\\ Home Page : Storico per mese (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ad Ottaviano è in piena attività operativa la macchina organizzativa per allestire quanto concorre a celebrare la ricorrenza annuale del patrono San Michele.
La festività, la cui scansione si snoda nell’arco di quattro giorni, dal sette al dieci maggio, prevede una serie di manifestazioni, religiose e laiche, diurne e serali, incastonate in un cerimoniale variegato: processioni, luminarie, volo degli angeli, palio degli asini, sfilata dei carri, musica, canti e fuochi pirotecnici.
Non è fuor di luogo, nella immediata vigilia dell’avvenimento, elaborare qualche riflessione generale in merito, finalizzata a far uscire l’evento dalla vacua rigidità celebrativa ed a favorire l’avvento di qualche timido seme di consapevolezza critica su un segmento del nostro momento storico.
All’uopo non c’è bisogno di scomodare gli studiosi di antropologia culturale per affermare che la suddetta festa ottavianese rientra a pieno titolo nell’ambito dell’antica tradizione popolare grazie alla presenza di alcuni suoi segni precipui che ne saldano l’intimo legame con l’atavico ed eterno ciclo agrario.
Infatti, essa, interrompendo l’attività lavorativa quotidiana, colma la sofferta solitudine del singolo, ne sollecita la cultura dell’incontro con gli altri nella comunione amicale ed affettuosa, propedeutica all’associazione sociale. Il mese di maggio comporta, nel calendario agricolo, l’irrorazione delle viti con il verderame. L’affollata e commovente processione religiosa con la statua dell’arcangelo San Michele per le vie cittadine, testimoniando il chiaro innesto del cristianesimo su preesistenti riti pagani, ne caratterizza la finalità della propiziazione divina. Il volo degli angeli, rappresentati da due bambini, tenuti sospesi in aria grazie ad un congegno di carrucola, chiamato “carrocciolo”, fino alla supplica rivolta al santo patrono in favore di tutta la cittadinanza, denota l’aspirazione collettiva a creare il ponte ideale dal cielo alla terra. L’asino simboleggia, fin dall’epoca esopica, la pazienza esperita nel duro lavoro nei campi. La sfilata dei carri richiama il recupero memoriale delle originarie borgate ottavianesi, speculari del senso dell’appartenenza. Lo sparo dei fuochi pirotecnici, portando in superficie ancestrali paure recondite attraverso emozioni antitetiche, legate al contrasto sinestetico buio – luce, rumore – silenzio, fuoco - pioggia, adempie alla funzione catartica e votiva, in cui coesistono il fardello del passato sempre presente nelle latebre dell’animo e l’agile sogno del futuro. Il canto, la preghiera e la danza denotano altrettante espressioni di una comunità viva che porta impressi sulla sua pelle i codici indelebili della esperienza esistenziale vissuta nella interezza della sua problematicità. Pertanto da siffatto quadro emerge un dato di fondo incontrovertibile: il rapporto della civiltà rurale dei nostri padri con l’ambiente naturale circostante si rivela incentrato su sentimenti di rispetto, di amore e, soprattutto, di timore. Alla luce di tale considerazione basilare scatta immediato l’interrogativo di fondo: cosa abbiamo mutuato di positivo noi figli dalla lezione del passato circa il rapporto verso l’ambiente? Nella risposta si misura il grado di elaborazione effettiva e salutare della stessa tradizione la quale, se opportunamente rinnovata e rinverdita, agevola il successivo cammino agli eredi. Nello specifico lo sguardo, pur effondendosi fugacemente in opposte direzioni territoriali, rimane inorridito e angustiato dal sistematico scempio prodotto dalle nostre mani, trasformate per l’occasione in tremendi ed acuminati artigli. Il pensiero vola dapprima in montagna la quale, pur facendo parte del sedicente parco del Vesuvio, è stata trasformata in discarica perenne, dal momento che se ne reitera la destinazione ricettizia di rifiuti con l’ultima trovata di allocare lo sversatoio proprio nella cava terzignese. In tal modo con il cuore gonfio di tristezza delibero di scendere da queste alture montane, violate nella loro essenza di riserva naturale, attraverso le piccole strade a “gira – poggi” sapientemente costruite all’indomani della eruzione vulcanica del 1906 e desisto dal cercare le tracce delle selve demaniali di un tempo, di cui si sono persi, persino, i nomi e le ubicazioni. La voluta riproposizione onomastica almeno delle principali sezioni silvane, quali Piano del Fico, Cerri, Piscinale, Schiappagrande, Campitelli, Paliata, Finelli, Muroli. Guastaferri, Borde, Cafurchio e Mauro obbedisce al mio preciso disegno di non