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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il 17 marzo 1861 avviene la promulgazione della legge che proclama il regno d'Italia. Il relativo testo legislativo, elaborato da una commissione parlamentare ad hoc, riceve la prima approvazione dal senato il 26 febbraio 1861 a maggioranza con centoventinove voti favorevoli e due contrari. Questo dissenso viene manifestato dal senatore "democratico" Lorenzo Pareto il quale intenderebbe mutare la dizione "re d'Italia" in "re degli Italiani", ritenuta più attinente e più rispondente all'unanime acclamazione voluta da "tutti i popoli dalle Alpi al Lilibeo". Inoltre, a giudizio del dissidente, l'acclamazione del re avrebbe dovuto avere come base l'iniziativa parlamentare e non quella reale. L'eco di siffatte note vibra nella seconda parte della successiva seduta della camera dei deputati, tenutasi il 14 marzo 1861. Infatti, a mezzogiorno in punto il presidente della Camera Urbani Rattazzi apre i lavori con la lettura e l'approvazione del verbale della seduta precedente. Quindi vengono lette tre petizioni: la prima è avanzata da centoventotto cittadini di Monteleone di Calabria i quali chiedono di riavere il diritto della pesca nella tonnara di Bivona, già concessa dall'ex re di Napoli alla famiglia dei duchi Pignatelli; la seconda, proposta da Giovanni Battista Campana Nobile di Genova, mira ad introdurre alcune "modificazioni" nell'alfabeto e nella pronuncia della lingua italiana; la terza, a nome di Pasquale Pagani di Ferago (Milano), punta sulla richiesta della reintegrazione della pensione, già assegnatagli dal governo austriaco per il riconoscimento di servizi militari prestati. Segue la comunicazione da parte del presidente circa i risultati della votazione dei tre commissari addetti alla biblioteca. Nessuno dei candidati ha raggiunto la maggioranza richiesta di novantaquattro voti su centottantasette votanti, come recita il quadro sinottico dell'urna: infatti, Gustavo Cavour riporta novanta voti, Giovenale Vegezzi Ruscalla settatanquattro, Giovanni Battista Giorgini quarantaquattro, Antonio Ranieri quarantadue, Giuseppe Ferrari trentatré, Marco Boncompagni trentatré, Guerrieri ventisei, Giuseppe Canestrini venti, Mauro Macchi diciotto, Saverio Baldacchini sedici, Ruggiero Bonghi quindici e Antonio Tari quattordici. Tali risultati rendono obbligatoria una nuova votazione che si terrà o alla fine della seduta odierna o nella prossima. Subito dopo il presidente comunica l'avvento di alcuni omaggi: una copia del Manuale pratico di chirurgia giudiziaria di Giambattista Garibaldi; una raccolta degli atti ufficiali del governo dell'Umbria di Gioacchino Pepoli; duecentocinquanta copie del volume San Bendetto al Parlamento Nazionale di Luigi Tosti. Si prosegue con la lettura di due lettere: una, a firma del senatore Ranco Luigi, chiede un congedo di quaranta o quarantacinque giorni per recarsi nelle province meridionali per incarico del governo. Nell'altra il deputato Carlo Grillenzoni di Ferrara, sebbene sia impedito dalla malattia di essere presente in parlamento, dichiara di associarsi al voto dei colleghi "i quali, nel chiamare Vittorio Emanuele Re d'Italia, sanciscono nella forma più solenne il diritto della nostra unità nazionale". Infine due deputati, eletti contemporaneamente in due collegi, sciolgono l'opzione: Giovanni Barracco opta per Cotrone e Turrisi per Palermo 2". Il giuramento dei deputati Torrearsa, Costa e Correnti conclude la prima parte della seduta. A questo punto si entra nel vivo dell'ordine del giorno, vertente sull'approvazione definitiva del disegno di legge sulla proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia. Giovanni Battista Giorgini, invitato dalla presidenza, relaziona nel merito a nome della seguente commissione di cui ha fatto parte come segretario: Bettino Ricasoli, Emilio Cipriani, Paolo