta: ma quel giorno vale molti anni e sarebbe buon accorgimento di governo non farlo ripetere.
Voi dovreste scongiurare il ritorno di uno di quei giorni, ricordando che una città la quale ha tanti perduto e tanto sacrificato all’unità nazionale, ad una cosa non si rassegnerà mai, a perdere il suo onore, per colpe non sue.
Poi vivono due ordini di cittadini, l’uno separato dall’altro, come un secolo fa, quando i dotti volevano la repubblica alla francese e la plebe voleva il regno indipendente. Quei dotti discendono da Vico e costituiscono la storia; quella plebe discende da Masaniello e serba il costume. Non s’intendono tra loro. Ma una classe intermedia viene sorgendo, di onesti commercianti e industriali, che potrebbe essere come una intesa tra due estremi, consociandosi civilmente ad un fine di benessere comune e di equa convivenza.
La plebe è buona, come la terra da cui nasce il cielo che la guarda operosa ed allegra nello squallore. Il ceto dottorale è ricco di cultura e sentimento. La classe intermedia non arriva a consociarli, lottando a difendere le sue iniziative contro la ferocia fiscale, mentre Napoli è rimasta quasi troncata fuori del commercio italiano.
Che avviene allora? Alcuni che temono investire i loro piccoli capitali in imprese fruttifere, per campare la vita, li allogano in usura.
E, per giustificarsi fanno un discorso strano: Non è usuraio il governo che piglia il cinquanta per cento? Dunque possiamo anche noi.
E ne nasce l’homo hominis lupus. L’agente inesorabile da una parte, l’usuraio dall’altra, l’uno e l’altro onnipresenti.
Sì, signori l’usura cresce dove i capitali non trovano altra forma di investimento e dove la tirannia
fiscale sfrutta le iniziative. E lì voi trovate l’usuraio dietro tutte le forme di frode. Entrate nella bisca e sotto la posta ci trovate la cambiale; entrate nella bottega di lotto e accanto al vincitore trovate l’anticipatore usuriere, sin nell’alcova della Venere sbordellana a adultera.
Questa forma di delinquenza penetra nel costume e si legalizza. Infatti per le pubbliche vie noi leggiamo tabelle sulle quali è scritto: Agenzia dei pegni! E’ una usura protetta dalle leggi. Se l’infelice debitore arriva col prezzo di restituzione una mezz’ora dopo, trova venduto – falsamente – il pegno, talvolta un anellino di oro, talvolta un orologio di argento, più spesso ahi! il materasso e la coperta! E scrissero che i tribunali e le are fecero pietose le umane belve!
Che ci ho da vedere io? Dice l’onorevole Pelloux. Vi rappresenta lo Stato, e se lo Strato non è il protettore del diritto e della morale, è una bugia e allora l’anarchico trionfa di voi.
Ed ecco dentro una città laboriosa e buona è nato questo manipolo di vampiri, sui quali – quasi coefficienti di governo – la legge dorme.
A voi muovo queste domande: E’ lecita l’usura legalizzata, a cui l’istesso Banco pensò al tre e quattro per cento, perché i capitali sfruttassero al quaranta e al cinquanta per cento?
E quando le frodi, dirette all’usura, da più anni si allargavano e irritavano i malaccorti e gli avidi, fece bene l’autorità locale a non sopprimere la brigata di malfattori?
Le bische, le agenzie usuraie debbono esercire sotto l’occhio del potere di polizia e del potere giudiziario?
E che vuol dire? Se si radunano dieci o venti giovani a commentare la massima Dio e il popolo o la dottrina del Capitale, sono tradotti in tribunale, e i biscazzieri, i falsari, gli usurai godono l’extraterritorialità degli ambasciatori!
Mentre l’onorevole sottosegretario rumina la risposta, io dall’Assemblea nazionale voglio mandare un saluto alla vera Napoli, a quella che pensa e lavora, e che mentre per secoli è stata la capitale, non dirà mai di fronte a Roma, la capitale d’Italia voglio essere io!
