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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La rievocazione è un esercizio duplice e, quindi, necessariamente ambiguo. Da una parte essa costringe, nel momento più amaro del cordoglio, a recuperare una memoria che proprio in questi istanti si preferirebbe tenere a distanza per poter elaborare silenziosamente il dolore del lutto. Dall’altra, tuttavia, la mente sente l’ineluttabilità e la cogenza di questo recupero, e proprio in questo modo comincia ad avere la speranza di poter mettere in secondo piano, o quanto meno, di attenuarne lo strazio.
Mi esprimo così di getto, dando libero corso alla vorticosa fiumana emozionale, perché risulta estremamente difficile tenere ferma l’assenza definitiva di una persona come il preside Felice Borrelli, assenza da cui comunque parte questo esercizio personale di amarezza. Il flusso dei pensieri allora sarà per me fondato sul tentativo di recuperare l’immagine complessiva dell’uomo che è diventato, in anni per me decisivi dal punto di vista professionale ed esistenziale, non un mero punto di riferimento, ma l’assoluta presenza della esemplarità del bisogno di conoscenza, nonché del sostegno affettivo, assoluto. Ancora più paradossale appare, dunque, dal momento che ho appena sottolineato la dimensione presenziale dell’uomo, dover tornare al fatto insostenibile della sua scomparsa, cioè appunto della sua assenza. E’ stato proprio lui in qualche circostanza a farmi intendere il carattere contraddittorio e lacerante dell’esperienza umana, questo suo intricato gioco di rimandi tra opposti, il cui moto ondivago improvvisamente si trasforma in tragico dramma.
Maestro sopraffino, infatti, dell’arte di leggere i testi della tradizione, ma anche a noi molto prossimi, lettore non sofisticato di assurde ed inutili astrazioni, bensì dotato della capacità di intus legere, di leggere dentro in modo empatico e dialogico la grande poesia e la grande prosa, egli aveva estratto da queste lunghe frequentazioni ermeneutiche un sapere, come dice la grande saggista spagnola Maria Zambrano, “dell’anima”. Un sapere cioè inscindibile dai battiti concreti della vita, proprio per questo attento al patirne tutte le contraddizioni, ad individuarne tutti i limiti, ma nello stesso tempo a valorizzarne le sfumature più arcane e, però, essenziali al tentativo di mettere a fuoco la condizione umana in tutta la sua problematica interezza. Tutto quello che di straordinario egli comunicava e trasmetteva era sempre attenuato e quasi ingentilito dalla sua volontà di mettere l’interlocutore a suo agio, tanto da far sembrare le sue indicazioni soltanto delle semplici e leggere note a margine. Sembrava quasi chiedere scusa di essere quello che manifestamente era: un eccezionale evocatore di verità. Ricordo l’umiltà con la quale un giorno mi chiese cosa pensassi di una poesia particolarmente indecifrabile nella sua bellezza di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Naturalmente lui aveva, nel frattempo, letto diverse interpretazioni di quel testo poetico e lui stesso ne aveva delineato una sua personale. Invece di rovesciarmi addosso, tuttavia, l’enorme ricchezza accumulata in molti giorni e notti di lettura, volle che fossi io, liberamente e senza troppi giri retorici, a indicargli uno spunto o una suggestione. Preso alla sprovvista e tuttavia avendo meditato per conto mio su quei versi, ebbi l’immensa felicità di potergli indicare, in seguito a lettura contrastiva dei versi pavesiani, il senso di luce e di liberazione dall’orrore della morte che essi mi avevano trasmesso: gli occhi della fine, di ciò che non ha volto, sono gli occhi della donna amata, ossia di chi supremamente segna il destino dell’uomo, accompagnandolo persino durante la discesa terminale nel “gorgo”. E questo basta per poter continuare ad esistere sperando. La sua commozione, nel sentire queste parole, fu immensa perché aveva individuato anche lui, ben lontano dalle lugubri e fumose elucubrazioni di alcuni sedicenti esperti, una possibilità così semplice e nel contempo così alta di redenzione.
Intanto non riesco a chiudere l’album personale dei ricordi, in quanto la pregnanza umana del preside Felice Borrelli continua a battere alle porte con indomita forza e ne spalanca gli orizzonti prospettici, sui cui nitidi orli si stagliano ulteriori testimonianze egualmente eloquenti del suo magistero che mi porta ancora per qualche attimo a spaziare indietro nel tempo. Fu, infatti, ancora lui, in momenti in cui noi giovani docenti provavamo a portare il Novecento letterario tra i nostri allievi liceali, a segnalarmi dei testi da aggiungere a questo nuovo e difficile canone che andavamo costruendo, dando prova di profondo spirito critico e aperto alle più rivoluzionarie proposte culturali. Da buon conoscitore di Leopardi, mi servì una preziosa dritta nello splendido finale di un romanzo di Carlo Cassola, “Il taglio del bosco”, dove si riverberano illuminazioni decisamente leopardiane. In tal modo il testo suggerito, che noi non ancora avevamo preso nella debita considerazione analitica, divenne oggetto di approfondite letture e di interminabili discussioni in classe, nelle quali fu coinvolto lo stesso autore, di cui conservo gelosamente il relativo intervento in originale.