essere affatto intenzionato a sottostare agli attacchi onnivori della dimenticanza assurda. Del resto la spessa coltre dell’oblio, dominando su una parte importante del vissuto topico, minaccia la sopravvivenza della nostra identità, protesa, nell’empito libertario, lungo i secoli scorsi, tra l’altro, a difendere i cosiddetti usi civici, la cui fruizione conferisce al demanio lo stigma indelebile del possesso collettivo. D’altro canto in questa falda i torrenti, che si snodano tra il versante di Terzigno e quello di San Giuseppe Vesuviano, sboccano in vasche di assorbimento: Camaldoli, Campitello, Pepparulo, Zabatta con gli affluenti Crispo, Palomba e Recupo, San Leonardo con gli influenti Spiriti e Vivenzio. Quelli, appartenenti al versante di Ottaviano, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia, si scaricano nei regi lagni. Alcuni vi pervengono attraverso il collettore Alberolungo: il Piazzolla con gli influenti Rosario e Carmine, ingrossati a loro volta dai colatori secondari Subisseo, Neve e Saviano; il Santa Teresa con gli influenti Zennillo, Bosco I, Bosco II, Macedonia e Costantinopoli. Tale patrimonio naturale risulta del tutto ignoto ai giovani i quali stentano a credere alla riesumazione del vissuto anche perché l’attuale spettacolo circostante si presenta completamente trasformato. Non a caso a valle non si riesce a percepire più la linea di demarcazione che segni la fine della selvaggia cementificazione; ormai diventa impossibile rintracciare un vero polmone verde, dal momento che l’intera zona, avvolta da un conurbamento strozzante, esala aria pesante e, talora, miasmi maleodoranti. Non oso nemmeno immaginare secondo quali criteri e cosa abbiamo incanalato nel sottosuolo, sacrificato al bisogno impellente della viabilità a tutti i costi. A questo punto, spinto da una inconscia attrazione, mi trovo immerso nella fiumana umana festante a Ottaviano e mi soffermo ad assaporare alcune leccornie esposte sulle bancarelle per attutire, forse, la vigente amarezza valoriale.
Nell'immenso panorama delle storie locali, incentrate, per lo più, sull'analisi orizzontale degli avvenimenti, occupa un posto di rilievo l'ultimo lavoro di Giorgio Mancini, Sepeithos, animato da una visione analitica trasversale e subtettonica, grazie alla quale il corso storico si vivifica nella sua sinuosità, man mano che erompe dal sottosuolo alla superficie, illuminando gli aspetti circostanti. Il tema centrale del libro è il fiume Sebeto, nei cui meandri l'autore, utilizzando un vasto repertorio attinto da fonti poliedriche, compie un'ampia e meticolosa navigazione, prendendo l'abbrivo dall'antichità greca e, attraverso una serie di tappe diacroniche, sempre puntuali e circostanziate, approda ai nostri "infausti" giorni. Ai due momenti itineranti corrisponde una diversa dimensione spirituale, sottesa alla mutata temperie: lontano dal nostro presente, l'atmosfera è improntata a solarità piena e sfavillante, in quanto lo sguardo si colma di gioia nel penetrare nelle pieghe del mito e del valore che i nostri padri hanno sempre nutrito verso il fiume; viceversa, un velo di malinconia si insinua nel cuore, allorché si constata l'insana follia contemporanea, che ha ridotto il Sebeto ad un malsano e putrido sversatoio industriale. Eppure la navigazione è contrassegnata da continui e salubri tuffi storici nell'alveo del suddetto fiume, ove è possibile ammirare il suo antico paesaggio variopinto di emissari e di immissari, nonché la sua abbondante ricchezza floreale e ittica (Estratto dell'introduzione all'opera).
La nascita del presente giornale coincide con un momento particolare e delicato del nostro Liceo, polarizzato tra due opzioni antitetiche, l’espansione o lo stallo, i cui rispettivi termini di riferimento contemplano, da una parte, l’urgente ampliamento del numero delle aule con la realizzazione del sotteso progetto di una sede più grande, dall’altra, la cura esclusiva dell’esistente, incardinata nelle trentuno aule attualmente in dotazione.
Il recente flusso storico, immessosi nel filone delle sue vivaci origini, le quali affondano le loro radici nella germinazione autonomistica, avvenuta, per distacco dall’omologa istituzione madre di San Sebastiano al Vesuvio, il 1° settembre 2001, indica la proiezione direzionale in chiave espansiva, nella cui dinamica mi identifico pienamente. Tale scelta, però, richiede l’assunzione di mature responsabilità da parte di tutti gli operatori, docenti e ATA, decisi consapevolmente ad affrontare le sfide dell’immediato futuro, implicite nelle nascenti domande sociali e nel concetto stesso dello sviluppo.