Paternostro, Gioacchino Pepoli, Didaco Macciò, Pietro Audinot, Giuseppe Natoli e Giovanni Baracco. A conclusione egli ne legge il testo: "Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia". Aperta la discussione, prende la parola Angelo Brofferio il quale, essendo portavoce del partito "democratico", si effonde in una lunga dissertazione per dimostrare la nuova proposta, di maggiore sapore popolare, da sottoporre ad approvazione: "Vittorio Emanuele II è proclamato dal popolo italiano, per sé e suoi successori, re d'Italia". Quindi interviene Pepoli "per insistere vivamente in nome della Commissione sull'opportunità di votare questa legge quasi dire per acclamazione"...... Viene letto il dispaccio telegrafico con cui il generale Cialdini annuncia la resa di Messina e la cattura di cinque generali, centocinquanta ufficiali, quattromila a cinquemila uomini, trecento cannoni. La notizia suscita un coro fragoroso di applausi e di evviva. Segue l'appello nominale dei presenti i quali procedono alla votazione. L'urna dà i seguenti responsi: duecentonovantadue voti favorevoli e due contrari. Questi ultimi vengono subito rettificati in seguito a dichiarazione degli interessati: essi, infatti, pur volendo manifestare la loro volontà favorevole, hanno commesso un errore materiale, ponendo il primo la palla nera nell'urna bianca e la palla bianca nell'urna nera, mentre l'altro ha deposto la palla nera nell'urna bianca, dimenticando di deporre la palla nera nell'altra urna. Pertanto, il presidente può tranquillamente dichiarare che la camera approva all'unanimità. La proclamazione avviene nello scroscio di applausi e di grida "Viva il re d'Italia". Le emozioni della giornata sono state intense durante le tre ore e un quarto di lavori, per cui non c'è tempo per ascoltare le risposte del ministro della guerra Manfredo Fanti alle interpellanze del deputato Alessandro Lamarmora, audizione rimandata alla prossima seduta di giovedì prossimo.
Domenica, 13 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi è accolto entusiasticamente a Salemi, ove alla popolazione locale si associano altri gruppi di insorti e varie squadre di picciotti, di cui una è capitanata da un monaco francescano, fra Giovanni Pantaleo. Proprio la vista di quest'ultimo lo spinge ad inviare ai "preti buoni" l'invito ad unirsi al coro dei combattenti per la patria: "Comunque sia, comunque vadano le sorti dell'Italia, il clero che fa oggi causa comune coi nostri nemici, che compra soldati stranieri per combattere Italiani, sarà maledetto da tutte le generazioni.
Ciò che consola però e che promette non perduta la vera religione di Cristo, si è di vedere in Sicilia i preti marciare alla testa del popolo per combattere gli oppressori.
Gli Ugo Bassi, i Verità, i Guzmarolli, i Bianchi non son tutti morti; ed il di che sia seguito l'esempio di questi martiri, di questi campioni della causa nazionale, lo straniero avrà cessato di calpestare la nostra terra, avrà cessato di essere padrone dei nostri figli, delle nostre donne, del nostro patrimonio e
di noi!". Il giorno dopo, 14 maggio 1860, Garibaldi parla alla folla, esortandola a combattere per l'unità d'Italia. Quindi dichiara di assumere la dittatura della Sicilia nel nome di Vittorio Emanuele II. Le copie del relativo decreto, di seguito trascritto, sono affisse lungo tutte le vie:
"Siciliani, Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde.
Noi siamo con voi! Non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dunque! Chi non impugna un'arma è un codardo e un traditore della Patria. Non vale il pretesto della mancanza d'armi. Noi avremo fucili; ma ora un'arma qualunque basta, impugnata dalla destra d'un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vecchi derelitti.
All'armi tutti. La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà d'un popolo unito".
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