Giovanni Bovio
L'onorevole Minghetti ama, vuole la libertà; l'onorevole Nicotera reclama per la libertà; l'onorevole Depretis spasima per la libertà, ed io in piazza Sciarra ho incontrato una donna ammanettata fra i carabinieri che mi diceva di essere la libertà. Onorevole Depretis, veda di concederle almeno la libertà provvisoria.
Felice Cavallotti.
Il discorso del deputato Francesco Crispi, pronunciato il 1875 nella seduta, vertente sullo schema di legge per provvedimenti di pubblica sicurezza, risulta interessante sotto molteplici aspetti.
Innanzi tutto, fin dall’esordio, egli si distacca completamente dall’ottica analitica adottata dai colleghi che lo hanno preceduto: essi, pur essendo stati esortati dal presidente del consiglio ad affrontare il problema in ambito nazionale, lo hanno localizzato in ambito strettamente siciliano.
Siffatta scelta, in cui si riflettono i segni palesi dell’aspra campagna contro la Sicilia e le province meridionali, scatenata l’anno scorso dai giornali di destra dopo le elezioni, comporta due gravi conseguenze, entrambe deprecabili, l’una morale, la seconda sociale.
La prima conseguenza porta alla divisione dell’Italia su due fronti contrapposti, “da un lato gli eletti, dall’altro i reprobi”, sulla supposizione “che la moralità della popolazione del mezzogiorno sia inferiore alla moralità di quelle che sono al nord della penisola”. Nei fatti si tende a vanificare definitivamente gli sforzi sostenuti per raggiungere l’unità nazionale.
Il danno sociale riveste analoga negatività: adottando una prospettiva sbagliata, si rischia di non riuscire a curare il male e, addirittura, di applicare rimedi che lo inaspriscono sempre più.
Di qui deriva spontaneo il presente quesito: c’è davvero bisogno di una legge di pubblica sicurezza speciale? L’oratore risponde negativamente sulla scorta di prove, attinte da documenti pubblici, rappresentati dalle tre statistiche ufficiali del ministero della giustizia, redatte il 1863, il 1869 e il 1870, nonché dal testo “L’Italia economica”, in cui si leggono le statistiche penali del 1871 e del 1872. Tutte queste hanno un comune dato di fondo incontrovertibile: “la criminalità in tutto il regno è eccessivamente aumentata”.
Completa il reparto documentario il testo di Curcio, stampato per volere del ministero di grazia e giustizia. In esso l’autore divide l’Italia in quattro regioni: l’Italia settentrionale che comprende il Piemonte la Lombardia e la Venezia; l’Italia media che include la Liguria, la Toscana, l’Emilia, le Marche e l’Umbria; l’Italia meridionale corrispondente alle antiche province del regno di Napoli con l’aggiunta della provincia romana; l’Italia estrema ed insulare, in cui rientrano la Calabria, la Sicilia e la Sardegna.
La lettura critica dei dati, esaminati alla luce della proporzione degli abitanti con i reati commessi annualmente, avalla che la parte estrema dell’Italia “dà un maggiore contingente alla giustizia criminale, il che, a giudizio di Crispi, “è uno stato normale”.
Non rimane altro che scoprire le cause dell’eccessivo aumento dei reati. Lo sguardo va proiettato sulla realtà storica del tempo: essa suggerisce la seguente verità: “dopo il 1869 le condizioni economiche del paese non si sono migliorate”.
In tale periodo vi è stata la “terribile imposta sulla macerazione”, conosciuta da tutti come l’imposta della fame, nonché l’aumento continuo di tutte le altre imposte, che hanno fatto sentire gli effetti più deleteri sulle spalle delle classi inferiori.
Nel contempo la diminuzione dei prodotti naturali in rapporto al fabbisogno della popolazione aumentata, la minore produzione industriale, il rincaro dei viveri, la nascita di bisogni fittizi, “l’intemperanza fisica e morale” da parte di chi non capisce cosa sia la vera libertà o ne abusa e l’impunità dei reati, il rallentamento dei vincoli familiari, di “quei principi e quelle norme tanto necessarie all’uomo per condursi onestamente”.