In questa angolatura si innesta perfettamente il titolo stesso del giornale, “L’Urlo”, metaforicamente espressivo della esigenza generale della famiglia liceale, già pronta a mettersi in discussione in vista di ulteriori traguardi ideali, speculari del comune senso di appartenenza e dell’idem sentire. Pertanto l’urlo, alieno dall’imitare l’attuale tendenza di alzare il timbro della voce per far sentire il flebile pensiero debole, si riferisce, invece, alla forza vibrante delle nostre idee forti le quali, supportate da una forte caratura culturale, ne rivendicano la irradiazione nel territorio circostante in un benefico rapporto di feed – back. Del resto qui si annida la funzione specifica del nostro Liceo, divenuto polo di riferimento indispensabile per qualsiasi progettualità grazie all’ampio quadro di riferimento relativo alla formazione e alla istruzione, incluse nell’offerta formativa e finalizzate allo sviluppo della realtà territoriale.
Ma la novità sostanziale del giornale si concretizza nel vivo delle sue colonne, la cui essenza si alimenta con la contemporanea presenza plurale di alunni e di docenti, accomunati dallo sforzo di dare vita ad un ulteriore strumento di informazione. Così i surriferiti attori, latori di un identico programma, agiscono sinergicamente non solo per leggere il contesto limitrofo in maniera circostanziata, ma anche per incidervi in modo profondo con interventi salutari.
Con questi auspici ideativi e prassici nasce il nuovo giornale. Il programma è pronto: con l’inizio del nuovo anno scolastico daremo fiato, ogni due mesi, alle nostre voci.
Solo un immenso ed indomabile atto di amore dà un senso completo alla vita e alla poesia. Tale verità, valida in tutti i tempi, rivela una sua pregnanza semantica, soprattutto, nel mondo attuale, ove il grido rozzo, volgare e sguaiato, di mero effetto mediatico, tenta di violare, persino, il segreto recondito delle coscienze più nobili, assorte nel loro eloquente ed affascinante silenzio.
Proprio alla suddetta sorgente cristallina di alta caratura valoriale, inverata in re grazie alla testimonianza attiva e costante, attinge la presente raccolta poetica, voluta dalla prof. ssa Maria De Luca la quale, avendo perso la figlia in maniera tragica, ha elaborato il suo ineffabile dolore personale, all’interno e all’esterno della sua professione, nei termini di ulteriore dedizione materna verso i giovani, la cui genuina voce, sintonizzandosi sulla stessa linea d’onda interiore, ne amplia l’eco formando un delicato e pensoso coro, proiettato a dimostrare la realizzazione concreta di un effettivo ponte dialogico ad ampio spettro tra il passato e il presente, tra il cielo e la terra. Ed il prodigio si dischiude in tutta la sua interezza: le parole si sostanziano in idee e fatti.
Siffatto timbro di malinconia soffusa si espande, al di là dei singoli risultati conseguiti, nelle intime fibre di tutti i componimenti poetici, impegnati, quasi all’unisono, a formulare gravi interrogativi sui novissimi esistenziali, vissuti sotto forma di attesa e di sogno, di aspirazione e di desiderio, di scatti e di progetti, di nuances e di dispetti, speculari della età innocente degli autori, dotati, però, di profondità riflessiva, in barba a falsi stereotipi di marca opposta.
Queste tematiche gravitano nell’ambito dei modelli letterari più vari, legati, in massima parte, alla esperienza scolastica recente o passata, donde prorompe ora la rima, ora il verso libero, ora la prosa ritmata. Non diverso risulta il timbro linguistico che spazia dal recupero secco del significato primigenio all’uso metaforico, dalla espressione irruente alla pausata affermazione, dalla concitata esternazione alla esclamazione strozzata tra le labbra, dalla stridente domanda al fulmineo disvelamento emozionale: ogni predilezione espressiva, che promana indicibile candore affettivo, sgorga all’insegna della imprevedibilità e della spontaneità assoluta in un gioco intricante di colori e di suoni, la cui gradazione, riverberandosi in ogni direzione con forza autonoma, crea sfondi piacevoli e suggestivi.
Inoltre il composito registro delle immagini, spaziando in lungo e in largo, mutua dai molteplici comparti della natura abbondante materiale di supporto, rivisitato nelle infime connessure e vivificato da spiccata tensione umana, donde scaturisce un mondo variegato nei topoi, ma interrelato per la compresenza dei medesimi brividi contenutistici.
A questo punto è preferibile, forse, arrestare la penna e fermarsi ad auscultare le note poetiche, la cui musica, inebriando lo spirito adagiato su di una liana sospesa nel vuoto e fluttuante al vento cosmico, corrobora ancora una volta una mia idea fissa: i giovani sono davvero interessanti sotto tutti i firmamenti dell’universo.
Pagine:
1