Maestro non lo dicevo a caso. Maestro anche di una idea completamente diversa di scuola, fondata sul recupero della valorialità e sulla forza dell’esempio, sulla potenza della trasmissione di contenuti non effimeri e sulla necessità di impostare a tutti i livelli e con ogni mezzo il dialogo intergenerazionale, virtù che egli esperiva con disinvoltura in ogni frangente della quotidianità. Sapeva in effetti parlare in maniera chiara con tutti, adoperando la lingua che la circostanza richiedeva, ma senza mai piegarne i significati e la forza plasmatrice alla banalità di un comunicare qualunque. Per questo era sempre e fondamentalmente un uomo “integrale”, per usare un aggettivo caro a Jaques Maritain, ossia tutto ciò che era e faceva compariva nella sintesi continua delle sue parole e delle sue azioni. Nell’epoca che celebra la doppiezza come una dimensione, a mio parere, pessima della verità, lui ha , invece, sempre stroncato ogni forma di simulazione, ha messo al bando ogni forma di ambiguità, ha issato sempre il vessillo della coerenza lungo le ineludibili coordinate della saggezza classica: idem in corde atque in ore. Per questo nessuno di quelli che lo hanno conosciuto ha mai potuto veramente fare a meno di volergli bene. Io ho l’onore, per quanto attraversato dal dolore, di annoverarmi sinceramente tra quelli (Articolo pubblicato su La Tribuna, Anno XXII, 7 - 15 aprile 2010).
Formicola e i suoi casali hanno sempre costituito un solo Comune, governato da uno stesso giudice e da uno stesso barone. Non prima del 1758 il casale di Saffo realizza il suo sogno di diventare autonomo grazie agli appoggi e alle aderenze di Paolo Campagnano il quale, essendo il più ricco della provincia, grazie a questo espediente autonomistico, paga meno tasse di prima. Non a caso non si sa per quale motivo l'avvocato del Comune non rivelò i motivi che dovevano motivare o vietare l'autonomia. Su questa scia si collocò, nel 1771, il casale di Schiavi.
L'opera di Nicola Nicodemo risulta significativa nello scoprire la congiura tramata da molti ribelli, decisi ad uccidere, nella notte del 22 settembre 1701, il viceré Duca di Medina Coeli, ad occupare il regio Castello Nuovo e a consegnare la Città e regno di Napoli nelle mani delle armi austriache, allora nemiche. I fatti si svolsero in maniera diversa dal progetto: la maggior parte dei congiurati fu giustiziata nella mattina seguente del 23 settembre, il Viceré si rifugiò incolume nel real Castello Nuovo, Napoli e il regno non provarono l'onta della disfatta. Il Viceré, a titolo di riconoscenza, concesse a Nicola Nicodemo una gratificazione di tremila ducati, come si evince dal suo "biglietto" del 31 dicembre 1701. A sua volta il re Filippo V vi aggiunse la promozione dell'interessato alla carica di giudice della Vicaria con lo stipendio di mille ducati annuali. Tuttavia la vita fu avara nei confronti di Nicola, il quale morì improvvisamente nel 1704. Allora il re Filippo V, manifestando memoria lunga, concesse ad Angelo, padre di Nicola Nicodemo, i suddetti mille ducati in perpetuum e la facoltà di poterli dividere alla sua morte tra il figlio Ottavio e i nipoti, come attesta il real diploma del 26 luglio 1705. Dopo due anni, però, il 7 luglio 1777 entrano nel regno le armi austriache, le quali tolsero anche alla famiglia Nicodemo il godimento di qualsiasi privilegio. La situazione rimase identica per i ventisette anni del dominio austriaco. Nel frattempo morì Angelo. Tuttavia nel 1734 si ribaltò il dominio straniero e ciò coincise con il riconoscimento a Ottavio e Giuseppe Nicodemo, zio e nipote del giudice, il ripristino degli antichi privilegi, incentrati nei centocinquanta ducati di interesse sui tremila e nei mille ducati, documentati con real carta del 18 giugno 1734. A questo punto la guerra più aspra si accese nelle aule del tribunale del Sacro Regio Consiglio, ove i cugini Francesco Saverio Notargiacomo e Lorenza Nicodemo avanzarono la pretesa di godere dei suddetti privilegi, ritenendo di rientrare a pieno titolo nell'asse ereditario di Nicola Nicodemo.
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