Alla frenetica attività di quanti frequentano le borse, le banche o le industrie, foriere di improvvise fortune, fanno da contrappeso l’operaio e il contadino che, oppressi dalla mancanza di lavoro o dalla cattiva remunerazione della loro opera, si riverso nelle strade, spogliano le case e chiedono con il coltello ciò che non riescono a guadagnare “per imprevidenza del governo”.
Questo è il motivo per cui sono aumentati i reati contro la proprietà e la persona.
Di fronte ad uno spaccato sociale così desolante il rimedio deve essere generale e riguardare la buona legislazione, nonché un sistema tributario “più equo, meno vessatorio, meno fiscale, tale da non mettere la disperazione nelle popolazioni”.
A questo punto Crispi, indotto anche dalla passione per la sua terra, rivolge l’attenzione a dimostrare che i reati sono aumentati in Sicilia non per cause particolari legate all’indole, alle abitudini e alla terra degli abitanti. Di qui la conclusione con lo sguardo rivolto verso quelli che hanno governato per quindici anni: “La causa, o signori, è nelle vostre leggi e nel vostro governo”.
Poiché, signori, questo bilancio ha la virtù di rompere i silenzi parlamentari, mi sia concesso rivolgere una preghiera all’onorevole ministro della pubblica istruzione.
Egli può essere lieto della legge del 19 luglio 1877 sull’istruzione obbligatoria. Quella legge, per la savia e prudenza temperanza che l’informa, meritava il suffragio che ha avuto con cui fu accolta dai due rami del parlamento. Pure è mestieri non dissimularsi che, nella sua applicazione, essa va incontro a molteplici scogli e che, perdendoli d’occhio, si correrebbe molto facilmente il pericolo di dare nelle secche ……………
Non accennerò alle questioni relative ai nuovi maestri; alle scuole serali e festive; alle librerie circolanti; anzi mi è grato dichiarare che per questo riguardo ho fiducia nell’uomo sapiente che regge il ministero della pubblica istruzione ed ho anche speranza che non sarà per mancargli l’aiuto gagliardo della privata iniziativa.
Ciò che più deve preoccuparci si è la questione ardua e difficile dei locali scolastici. Apparisce dalla relazione che sono già 6740 i comuni pronti ad attuare la nuova legge.
A prima vista codesta è una cifra assai consolante. Molti di quelli che facilmente sono paghi delle superficiali apparenze saranno disposti, udendo questa cifra rimbombante, a gridare vittoria. Ma vuole prudenza che si riservino a migliore tempo i nostri entusiasmi; vuole prudenza che prima si cerchi vederci un po’ più chiaro in quella cifra.
Lasciando stare le condizioni didattiche e morali, delle quali ho dichiarato che in questa circostanza tacerei, chi di voi non pensa che prima di battere le mani a noi stessi per il risultato finora ottenuto, debbasi sapere almeno che cosa siano queste quattro mura entro le quali noi rinchiudiamo per parecchie ore del giorno i nostri figli? ………………
Non giova nasconderlo, signori, moltissime delle nostre scuole (e badate che io appartengo a province che anche sotto questo rapporto non sono certo le ultime), moltissime delle nostre scuole primarie sono rifugiate in miseri stambugi senz’aria, senza luce, senza spazio, mefitici, immondi.
Vi si somministra una porzione più o meno lauta di abbaco e di abbici, ma vi si sottrae troppo spesso una porzione più grande di ossigeno.
Io rivolgo un appello a quanti di voi qui sono uomini pratici. Non vi è mai avvenuto di uscire contristati dalle nostre scuole, specialmente rurali? Non vi è mai avvenuto di aver veduto in principio dell’anno entrarvi uno sciame vispo e giocondo di rosei fanciulli, trasformati poi dopo alcuni mesi in una turba pallida e gracile? Chi di voi non ha veduto sostituirsi alla sana respirazione dei petti gagliardi l’acre tossicolio misto al rauco compitare delle sillabe? …….
O signori quella pietà che alcuni sentono vivissima per la rappresentanza della colpa che sta nelle carceri, abbiamola tutti per la rappresentanza dell’innocenza che sta nelle scuole.
Noi abbiamo l’obbligo dell’istruzione, sta bene; ma quel giorno abbiamo un altro obbligo solenne a noi stessi, l’obbligo di non seppellire nell’atrofia fisica l’energia della vita e dell’intelligenza, l’obbligo di impedire che diminuendosi le file dei coscritti analfabeti si accrescano quelle dei coscritti tisici e dei rachitici.
E’ l’aria, la luce, lo spazio, la giocondità che noi ci siamo obbligati di assicurare ai nostri bambini insieme al pane dell’istruzione; è quell’ambiente sano, decoroso, ridente che ingentilisce gli animi e li educa! Lioy Paolo, 1877.
A dì tre settembre 1809 nel soppresso convento di San Francesco di Paola della Comune di Ottajano.
Uniti e congregati i sottoscritti decurioni, ai quali si è proposto dal Signor Sindaco la lettura del Signor Sotto Intendente del distretto di Castellammare in data 31 dello scorso agosto……….
Esaminato e ponderato il tenore della suddetta lettera, si è osservato contenere due soggetti. Primo di ritrovarsi i mezzi, onde la popolazione non resti priva del pane, che comprometterebbe la responsabilità del decurionato, non escluso il sindaco. Secondo di formarsi un piano di offerta che sia accettabile e che non opponga alla solennità delle leggi.
Sul primo oggetto si è unanimemente stabilito dare le premure per non dire preghiere agli attuali conduttori dei forni pubblici, acciocché provvisoriamente continuassero la panizzazzione coll’onciario finora praticato, nonostante che se gli pratica un pregiudizio, perché il loro stretto obbligo al mantenimento è in contraddizione delle leggi della libertà di panizzare, ed anche perché i medesimi hanno continuato un anno tale mantenimento, nell’atto che i rimanenti cittadini hanno goduto del beneficio di panizzare e far pane a vendere quando è piaciuto e recato utile.
Per il secondo oggetto si è concluso doversi fare il seguente piano di offerta: 1) Ogni quindici giorni a spese della Comune si manderà nella dogana di Avellino per avere la fede dei prezzi del grano saragolla, dei quali l’assaggiatore ne dedurrà i prezzi alti e bassi e col prezzo medio fisserà il prezzo del tomolo di farina da bonificarsi all’appaltatore sarà del forno dell’abitato e della Campagna.
2. L’appaltatore o gli appaltatori avranno dalla Comune l’indennità della pigione tanto del forno nell’abitato, quanto per quello nella Campagna che serve loro per la costruzione del pane e la prova delle forme.
3. Il tomolo di farina deve calcolarsi per rotoli quarantasei ed il prodotto di esso in pane cotto deve dare il prezzo fisso.
4. Sarà permesso ad ogni cittadino di far pane a vendere tanto nell’abitato che nella Campagna, esponendolo però al pubblico e con essere soggetto alle stesse leggi cui sono soggetti gli appaltatori del mantenimento forzoso del pane cioè:
a) Di fare il pane la notte di farina saragolla ben cotto, di buon odore, colore e peso giusto;
b) Di fare il pane la notte antecedente del giorno, in cui dovrà esporlo a vendita in maniera che gli Eletti possano osservarlo ogni mattina e giudicarne la qualità;
c) Sarà proibito ad ogni anno sa appaltatore sia panettiere di far pane dopo il mezzogiorno per venderlo, ma nel caso ciò dovesse farsi per qualche urgente bisogno, se ne deve passare l’avviso all’Eletto o a qualche decurione in assenza dell’Eletto, acciocché piacendolo possa osservarne la qualità.
d) Trovandosi il pane di mala qualità, non fatto di farina saragolla o di peso scarso il contravventore pagherà la multa di carlini quindici per la prima volta da passarsi nella cassa delle ammende del giudicato di pace, la seconda col duplo della multa suddetta e la terza con pena correzionale.
e) Che ogni panettiere cittadino, cui è permesso di fare pane e vendere nel circondario di questo Comune sia obbligato prevenire l’appaltatore o una volta per tutto l’anno della data quantità, che vorrà costruire ogni giorno e ciò per regolamento dell’appaltatore per costruire quella quantità di pane che crede necessaria per l’uso della popolazione del distretto del suo forno. Ogni contravventore pagherà la multa a tenore di quanto è descritto nell’articolo quarto.
f) L’appaltatore dell’abitato egualmente che quello della Campagna deve mantenere il pane nei posti soliti e gli resta ad arbitrio di mantenere degli altri.
g) Il pane di fiore carosella e di maiorica sarà permesso costruirsi dagli appaltatori e panettieri privati, ma non deve essere di peso, che di un terzo meno del pane di assisa.
h) Sarà espressamente proibito di fare il pane di fiore saragolla, come quello che non è profittevole per l’uso della classe indigente.
i) Ogni panettiere privato che farà il pane diverso da quello di farina saragolla o di fiore carosella o maiorica è tenuto denunciarlo all’Eletto, acciocché lo provvede secondo la sua quantità.
l) Sarà passata un’indennità agli appaltatori forzosi ed anche ai panettieri privati di grani trentasei per ogni tomolo di farina di peso quarantasei rotoli a titolo di schiano, trasporto, gabella ed altro che occorre per la panizzazione suddetta.
Seguono le firme dei decurioni.
Le ultime parole dette dal signor presidente del Consiglio hanno gettato della luce sulla questione che si agita nella Camera. Quella contraddizione, che il mio amico Lazzaro rimarcava tra le parole dette dall’onorevole Bianchi e dall’onorevole Ricasoli e quelle dette dall’onorevole ministro dell’interno è svanita.
E’ un fatto, o signori, che lo stanziamento del fondo segreto fu esaurito, non per un semestre solamente, ma per gran parte dell’intero anno, senza il voto della Camera, senza quella legge del bilancio, in difetto della quale nessun ministro è autorizzato ad impiegare il pubblico denaro.
Ecco, o signori, come la luce si è fatta. I signori prefetti prima delle elezioni furono tutti chiamati a Firenze e noi della passata Legislatura, dopo il decreto dell’onorevole Ricasoli, allora presidente del Consiglio, che sciolse la Camera, potemmo vedere i signori prefetti convenire al Ministero dell’interno a ricevere le loro istruzioni, tra le quali naturalmente ci fu quella della spesa di una parte dei fondi segreti.
Ecco dunque come la questione che si presenta oggi al bilancio non è libera per la Camera, perché l’amministrazione precedente l’ha pregiudicata e l’ha pregiudicata contro legge, l’ha pregiudicata contro il suo dovere, perché essa non aveva diritto di spendere il denaro dello Stato per far pressione sulle elezioni politiche.
L’onorevole Ricasoli deplora che si parli di alcune cose che egli vorrebbe trattare in privato, anzi che avanti al paese. Ma l’onorevole Ricasoli non ha sempre così deplorato il trattare alcune cose dinanzi al paese. La sua circolare del 19 febbraio 1867, quella che precedette le elezioni, non è, signori, un modello di prudenza politica e costituzionale.
Ricordi la Camera le qualifiche che egli indirizzò alla Camera legislativa che sciolse; ricordi che quelle qualifiche non erano solamente dirette agli individui, ma erano dirette alla santità delle libere istituzioni.
Egli con quella circolare attentò al prestigio delle nostre istituzioni, poteva quindi egli avere minori scrupoli anche oggi che si tratta di una questione meno interessante e meno pericolosa pel regime in forza del quale noi sediamo qui rappresentanti della nazione.
Signori, l’uso dei fondi segreti, diceva l’onorevole Rattazzi, è una dolorosa necessità. Ma è più dolorosa questa necessità per l’impiego che se ne è fatto dall’amministrazione precedente. Egli è vero che il Governo non ha offerti, né poteva offrire i mezzi giustificativi dell’impiego di queste somme; ma, o signori, sono forse delle insinuazioni quelle che vengono constatate da tutto il paese?
Io non credo che sia buon impiego del denaro dello Stato quello che si eroga per non lasciar fare delle dimostrazioni contro dei vescovi, ai quali si permette il ritorno nello Stato per cospirare contro lo Stato!
Io non credo che sia un buon impiego quello che si dà ad alcuni comitati i quali, anziché risvegliare il diritto nazionale, non servono che ad assopirlo.
Io non vado avanti in questa enumerazione; potrei parlare della stampa; potrei fare parola delle pubblicazioni, o signori, le quali non sono arma di partito contro partito, ma scalzano la base delle istituzioni liberali. Perché, parliamoci francamente, siamo accusati di essere i demolitori delle istituzioni, noi che sediamo da questa parte, mentre ne siamo i sostenitori.
Ridano pure, ma sopra al loro riso sta il giudizio del paese! Ridano pure, ma non rideranno sempre, se le nostre istituzioni correranno un pericolo. Poiché non crediate, o signori, che le istituzioni possano scalzarsi in Italia, senza scalzare qualche cosa che ha base e vita in esse e per esse. Ed è bene, o signori, che questa verità si sappia sin nelle più elevate regioni dello Stato.
L’onorevole Ricasoli parlava di riforme nella sua circolare, dopo aver sciolta una Camera legislativa quando aveva davanti una legge che si intitolava Della libertà della Chiesa, che doveva dare alle finanze dello Stato molti milioni.
Egli sciolse la Camera e dopo sciolta la Camera, muta il Ministero; e quando finalmente dovevamo aspettare queste riforme, le abbiamo vedute nel famoso decreto del Consiglio dei ministri (che l’attuale ministero fece benissimo a revocare i primi) e finalmente poi un ritiro misterioso chiuse la scena politica di questo preteso Ministero riformatore.
Ecco, o signori, a che l’onorevole Ricasoli può appoggiare il diritto di dare consigli di riforma all’attuale Camera legislativa.
Io non posso, o signori, non ricordare, per conchiudere le mie poche osservazioni, una frase dell’onorevole deputato Ricasoli: “Il rimprovero di corruzione che si fa al Governo ricade sul paese, poiché il Governo non può corrompere se non ciò che è corruttibile”. Ecco l’argomento dell’onorevole Ricasoli con cui cerca di coprire l’operato del Governo.
Signori, io sono d’opinione che il nostro paese ha più moralità di quello che possono supporgli i signori ministri passati. Ed a prova di questo mi basterebbe ricordare il fatto che noi sediamo qui.
Luigi La Porta 15 giugno 1867
Il Comitato d’azione spinse innanzi l’iniziativa rivoluzionaria, creò in tutte le province i comitati filiali e da un capo all’altro dell’antico reame paralizzò la reazione, mantenne con mirabile fermezza l’ordine, agevolò con ogni mezzo l’opera di Garibaldi ed agì con tanta efficacia sulle moltitudini che in quel momento di vero entusiasmo non esitarono a comprendere ed a proclamare l’unità e l’indipendenza d’Italia.
Di questo comitato così solerte, così benemerito della Patria erano principali direttori Luigi Zuppetta, Nicola Mignogna, Filippo Agresti, Aurelio Saffi, Giuseppe Libertini, Luigi Caruso, Gaspare Marsico, Silvio Veratti, Salvatore Morelli, Giuseppe Ricciardi e Giovanni Matina.
Ebbene tutti costoro che all’arrivo di Garibaldi potevano e DOVEVANO mettersi a capo del rinnovamento delle nostre travagliate province con somma buona fede o massima ingenuità da fanciulli abbracciarono i volponi del comitato dell’ordine, si trassero indietro e portarono tant’oltre l’abnegazione patriottica che accondiscesero allo scioglimento dei comitati delle province, di quei comitati che almeno nelle elezioni avrebbero reso di certo utilissimi servizi alla patria combattendo e allontanando dall’urna degli squittinii gli affiliati alla consorteria o al comitato dell’ordine.
Ebbene ci si mostri uno solo di quegli uomini dirigenti del comitato d’azione considerato e protetto dal governo riparatore, uno solo ritraendo piccolo o grosso stipendio e noi cessiamo dall’essere oppositori al governo.
Essi furono inesorabilmente respinti da ogni porta ministeriale e se Luigi Zuppetta può ancora farsi apprestare una vivanda sulla sua mensa, lo deve ai suoi sudori ed alla benevolenza della gioventù studiosa che accorse alle sue lezioni private del diritto penale.
Per l’opposto passiamo in rassegna i membri del comitato elettorale, coloro che solennemente accettavano la costituzione di Francesco II, i settari dell’associazione moderata e vediamo se dalla cornucopia ministeriale cadde su di essi la pioggia dei favori, degli impieghi e dell’oro.
Antonio Scialoia, ministro, commentatore, Segretario generale, consigliere privato della corona, incassando tutti gli stipendi di ministro dal 1848 sino al 1860 (circa 120 mila ducati) e facendo nominare fino il suocero l’ex cappellaio a Toledo ispettore delle Saline di Baia. Ci si dirà, Scialoia aveva dottrina e merito: si ricompensò l’una e l’altra: sì la dottrina astratta dell’economista che messa da lui in pratica rovinò il paese e ce ne riportiamo il giudizio dei commercianti di Napoli, i quali seppero per prova quanto valessero i decreti suggeriti dallo Scialoia nel tempo che fu ministro di finanza del Dittatore e Segretario generale della Luogotenenza: il merito! E perché non fu distinto il merito di Zuppetta per la cattedra di diritto penale? Ma passiamo oltre.
Francesco Trinchera. Sopra intendente generale degli Archivi con lo stipendio di molte centinaia di ducati al mese e con l’appendice dei lucrosi impieghi accordati ai suoi congiunti, e Trinchera, oltre il merito dell’affiliazione alla consorteria, aveva l’altro di essere stato il campione, lo scrittore ufficiale della candidatura al trono di Napoli del sig. Murat.
Ruggiero Bonghi, il Platone in 18° durante la dittatura, afferrò sei impieghi retribuiti, continuò a far bottino con i Luogotenenti, vie impallidire il suo astro al tempo di Rattazzi, divenne furibondo oppositore, ma oggi di nuovo innalzando il vessillo ministeriale, pubblica nel suo foglio – La Stampa – le glorie della Consorteria, ingiuria il paese in cui nacque e dispone a suo modo dell’erario e dei ministri. Il piccolo Platone, il romito di Strasa ha saputo navigare meglio del gran Platone, del divino filosofo.
Goffredo Sismondo – Prefetto a Benevento.
Silvio Spaventa – basta il nome per ricordare chi sia, che fece e che va facendo – Garibaldi lo conobbe e voleva sbarazzarne Napoli: la generosità dei suoi avversari lo salvò; il popolo tentò di trucidarlo, la fortuna lo preservava. Il nostro astro è all’apogeo e non tarderà guari che la storia scriverà pure il suo nome fra quelli dei più famosi ministri della risorta Italia.
Giuseppe Pisanelli, l’austero, l’italiano unitario; inchiniamoci; nelle sue mani stanno i sigilli dello Stato. Egli è tre volte grande, dotto e perfettissimo pel disinteresse. Così crede almeno l’Opinione di Torino; inchiniamoci.
Parleremo noi dei Pandola, dei de Siervo, del Ciccone, dei La Terza, dell’illustre Michele Giacchi, del Ser Pietro, Silvestro Leopardi e di tutta la ciurma degli scoiattoli, dei gufi, delle scimmie e dei pappagalli della consorteria? Ah no! Ne abbiamo già troppo: a noi basta l’aver accennato ai capi per concludere a priori che il governo ha favorito e sostenuto e distingue e appoggia gli uomini di dubbia fede, gli unitari d’occasione, i piloti più destri per condurre la barca pel proprio interesse e perché?
Lo paleseremo nel prossimo ed ultimo articolo delle rivelazioni (prima parte).
La Campana del Popolo, 9 giugno 1863